CONTENUTO
Contesto Storico-Politico della Prima Guerra del Golfo
È la sera del 16 gennaio 1991, sono quasi le 19:00 negli Stati Uniti e moltissimi cittadini americani sono nelle proprie case, intenti a cenare. La televisione è accesa, il canale impostato su una delle quattro principali reti notiziarie americane per ascoltare le novità di un nascente ordine internazionale che promette pace e stabilità: il Muro di Berlino è crollato poco più di un anno prima, l’Unione Sovietica sembra avviarsi al collasso e la Guerra fredda è ormai data per conclusa.
La giovane CNN, pioniera con la sua copertura 24 ore su 24, è costantemente in collegamento con Baghdad fin dall’invasione del Kuwait, avvenuta circa cinque mesi prima. Ed è la stessa CNN ad essere la protagonista del conflitto, mandando in onda quella stessa sera le immagini in diretta dell’Operazione Desert Storm appena avviata: per la prima volta nella storia la violenza belligerante viene trasformata in uno spettacolo di luci.
Ritirato dal servizio nel 1990, il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica statunitense, Perry M. Smith, scrive così della CNN e della sua forza mediatica: «Avevano i reporter, i collegamenti satellitari, gli ingegneri, i produttori e i commentatori esperti in loco o pronti all’azione.» Ma questa enfasi mediatica, forse un’esaltazione della ‘prodezza’ americana nel Golfo da parte della CNN, non è l’unico aspetto che ha suscitato discussioni sia a livello nazionale che internazionale.
Una delle questioni più dibattute e complesse è la cosiddetta “green-light” apparentemente concessa a Saddam dall’Ambasciatrice americana Glaspie. In particolare, in contesti diplomatici e politici, la green-light indica che una certa azione non verrà contrastata o, quanto meno, sanzionata da chi la concede: una sorta di “via libera” implicito e non ufficiale. Da un fraintendimento è scoppiata una guerra nel Golfo Persico. Una “semplice” ambiguità diplomatica ha, quindi, destabilizzato ulteriormente un’intera regione, rendendola terreno fertile per la proliferazione del terrorismo fondamentalista islamico e jihadista. Ma è davvero tutto ciò che c’è da sapere sul contesto di questo conflitto?
1980: il Decennio di conflitti e mutamenti in Medio Oriente. Analisi della situazione geopolitica dell’Iraq negli anni Ottanta
Anni Ottanta. Il Medio Oriente è un crocevia di tensioni geopolitiche, frutto della combinazione di conflitti prolungati come quello Israelo-Palestinese (ormai in voga da quasi quarant’anni), rivoluzioni come quella iraniana del 1979 e la radicalizzazione dei Movimenti jihadisti nati ed alimentati dalla guerra in Afghanistan contro l’occupazione sovietica (1979-1989).
Uno dei conflitti più devastanti e destabilizzanti nella regione scoppia il 22 settembre 1980 tra i due colossi del Golfo Persico: l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran dell’appena insediato Ayatollah Khomeini. Iniziata con l’invasione del suolo iraniano da parte delle forze di Baghdad, la violenza tra i due Paesi viene facilmente alimentata da dispute territoriali, tra cui il controllo dello Shatt al-Arab – fiume di grande importanza strategico-commerciale che sfocia nel Golfo Persico e che è ancora oggi sotto il controllo iraniano.
Oltre alle dispute territoriali, le tensioni tra i due colossi sono fortemente legate a questioni e rivalità religiose. Lo stesso Saddam, guida del regime sunnita in Iraq, teme la possibilità di una rivoluzione islamica che possa seguire le orme della Rivoluzione del ‘79 – insurrezione che ha da poco istituito una Repubblica islamica sciita nel vicino Iran.
Nel 1988, al finire del conflitto, si contano gravi perdite umane in entrambi i paesi, rendendo anche difficile stabilire quale dei due abbia subito l’impatto socio-economico maggiore. Saddam, in particolare, accumula enormi debiti stimati tra gli 80 e i 100 miliardi di dollari – debiti dovuti ai tanti prestiti richiesti a Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita e il Kuwait per poter sostenere lo sforzo bellico.
Inoltre, i vari bombardamenti hanno lasciato una scia di distruzione alle infrastrutture in tutto il Paese: gli stessi impianti petroliferi, principale fonte di crescita e ricchezza per gli attori mediorientali all’epoca, vengono gravemente danneggiati tanto dal registrare un calo del prezzo del petrolio negli anni successivi alle ostilità armate tra Iran e Iraq.
Nonostante l’evidente crisi economica e sociale, il regime di Saddam sembra uscirne più forte e stabile – così da permettergli l’oppressione degli oppositori politici e delle minoranze linguistiche, nonché l’eliminazione di potenziali rivali all’interno della sua stessa fazione politica. Politiche repressive che, tra le altre, gli hanno valso il soprannome di “Macellaio di Baghdad”.
Dottrina Reagan: gli Stati Uniti tra Realpolitik e Double Standard. Interessi strategici e politici degli USA in Medio Oriente durante l’Amministrazione Reagan
Ronald Reagan, 40° Presidente degli Stati Uniti (in carica dal 1981 al 1989), è conosciuto in patria come “The Teflon President” – un simpatico nomignolo ormai parte del dizionario politico americano che gioca sulla qualità antiaderente di svariati modelli di padelle (“Teflon pans”, in inglese). Ma perché Reagan viene definito “Presidente antiaderente”?
Durante la vita delle sue due Amministrazioni (1981-1985; 1985-1989), la figura di Reagan viene investita da vari scandali che sembrano “scivolargli” addosso senza mai intaccare la sua popolarità. Uno degli scandali più importanti, nonché quello che sembra quasi far vacillare l’autorevolezza della sua persona e dei suoi funzionari, è l’Iran-Contra Affair, ovvero la vendita segreta di armi all’Iran (sottoposto ad un embargo sulle armi dal 1979), i cui ricavi vengono usati per finanziare un gruppo ribelle in Nicaragua (i Contras, antimarxisti e anti-sandinisti), nonostante l’espresso divieto del Congresso.
A questo si susseguono ed accompagnano altri episodi controversi come il fallimento di migliaia di istituzioni di risparmio a seguito della deregolamentazione attuata dallo stesso Reagan (Saving and Loan Crisis); o, ancora, l’Inslaw Affair – scandalo causato da una confisca illegale di un software strategicamente importante, poi rivenduto a vari governi ed agenzie senza autorizzazione della Società madre, la Inslaw Inc.
Nonostante i diversi ostacoli, la politica estera di Reagan resta stabile e strategicamente focalizzata – probabilmente uno dei motivi principali dietro la sua capacità di evitare gli effetti dei vari scandali, mantenendo la popolarità che lo ha contraddistinto durante la sua carriera presidenziale. La dottrina Reagan, ovvero l’insieme di quei principi e strategie adottate dal Presidente per orientare le proprie scelte in ambito internazionale, è essenzialmente basata su un forte anticomunismo accompagnato da una strategia pragmatica volta a proteggere gli interessi americani – talvolta messi prima di ogni cosa, inclusi i diritti umani, fulcro della dottrina del suo predecessore, Jimmy Carter (1977-1981).
Questa politica di doppia faccia – o double standard come viene definito in America – si traduce in scelte ed alleanze che riflettono un approccio di Realpolitik, ovverosia strategie basate su considerazioni pratiche piuttosto che etiche od ideologiche. È proprio questa la principale linea delle politiche Reaganiane in Medio Oriente.
Durante la guerra Iran-Iraq, gli Stati Uniti, preoccupati per la possibile espansione dell’influenza del radicalismo islamico e rivoluzionario iraniano in Medio Oriente, decidono di appoggiare tacitamente il regime di Saddam. L’Amministrazione Reagan fornisce aiuti militari e intelligence, nonostante le note violazioni dei diritti umani e l’uso di armi chimiche contro i civili da parte delle forze irachene. Tuttavia, Washington condanna senza mezzi termini altri paesi, tra cui l’Iran, per azioni simili o, in qualche modo, meno gravi. Ed è proprio in questo comportamento che la doppia faccia statunitense prende forma.
La strategia Reaganiana ha lo scopo di mantenere un equilibrio di potere nella regione, cercando di contenere un regime con una tale influenza economica e religiosa come l’Iran. Sostenere l’Iraq di Saddam significa poter mantenere quella stabilità nel Golfo, necessaria (se non essenziale) per l’accesso al petrolio.
Il 20 gennaio 1989, George H. W. Bush (d’ora in poi “Bush Senior”) succede alla Presidenza di Reagan, ereditando una serie di questioni complesse in Medio Oriente. Bush Senior, già vicepresidente nell’Amministrazione precedente, è ben consapevole delle dinamiche regionali e della necessità di mantenere relazioni amichevoli con l’Iraq; per questo motivo decide di adottare una certa continuità nella politica estera con la Dottrina Reagan. Tuttavia, questa continuità viene a tratti interrotta per poter far fronte alle nuove realtà post-guerra Iran-Iraq, come la stessa devastazione economica subita dal regime di Saddam.
Bush Senior punta tutto, quindi, su una politica di contenimento verso l’Iraq e la crescente influenza del Rais iracheno, volendo mantenere la stabilità nella regione del Golfo ed evitando un confronto diretto, così che gli interessi americani possano essere protetti senza troppe seccature: pur mantenendo una linea dura, il neoeletto Presidente americano preferisce a più riprese far leva su un approccio diplomatico ed amichevole, come la questione Glaspie dimostra.
April Glaspie: incompetenza o errore strategico? L’incontro con Saddam e la Green-light per l’invasione
1990, 25 luglio. L’ambasciatrice statunitense April Glaspie si trova nel Palazzo Presidenziale di Baghdad, faccia a faccia con Saddam per un incontro diplomatico – forse ignara del fatto che le sue parole avranno, nel giro di otto giorni, un ruolo cruciale nello scoppio di un’escalation devastante nel Golfo.
Durante il fatidico incontro, le dichiarazioni di Glaspie risultano ambigue: sono davvero un via libera per l’invasione irachena del Kuwait? Oppure, Glaspie sta semplicemente cercando di evitare un’escalation adottando un atteggiamento diplomatico cauto nei confronti di Saddam? A seguire, un breve estratto dalla trascrizione dell’incontro chiave tra l’ambasciatrice e il Rais iracheno:
April Glaspie – […] Abbiamo notato che l’Iraq ha schierato un numero massiccio di truppe nel Sud. Solitamente, ciò non sarebbe affar nostro, ma quando accade nel contesto delle tue minacce contro il Kuwait, allora è ragionevole che ci preoccupiamo. Per questo motivo ho ricevuto l’istruzione di chiederti, nello spirito di amicizia – non di confronto – riguardo le tue intenzioni: perché le truppe irachene sono ammassate così vicino ai confini del Kuwait?
Saddam Hussein – Come sapete, da anni mi sono impegnato al massimo per raggiungere un accordo sulla nostra disputa con il Kuwait. […] Quando ci incontreremo (con i kuwaitiani) e vediamo che c’è speranza, allora nulla accadrà. Ma se non siamo in grado di trovare una soluzione, allora sarà naturale che l’Iraq non accetti la sua fine.
April Glaspie – Quali soluzioni riterresti accettabili?
Saddam Hussein – Se riuscissimo a mantenere tutto il Shatt al Arab – il nostro obiettivo strategico nella guerra con l’Iran – faremo concessioni (ai kuwaitiani). Ma, se siamo costretti a scegliere tra mantenere metà dello Shatt e tutto l’Iraq (Kuwait incluso nella visione di Saddam), allora cederemo tutto lo Shatt per difendere le nostre rivendicazioni sul Kuwait e mantenere il Grande Iraq nella forma in cui desideriamo. Qual è l’opinione degli Stati Uniti su ciò?
April Glaspie – Non abbiamo opinioni sui vostri conflitti tra arabi, come la vostra disputa con il Kuwait. Il Segretario di Stato Baker mi ha incaricato di sottolineare l’istruzione, data all’Iraq per la prima volta negli anni ’60, che la questione del Kuwait non è associata all’America.
Le parole pronunciate da Glaspie vengono successivamente interpretate da Saddam (e non solo) come una green-light concessa all’Iraq per l’invasione del Kuwait, portando gravi conseguenze internazionali. Tutt’oggi, come allora, la questione su ciò che Glaspie intendesse o meno dire, nonché su come Saddam abbia interpretato le sue parole, è oggetto di dibattito tra accademici storici e analisti politici.
In particolare, è interessante tener conto di un esempio emblematico di come questa controversa questione abbia infiammato il dibattito internazionale, contribuendo alla nascita di due diverse macro-interpretazioni della politica statunitense nel Golfo Persico.
Nel contesto degli anni e decenni successivi all’operazione irachena in Kuwait, nasce un dibattito tra David Kenner, giornalista e analista specializzato in questioni mediorientali, e Stephen M. Walt, politologo e professore di Relazioni Internazionali alla Harvard Kennedy School. La disputa ha lo scopo di comprendere al meglio le dinamiche dietro le decisioni di Saddam nel 1990, nonché il ruolo che la diplomazia statunitense ha realmente avuto: l’Amministrazione Bush ha effettivamente concesso un via libera attraverso dichiarazioni ambigue? Oppure, è tutto frutto di un errore di valutazione diplomatica?
Kenner, nello specifico, sostiene che le dichiarazioni della Glaspie, accompagnate alle altre comunicazioni diplomatiche statunitensi, hanno fatto credere a Saddam che l’invasione del Kuwait non avrebbe incontrato alcuna resistenza da parte di Washington. Lo stesso Kenner, infatti, sostiene che l’invasione e la successiva Guerra del Golfo sono state frutto di un malinteso che rappresenta nella sua essenza l’incompetenza diplomatica degli Stati Uniti:
«Glaspie non poté usare un linguaggio più conciso perché l’amministrazione di George H.W. Bush non aveva ancora deciso come gli Stati Uniti avrebbero risposto all’invasione irachena del Kuwait […]», così scrive sulla rivista Foreign Policy.
Essenzialmente, la stessa Glaspie non può essere imputata come la causa dietro l’invasione, in quanto è l’Amministrazione americana a non aver ancora definito una linea ferrea e precisa su come comportarsi nei confronti dell’Iraq – un alleato “di convenienza” come Saddam, frutto delle politiche Reaganiane del double standard.
Walt, invece, noto per il suo approccio critico alla politica estera americana, ritiene che l’invasione del Kuwait sia il risultato di errori di calcolo da parte di Saddam e del Governo americano – sottolineando, quindi, come non vi sia alcuna prova che effettivamente confermi l’intenzione degli Stati Uniti di dare un implicito incoraggiamento al regime di Baghdad, né una “semplice” mancanza da parte di Glaspie. In un articolo sulla medesima rivista, egli scrive che:
«Come detto, sembra chiaro che Glaspie non ha sbagliato nel suo incarico: stava facendo ciò che l’amministrazione Bush voleva in questo incontro cruciale. In questo senso, il titolo dell’articolo di Kenner (“Why one U.S. diplomat didn’t cause the Gulf War”) è corretto: non è colpa sua se è scoppiata la guerra. Ovviamente, né il professor Mearsheimer né io abbiamo mai detto che fosse colpa sua. La questione più interessante – e quella che ci preoccupava quando scrivemmo il nostro articolo originale del 2003 – era cosa ci dice quell’incontro sulle decisioni di Saddam. Penso che le informazioni trapelate (rilasciate con il Cablegate su WikiLeaks, le stesse rivelazioni per le quali Assange è stato per più di un decennio sotto il mirino americano) che descrivono quell’incontro siano coerenti con la nostra interpretazione. Saddam è chiaramente irritato, e la maggior parte delle risposte di Glaspie sono tentativi di placarlo. In nessun punto di questi documenti c’è evidenza di un chiaro avvertimento deterrente, o di una dichiarazione inequivocabile di una garanzia di sicurezza americana per il Kuwait. Lei ricorda a Saddam che abbiamo preoccupazioni sulle sue intenzioni – il che non era per lui sicuramente una novità – ma non c’è nemmeno un accenno da parte sua su cosa avrebbe fatto Washington se l’Iraq avesse invaso il Kuwait.»
Le parole di Glaspie sono, quindi, un riflesso della Dottrina Bush – scelte strategiche ben pensate dall’amministrazione di Washington. In particolare, Walt stesso sottolinea come la scelta statunitense sia una mossa logica (ma errata) che semplicemente applica «quello che i teorici delle relazioni internazionali descrivono come un rimedio del “modello a spirale” a una situazione che richiede un “modello di deterrenza”.» Per dovere di cronaca, nel modello a spirale, gli Stati diventano aggressivi a causa della loro insicurezza, che sia essa logica o infondata – rassicurarli, quindi, è il modo più efficace per prevenire la guerra; nel modello di deterrenza, invece, gli Stati sono aggressivi per pura avidità o per motivi ideologici, e l’unico modo per evitare la guerra è presentare una minaccia deterrente credibile.
A prescindere dalle interpretazioni della questione “green-light”, ancora oggi al centro di controversie e dibattiti, essa sottolinea (senza alcun dubbio) l’importanza di chiarezza e precisione nelle comunicazioni diplomatiche, soprattutto se richieste in tempi di crisi: fraintendimenti, ambiguità e poca trasparenza possono, come la storia insegna, sfociare e degenerare in escalation incontrollabili di violenza e distruzione.
2 agosto 1990: il “D-Day” iracheno e la risposta arabo-occidentale. L’invasione del Kuwait e l’avvio dell’Operazione Desert Storm
Sono le prime ore del 2 agosto 1990 – 02:00, ora locale – e 100.000 soldati iracheni, sostenuti da mezzi corazzati e aerei, attraversano il confine con il Kuwait. Le forze kuwaitiane, inferiori in numero, armamenti e potenza, sono rapidamente sottomesse dall’attacco a sorpresa ordinato da Saddam: entro pochissime ore le truppe di Baghdad riescono a conquistare la capitale, Kuwait City, obbligando l’emiro kuwaitiano Jaber Al-Ahmad Al-Sabah a fuggire in Arabia Saudita con la sua famiglia. Una vera e propria operazione lampo.
L’invasione provoca un’immediata e unanime condanna della comunità internazionale che vede nell’operazione del 2 agosto una violazione flagrante del diritto internazionale e delle norme di sovranità degli Stati e dei popoli. In particolare, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) adotta lo stesso giorno la Risoluzione 660, con la quale si condanna l’invasione, richiedendo un ritiro immediato e senza condizioni delle truppe di Saddam dal Kuwait. Una rapidità, da parte del Consiglio di Sicurezza, senza precedenti.
Alla Risoluzione 660 ne seguono altre (661; 662; 665; 678) con lo scopo di aumentare le pressioni sull’Iraq e di farlo cedere senza arrivare, effettivamente, ad un coinvolgimento militare dell’Occidente e degli Stati Uniti. La Risoluzione 678, in particolare, stabilisce un ultimatum – fissato al 15 gennaio 1991 – per il ritiro iracheno, in mancanza del quale tutti gli stati membri avranno l’autorizzazione ad usare ogni mezzo necessario per garantire l’applicazione delle precedenti decisioni prese.
Gli Stati Uniti giocano un ruolo fondamentale nella formazione di una vasta coalizione internazionale, formata da una trentina di paesi, tra cui membri NATO (come l’italia), Stati arabi ed altri storici alleati dell’Occidente. La strategia statunitense, in particolare, è fondata prettamente su una diplomazia multilaterale: l’amministrazione Bush lavora a stretto contatto con l’ONU, tanto che il Segretario di Stato Baker conduce una serie di incontri bilaterali e multilaterali per assicurare unità e collaborazione tra la comunità internazionale.
A ciò si accompagnano negoziati diretti con Stati arabi come l’Egitto, la Siria e l’Arabia Saudita volti ad ottenere sostegno logistico ed economico – come, ad esempio, l’uso di basi militari e il sostegno alle truppe di terra. Da tener conto è che, oltre ad essere una delle coalizioni militari più grandi e diversificate nella storia, la forza multinazionale conta circa 700.000 soldati (di cui la metà, se non più, americani).
L’intervento della Coalizione è diviso in due fasi, di cui una iniziale – la cosiddetta Operation Desert Shield (lett. Operazione Scudo nel Deserto) – e una successiva – ovverosia l’Operation Desert Storm (lett. Operazione Assalto nel Deserto). In una prima fase, immediatamente successiva all’invasione irachena del Kuwait nel 1990, la Coalizione impiega e schiera truppe nel Golfo Persico per proteggere l’Arabia Saudita da un eventuale escalation orizzontale dell’invasione (creando, effettivamente, uno scudo), nonché per preparare quella che poi sarà l’offensiva volta alla liberazione del Kuwait. Le forze congiunte americane e di coalizione portano circa 650.000 soldati e decine di migliaia di rifornimenti e mezzi militari, tra cui carri armati ed aerei usati per sorvegliare e “studiare” l’area in vista della fase successiva.
Il 17 gennaio 1991, a due giorni dallo scadere dell’ultimatum concesso all’Iraq, viene lanciata l’Operazione Desert Storm che culminerà con una vittoria della Coalizione il 23 febbraio 1991, quando il Kuwait verrà liberato. Questo intervento consiste in una massiccia campagna aerea contro le forze di Saddam, durante la quale vengono sganciate circa 88.500 tonnellate di bombe su infrastrutture militari e civili in Iraq e in Kuwait. Il bilancio finale risulta variare tra 2.000 e i 3.000 civili iracheni uccisi, 46 soldati della coalizione morti o dispersi e tra i 10.000 e i 12.000 soldati iracheni neutralizzati.
Consiglio audiovisivo: See how the Gulf War began: ‘The skies over Baghdad have been illuminated’, CNN, (https://www.youtube.com/watch?v=IYURE58xBPE&t=1209s) [Il video è un estratto dalla copertura televisiva dell’inizio della Guerra del Golfo del 1991. Si focalizza sulla notte del 16 gennaio, quando le prime operazioni aeree della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro l’Iraq ebbero inizio. Le immagini mostrano i cieli sopra Baghdad illuminati dai bombardamenti e le reazioni dei giornalisti in diretta, sottolineando l’importanza mediatica di questo evento storico. Il video offre una visione drammatica e immediata del conflitto, mettendo in luce l’impatto delle trasmissioni in tempo reale sulla percezione pubblica della guerra, soprattutto tenendo conto di come la Guerra del Golfo sia stata il primo conflitto nella storia ad essere trasmesso in diretta.]
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- S. Lowry, The Gulf War Chronicles: A Military History of the First War with Iraq, iUniverse, Bloomington, 2008.
- R. Gordon – B. E. Trainor, The Generals’ War: The Inside Story of the Conflict in the Gulf, Little Brown & Co, Boston, 1995.
- J. Bacevich, America’s War for the Greater Middle East: A Military History, Random House, New York, 2016.