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Da Carter a Reagan
Per analizzare la politica di Ronald Reagan appare utile partire da qualche rapida considerazione sulla presidenza precedente, quella del democratico Jimmy Carter (1977 – 1981). Carter, nei suoi anni alla Casa Bianca, cerca di dare un’impronta più idealista alla politica estera statunitense, enfatizzando l’importanza del rispetto dei diritti umani e agendo in particolare in America centrale e Medioriente.
La politica centroamericana dell’amministrazione Carter cade nelle tradizionali contraddizioni in cui gli USA incappano nel rapportarsi con il resto del continente, aggiungendovi la difficoltà di bilanciare la prefissata salvaguardia dei diritti umani con l’assenza di sistemi democratici in quelle aree, che precipitano in sanguinose guerre civili esacerbate dalla logica bipolare della Guerra Fredda.
In Medioriente Carter prende in mano in particolar modo la questione arabo-israeliana, arrivando ad ottenere gli Accordi di Camp David (1978-79) che pacificano i rapporti tra Israele ed Egitto. A fronte di questo successo, però, il presidente subisce un duro colpo con il rapimento del personale dell’ambasciata statunitense in Iran, tenuto in ostaggio dal novembre 1979 al gennaio 1981 dai rivoluzionari khomeinisti. Il fallimento dell’operazione militare di salvataggio ordinata da Carter e la generale inconcludenza nella gestione della crisi abbattono l’umore degli americani e la fiducia verso l’amministrazione.
A ciò si aggiunga che, sul piano del confronto con l’URSS, si incomincia a percepire una certa debolezza della parte occidentale. Quest’impressione è alimentata anche dalla sottoscrizione del trattato SALT II nel 1979: si tratta di un accordo tra USA e URSS per la limitazione del proliferare delle armi nucleari, che però appare a molti debole e poco efficace soprattutto dopo l’intervento sovietico in Afghanistan, tanto che lo stesso presidente Carter (che lo aveva sottoscritto) chiede al Congresso di non procedere alla ratifica rimandandola sine die. La politica estera americana è, in sintesi, in una fase di debolezza, e nel paese serpeggiano la sfiducia e il pessimismo, sintomi di uno stato d’animo negativo mai realmente superato dai tempi della sconfitta in Vietnam.
In questo contesto, nel novembre 1980 viene eletto alla Casa Bianca il repubblicano Ronald
Reagan, che ottiene il 50% dei voti e addirittura il 90% dei grandi elettori. Il grande successo di
Reagan viene attribuito da molti allo scontento diffuso e ai fallimenti non solo dell’amministrazione
Carter, ma in generale dei decenni precedenti.
Il primo mandato: il rilancio degli USA e la nuova politica estera
Con un passato giovanile da attore di successo, Ronald Reagan è eletto governatore della California nel 1966 e ben presto diventa bandiera del conservatorismo statunitense, ottenendo la candidatura repubblicana alle elezioni presidenziali del 1980, poi vinte con ampio margine.
Uno dei più brillanti diplomatici e scienziati politici statunitensi, Henry Kissinger, scrive nel 1994 come Reagan fosse culturalmente poco preparato in storia e in politica estera, campi nei quali esprimeva idee semplici e spesso condizionate dai suoi preconcetti, ma anche come, essendo dotato di grande talento e intuitiva sintonia con i sentimenti americani, sia riuscito ad impostare una postura internazionale coerente e particolarmente significativa (1).
Il rilancio degli Stati Uniti parte, per Reagan, dalla ripresa dell’economia interna: fautore, come Margaret Thatcher, delle idee neoliberiste, il presidente repubblicano realizza una politica economica basata sulla deregulation, la liberalizzazione del mercato e il taglio delle imposte. Oltre che sul fronte interno, secondo Reagan una ripresa massiccia dell’economia avrebbe avuto effetti positivi anche in politica estera: era infatti indispensabile colmare il gap di capacità militare accumulato con l’Unione Sovietica, e per far ciò servivano risorse.
L’amministrazione si dedica dunque ben presto al potenziamento delle forze armate: il Congresso deve approvare bilanci militari sempre più consistenti volti ad ampliare la flotta aerea e marittima, sviluppare nuove armi e missili ad alta tecnologia e così via.
Oltre che su questi dati concreti, la politica di Reagan si basa anche su forti spinte morali e ideali: dopo il Vietnam e gli anni di Carter, in cui i dubbi sulla reale potenza americana si erano fatti sempre più forti, il nuovo presidente si prefigge fin da subito di rilanciare patriottismo e orgoglio nazionale, sostenuti tra le altre cose da un acceso sentimento anticomunista. L’anticomunismo reaganiano è sicuramente duro e intransigente ma, sottolinea sempre Kissinger, basato non tanto sulla convinzione di un’intrinseca cattiveria dell’avversario, quanto sull’idea che egli sia traviato dall’ignoranza e che quindi vada “convertito” ai veri valori della libertà e della democrazia (2).
Reagan, per esempio, torna più volte sul fatto che sarebbe meglio sviluppare i rapporti con Mosca agendo personalmente ai massimi livelli, interagendo direttamente tra leader invece che lasciare spazio alle burocrazie diplomatiche: il presidente repubblicano, infatti, sviluppa una diplomazia personale, fatta di contatti e messaggi diretti al Cremlino, pensando che la comprensione fra i popoli sia alla fine normale e naturale (3) , e che possa essere facilitata da manifestazioni di buona volontà, tanto più forti in quanto provenienti direttamente dalla Casa Bianca.
Queste aperture si scontrano, però, da un lato con il rafforzamento del sistema di sicurezza americano, dall’altro con esternazioni assai nette dello stesso Reagan: il presidente in più occasioni denuncia la violazione sovietica della libertà e della dignità umana, arrivando a coniare, in un discorso ad Orlando (Florida) nel 1983, la celebre definizione di Evil Empire (impero del male).
Momento significativo della politica reaganiana nei confronti dell’URSS è l’annuncio, il 23 marzo 1983, dell’avvio del progetto di creazione della Strategic Defense Initiative (SDI), nota anche come “scudo spaziale”: si tratta di fatto di un sofisticatissimo sistema anti-missile, che avrebbe dovuto agire anche fuori dall’atmosfera e che avrebbe reso sostanzialmente innocui i missili nucleari sovietici. Il progetto era ambizioso e pieno di complicazioni, e ci si chiede fino a che punto l’amministrazione puntasse su una sua reale realizzazione e quanto invece pesasse la componente di deterrenza psicologica.
Il tema delle armi nucleari è ancora centrale, negli anni Ottanta, e dopo la firma del SALT II vengono avviate nuove negoziazioni per limitare i cosiddetti “euro-missili”, ovvero missili a raggio intermedio che avrebbero potuto essere sparati dall’URSS in direzione del territorio europeo, e viceversa (anche se la NATO non possedeva ancora strumenti equivalenti a quelli posseduti dai sovietici).
Durante i negoziati gli Stati Uniti propongono un’opzione zero, ovvero il totale smantellamento di tali sistemi da ambo le parti: di fronte al rifiuto sovietico, però, Reagan rilancia proponendo di ampliare i negoziati verso una riduzione più generale degli armamenti strategici. Hanno così inizio, nel giugno 1982, gli START (Strategic Arms Reduction Talks), in un contesto che vede gli USA in una ritrovata posizione di forza politica, diplomatica e militare.
Nonostante procedano le discussioni sulla riduzioni delle armi nucleari, all’inizio di novembre 1983 una esercitazione della NATO poco conosciuta, denominata Able Archer 83, provoca una crisi e una tensione tale da essere considerata seconda solo alla crisi dei missili di Cuba. L’esercitazione, che avviene in un periodo di crisi nelle relazioni tra Washington e Mosca, è così realistica che allarma fortemente l’Unione Sovietica, tanto da mettere nello stato di massima allerta le sue forze nucleari e aree in Germania Est e in Polonia.
Alcuni storici sostengono che la tensione e il timore causati dal rischio che l’esercitazione Able Archer 83 potesse andare fuori controllo abbia contribuito a far adottare a Reagan un atteggiamento più distensivo nei confronti della sua controparte sovietica.
Il rapporto con Gorbacev e l’avvio della fine della Guerra Fredda
Parallelamente alla “rivoluzione” reaganiana negli Stati Uniti, anche in Unione Sovietica si cerca di inaugurare un diverso corso politico con al centro una nuova personalità, Michail Gorbacev. L’elezione di Gorbacev a Segretario generale del Partito Comunista, quindi di fatto a leader dell’URSS, avviene nel 1985 in un contesto di crisi interna: da qualche decennio si stava manifestando, in particolare, la crisi del modello di economia pianificata, che non permetteva tra le altre cose di creare un circolo di consumo adeguato.
Gorbacev, che era entrato a far parte del governo proprio con deleghe economiche, inaspettatamente viene sostenuto dall’anziano Ministro degli Esteri Gromyko come successore del defunto Konstantin Cernenko, e si mette subito in evidenza come un leader aperto e riformatore. In particolare, secondo molti analisti Gorbacev coglie che il sistema economico sovietico era destinato al fallimento, ed era reso ancor più debole dalla necessità di mantenere lo status di superpotenza in opposizione agli USA con il conseguente altissimo livello di spese militari.
Lo storico inglese Eric Hobsbawm arriva a sostenere che il nuovo leader sovietico si sia reso conto che l’unico modo per evitare il collasso era interrompere la Guerra Fredda con gli Stati Uniti (4). Anche Kissinger propende per una lettura di questo genere, sottolineando che Gorbacev non dava per spacciato il modello sovietico, ma era consapevole della necessità di ingenti riforme per poter raggiungere i livelli di sviluppo del mondo capitalista, riforme sempre ostacolate dalla tensione internazionale (5).
Punto di partenza della nuova politica estera di Gorbacev è l’incontro con Reagan nel novembre 1985 a Ginevra. Questo vertice non produce risultati significativi, e vede entrambi i leader arroccati sulle proprie posizioni – riduzione, se non eliminazione, delle armi nucleari per parte statunitense, sospetti e rifiuto di fare concessioni per parte sovietica – ma segna un cambio di approccio e di comunicazione nei rapporti tra le due superpotenze. Sia Reagan che Gorbaciov sono buoni comunicatori e sanno sfruttare i media, e il clima disteso nel quale si svolge il colloquio viene rilanciato dai mezzi di comunicazione generando nuove aspettative nell’opinione pubblica.
Un secondo incontro Reagan-Gorbacev si tiene a Reykjavík nel 1986: il leader sovietico alza di molto la posta, chiedendo la rinuncia formale al progetto dello “scudo spaziale”, e il presidente statunitense interrompe inaspettatamente i colloqui. Apparentemente fallimentare, il vertice di Reykjavík sortisce invece effetti positivi: da un lato la fermezza di Reagan impressiona i sovietici, che quindi propendono per posizioni più morbide, dall’altro Gorbacev stesso sottolineerà nel 1987 che in quei colloqui si era superata una gestione dei rapporti che spesso si arenava sui singoli dettagli delle questioni sul tavolo per arrivare a dialogare dei grandi temi con prospettive più ampie (6).
A facilitare le cose è la risoluzione del problema dello “scudo spaziale”, cui il Congresso taglia le risorse in misura tale da renderlo irrealizzabile. I due leader si incontrano ancora a Washington nel dicembre 1987, dove si arriva alla firma del Trattato per l’eliminazione dei missili a raggio intermedio o più breve, e infine a Mosca nel 1988. Il vertice di Mosca si svolge in un clima di quasi superamento della Guerra Fredda, in un’atmosfera distesa e ottimista ben rappresentata dalle immagini, diffuse in tutto il mondo, di Gorbacev e Reagan a passeggio nella Piazza Rossa.
Il 20 gennaio 1989 finisce l’esperienza di Ronald Reagan alla Casa Bianca, dove si insedia il suo vicepresidente George H.W. Bush. Sarà quindi Bush senior a gestire per gli USA la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, ma il processo di conclusione della Guerra Fredda era ormai avviato ed instradato dai due mandati di Reagan, che si erano caratterizzati per l’intransigenza e il rilancio nazionale – il primo – e poi per il dialogo e la proficua collaborazione con la nuova controparte sovietica.
Note:
1: O. Barié, Dal Sistema europeo alla Comunità mondiale, Vol. II Tomo II, Celuc Libri, Milano 2017, p. 845
2: Ivi, p. 848
3: Ibidem
4: Ivi, p. 859
5: Ibidem
6: Ivi, p. 863
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- Ronald Reagan, An American Life, Threshold Editions, 2011
- Henry Kissinger, Diplomacy, Simon&Schuster, 2004
- Jack Matlock, Reagan and Gorbacev. How the Cold War ended, Random House Inc, 2004