CONTENUTO
Scrivere un articolo sull’ormai quasi secolare conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina significa addentrarsi in un territorio ostile. Troppe sono le ferite, infatti; troppi gli interessi, da entrambe le parti e a livello mondiale; troppe le promesse, i sogni, i sacrifici di ambedue i popoli; troppa è, anche, l’ideologia che ruota attorno alla questione.
Basti pensare che, pur dedicandosi da più di vent’anni allo studio del tema, chi scrive ha potuto raramente trovare delle fonti obiettive per documentarsi o discutere con persone che avessero a cuore le sorti di ebrei e arabi insieme, non solo degli uni o degli altri. E basti pensare altresì che uno dei libri più esaustivi sulla questione, dal quale abbiamo preso in prestito il titolo di questo articolo e che citiamo in bibliografia, è comunque contaminato dal materialismo storico e dall’ideologia marxista che vedono nel ritorno degli ebrei in Palestina unicamente una conseguenza dell’Olocausto e di interessi politici ed economici, escludendo a priori l’attesa bimillenaria degli ebrei nel mondo.
Non pretendiamo, ovviamente, con il nostro semplice e modesto contributo, di porci al di sopra di storici che vantano ben più alte credenziali delle nostre. Tuttavia scriviamo quanto segue nella speranza che chi leggerà voglia avvicinarsi alla questione in modo non ideologico e approssimativo, quasi stesse partecipando a una partita di calcio e vi fosse una gara tra tifoserie a chi urla di più, bensì in maniera costruttiva e, soprattutto, paterna, ove per paterna s’intende l’atteggiamento di un padre che ama entrambi i figli coinvolti in una lite e che sa che tutti e due hanno delle ragioni e delle colpe – e che i crimini commessi a vicenda dall’uno contro l’altro sono esecrabili – ma desidera fortemente e s’impegna per la soluzione del conflitto tenendo in considerazione l’interesse di entrambi.
Israele e Palestina
Israele. Palestina. Ha-Aretz (in ebraico: la Terra tout court, che è come gli ebrei definiscono il Paese promesso loro da Dio, da Dan, al nord, a Beersheba a sud). Filastìn (in arabo: Palestina). Yerushalayim (nome ebraico di Gerusalemme, ovvero “altura della pace” e, per estensione, città della pace). Al-Quds (la Santa: nome arabo di Gerusalemme).
In questo fazzoletto di terra le cose spesso hanno due o più nomi e le definizioni dei luoghi di questa minuscola regione a cavallo tra Africa e Asia sono altisonanti, danno un senso di assoluto, di divino, quasi tutti gli sguardi del mondo, tutte le attese, gli aneliti e i desideri di miliardi di uomini nella storia confluissero qui e, di fatto, Gerusalemme è la città che conta, dopo Washington, il più alto numero di corrispondenti dall’estero che si occupano di riportarne le cronache ai lettori e ai telespettatori di tutti i Paesi, i quali, quotidianamente e da quasi ottant’anni, attendono novità e sperano di ricevere, prima o poi, qualche buona notizia di pace e di riconciliazione.
Prima di addentrarci più in profondità nella questione arabo-israeliana, è dunque necessario chiarire a chi e a che cosa ci stiamo riferendo. Per essere ancor più precisi, occorrerebbe addirittura parlare prima di tutto di una questione ebraica, che poi diviene ebraico-ottomana e allo stesso tempo ebraico-araba o ebraico-palestinese e, infine, solo dal 1948 arabo-israeliana o israelo-palestinese.
Ebrei o israeliani?
Partiamo da uno di quei presupposti che ogni orientalista alle prime armi deve conoscere. Così come s’impara, durante le prime lezioni all’università, che non tutti gli arabi sono musulmani e che non tutti i musulmani sono arabi, è necessario precisare che non tutti gli ebrei sono israeliani e non tutti gli israeliani sono ebrei.
Chi sono, dunque, gli israeliani? Sono i cittadini dello Stato d’Israele, un Paese dell’Asia occidentale che conta circa 9 milioni di abitanti di cui intorno ai 7 milioni sono ebrei, con una considerevole minoranza (circa 2 milioni) di arabi, in stragrande maggioranza musulmani sunniti ma con una piccola minoranza di cristiani e drusi. Gli israeliani, quindi, sono sia ebrei sia arabi (o palestinesi: sull’utilizzo di quest’ultimo termine rimandiamo alle righe successive) e sia ebrei sia musulmani, drusi, cristiani, ecc.
Gli ebrei (termine che è sinonimo, in italiano, di “israeliti” e non di “israeliani”), invece, sono un gruppo etno-religioso che conta dai 17 ai 20 milioni di persone, la maggior parte delle quali (circa 10 milioni) risiede negli Stati Uniti; ve ne sono, poi, sui 7 milioni in Israele. Ve n’è poi una presenza alquanto consistente anche in Francia (se ne contavano 700 mila all’inizio di questo secolo, ma sono in costante diminuzione), Regno Unito, Russia e altri Paesi. In Italia vi sono circa 45 mila ebrei.
Si definiscono “gruppo etnoreligioso”, e non semplici fedeli di una religione, perché il concetto di etnia e quello di fede religiosa, nell’ebraismo, sono strettamente correlati. Prima della Shoah, o Olocausto, il genocidio che ha sterminato gran parte delle comunità ebraiche d’Europa, era il Vecchio continente la culla di più della metà degli ebrei di tutto il mondo.
Ebrei ashkenazita e sefarditi
Gli ebrei, sia quelli che vivono in Israele, sia quelli sparsi in tutto il mondo, sono, generalmente, suddivisi in due grandi gruppi, in base a differenti fattori che sono, in primo luogo, tutti gli aspetti culturali che li contraddistinguono, come la lingua, le tradizioni, gli usi e i costumi, inoltre le vicissitudini storiche attraverso le quali sono passati, nonché l’ubicazione geografica della comunità alla quale essi appartengono.
Questi due gruppi vengono chiamati “ashkenazita” e “sefardita”[1]. In generale, sono detti sefarditi quegli israeliti che, dopo essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492, dopo la Reconquista definitiva del Paese ai Mori da parte di Ferdinando, re d’Aragona, e Isabella, regina di Castiglia, hanno trovato rifugio in Africa settentrionale, nell’Impero Ottomano, in Egitto, nel Vicino Oriente[2]. Tuttavia, al giorno d’oggi, sono definite sefardite anche le comunità ebraiche dello Yemen, dell’Iraq, della Palestina e di altri Paesi dell’Asia e dell’Africa che poco o nulla hanno a che vedere con i profughi espulsi nel XV secolo dalla Penisola iberica.
Ciò avviene perché, nel XVI secolo, uno studioso e mistico di origine andalusa, Yossef Caro (1488-1575), redasse un codice, chiamato Shulhan Arukh, che raccoglieva tutte le tradizioni, gli usi, i costumi, le regole di liceità e di illiceità, i riti delle comunità ispaniche. Per tutta risposta, un dotto ebreo polacco, Moshé Isserles, conosciuto anche come Haremà, commentò il codice di Caro, sentenziando che alcune delle regole ivi contenute non erano conformi alla tradizione ashkenazita. In questa maniera, si è creata la distinzione fra ashkenaziti e sefarditi[3], che molti definiscono pure, rispettivamente, ebrei europei ed ebrei orientali.
Quanto abbiamo appena espresso non è che una generalizzazione delle tante e tante differenze tra gli ebrei di tutto il mondo, i quali, nonostante tutto, hanno sempre e comunque preservato le radici comuni, il culto e, soprattutto, il nostalgico anelito del ritorno alla Terra promessa, accompagnato dal dolore per l’esilio (componenti, queste ultime, onnipresenti in gesti e parole della vita quotidiana e delle celebrazioni più importanti).
Storia degli ebrei
La diaspora, ossia la dispersione degli israeliti (termine che è sinonimo di “ebreo” e non di “israeliano”) ai quattro angoli del globo era iniziata già tra il 597 e il 587 a.C., con la cosiddetta “Cattività babilonese”, cioè la deportazione degli abitanti dei Regni d’Israele e di Giuda in Assiria e a Babilonia, e con la distruzione del tempio edificato da Salomone, da parte del re Nabucodonosor.
Nel 538, con l’Editto di Ciro, re dei persiani, una parte dei giudei aveva potuto, una volta rientrata in patria, riedificare il tempio, benché numerosi ebrei fossero rimasti a Babilonia o si fossero recati a vivere in altre regioni, processo che continuò in epoca ellenistica[4] e romana.
Fu proprio Roma, tuttavia, a porre fine – e per quasi duemila anni – alle aspirazioni nazionali e territoriali del popolo ebraico, con le sanguinosissime tre Guerre giudaiche. La prima di queste (66-73 d.C.), avviata da una serie di rivolte contro l’autorità romana da parte della popolazione locale, culminò con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio[5], oltre che di altre città e roccaforti militari quali Masada, e la morte, secondo lo storico dell’epoca Giuseppe Flavio, di più di un milione di ebrei e di ventimila romani.
La seconda (115-117) ebbe luogo nelle città romane della diaspora e provocò anch’essa migliaia di vittime. Nella terza (132-135), anche nota come Rivolta di Bar-Kokhba[6], la macchina da guerra romana passò come un rullo compressore su tutto ciò che incontrava, radendo al suolo circa 50 città (compreso ciò che restava di Gerusalemme) e 1000 villaggi.
Non solo i rivoltosi, ma quasi tutta la popolazione ebraica sopravvissuta alla prima Guerra giudaica fu cancellata (vi furono all’incirca 600 mila morti), insieme all’idea stessa di presenza ebraica nella regione, che fu romanizzata persino nella topografia. Il nome di Palestina, infatti, e più precisamente di Syria Palæstina, fu attribuito dall’imperatore Adriano all’ex provincia della Giudea nel 135 d.C., dopo la fine della terza Guerra giudaica[7].
Lo stesso imperatore fece ricostruire Gerusalemme come città pagana, con il nome di Aelia Capitolina, collocando templi alle divinità greco-romane proprio sopra i luoghi santi ebraici e cristiani (ebrei e cristiani erano allora assimilati), e vi impedì l’ingresso a ogni ebreo, sebbene, almeno per i primi secoli dell’era cristiana, una minoranza ebraica sia sopravvissuta nelle campagne della Giudea e soprattutto nelle città sante di Safed e Tiberiade, in Galilea, tanto da risultare nelle cronache dell’epoca che la minoranza israelitica prese parte a massacri di cristiani, d’accordo con i persiani sassanidi[8], nel corso della conquista di questi ultimi all’inizio del VII secolo d.C. e addirittura governò Gerusalemme per 15 anni, prima di finire quasi del tutto massacrata a sua volta e di favorire l’avanzata e la conquista delle truppe arabo-islamiche nel 637.
Ci si domanda, ad ogni modo, come mai non vi sia stata, prima del 1880, data che segna tradizionalmente l’inizio della questione arabo-israeliana – in quest’epoca sarebbe più corretto definirla ancora ebraico-palestinese – un’immigrazione massiccia degli ebrei nella regione, passata, nel frattempo, di mano in mano: romani, persiani, bizantini, arabi, crociati, turchi ottomani.
Certamente per motivi economici (le comunità ebraiche, ormai fortemente urbanizzate e dedite al commercio, si erano insediate stabilmente in molti centri importanti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa mediterranee e avevano intessuto una fitta rete commerciale), ma probabilmente anche religiosi: il Talmud babilonese, infatti (trattato Ketubot, 111a), stabilisce che agli israeliti Dio avrebbe impedito di rivoltarsi contro le nazioni creando un proprio Stato; di immigrare in massa in Terra Santa; di affrettare la venuta del messia.
Queste proibizioni sono alla base della dottrina, rigidamente antisionista e antisraeliana, dei Neturei Karta[9] (Guardiani della città), un movimento ebraico ortodosso che rifiuta di riconoscere l’autorità e la stessa esistenza dello Stato d’Israele.
Ad ogni modo, alla fine del XIX secolo la Palestina era parte della più grande provincia (vilayet) di Siria e la sua popolazione era quasi esclusivamente di lingua araba e di religione islamica (sebbene fossero presenti delle cospicue minoranze cristiane specie in città come Nazareth, Betlemme e la stessa Gerusalemme, dove a volte i cristiani rappresentavano la maggioranza relativa).
Gli ebrei erano solamente 24 mila, cioè il 4,8 per cento della popolazione. Come sudditi ottomani, erano stati considerati (al pari dei cristiani) cittadini di seconda categoria, cioè ḏhimmī, ed erano soggetti al pagamento di un’imposta di capitolazione, detta jizya, e di un tributo sulle terre possedute, Kḫarāj, fino al 1839, quando, in seguito all’Editto (Hatti sherif) di Gülhane, seguito dall’Editto (Hatti) Hümayun (1856) e dall’Islahat Fermani, il sultano Abdülmecit I concedeva piena uguaglianza giuridica con i musulmani a tutti i sudditi non islamici della Sublime Porta, nell’ambito delle famose Tanzimat, riforme liberali ispirate proprio dall’Europa.
Paradossalmente, i germi della questione arabo-israeliana vengono alla luce proprio nel momento in cui, all’epoca delle rivoluzioni liberali e dell’apertura dei ghetti in Europa e delle Tanzimat nell’Impero Ottomano, continuano a verificarsi violenti pogrom e più sottili atti ed episodi di antisemitismo, specialmente in Europa e in Russia, ma anche in Siria e in altre zone del mondo occidentale e orientale.
È allora che nasce e si sviluppa, nell’ambito dei nazionalismi europei e, altresì, come conseguenza della Haskalah, l’Illuminismo ebraico (che vide una rinascita delle lettere e della cultura ebraico-europea), quell’ideologia che è alla base dell’odierno Stato di Israele: il sionismo.
Il sionismo: origine, diffusione e correnti principali
Il termine sionismo[10] è apparso per la prima volta nel 1890, all’interno della rivista “Selbstemanzipation” (“Autoemancipazione”), coniato da Nathan Birnbaum. Si tratta di un termine piuttosto generico, in quanto, nelle sue diverse sfaccettature e nelle visioni dei suoi tanti esponenti, il progetto, o l’ideologia sionista ha sì l’obiettivo appunto l’emancipazione del popolo ebraico, in vista dell’impossibilità della sua assimilazione e integrazione nel Vecchio continente, e tuttavia tale emancipazione può essere su base nazionale e territoriale o anche solo spirituale e culturale.
I suoi primi esponenti, non molto celebri in ambienti non specialistici, sono Yehuda Alkalai (1798-1878), Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874) e Moses Hess (1812-1875), autore di Roma e Gerusalemme, e Yehuda Leib (Leon) Pinsker (1821-1892), fondatore e leader del movimento Hovevei Zion. Costoro sognavano una sorta di redenzione degli ebrei, specialmente delle masse sottoproletarie dell’Europa orientale, attraverso un processo che avrebbe condotto a un’esistenza più libera e consapevole in un insediamento palestinese, sebbene sotto la sovranità del sultano ottomano. Si trattava, quindi, di progetti e di aspirazioni a un’emancipazione economica, sociale e culturale, più che nazionale e territoriale.
Sionista per eccellenza, tuttavia, è considerato il famoso Theodor Herzl (1860-1904). Nativo di Budapest, Herzl era un ebreo completamente assimilato e iniziò a occuparsi della cosiddetta “questione ebraica” solo a partire dal 1894, quando, caporedattore del giornale Neue Freie Presse, si trovava a Parigi come corrispondente.
In quell’anno, proprio a Parigi, scoppiò l’affaire Dreyfuss che, per il carattere antisemita della questione, scosse talmente tanto colui che è considerato il padre fondatore dello Stato di Israele (ove è stato addirittura dato il suo nome a una città fondata nel 1924, Herzliya) da indurlo a riflettere sulla questione ebraica (che non pare aver destato i suoi interessi prima di allora) e a scrivere un libretto intitolato Der Judenstaadt (Lo Stato degli ebrei), in cui immagina, fin nei minimi dettagli, come possa essere fondato e costruito uno Stato completamente ebraico.
Per lui, infatti, quella ebraica non è più solamente una questione religiosa, culturale o sociale, bensì nazionale: gli ebrei sono un popolo e devono avere un territorio tutto loro per sfuggire al millenario antisemitismo che li perseguita. Così, fondò, nel 1897, in occasione del primo Congresso sionista di Basilea, l’Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization), i cui scopi rispecchiavano le linee programmatiche adottate all’interno del medesimo congresso, ovvero il “Programma di Basilea”. Tale programma si prefiggeva la creazione di uno Stato ebraico in Palestina, legalmente riconosciuto a livello internazionale.
C’è da dire che la Palestina non era l’unico territorio preso in considerazione. Anche l’Argentina, in quanto ricca e scarsamente popolata, era stata suggerita da Herzl quale rifugio sicuro per il popolo ebraico, oltre a Cipro o all’Africa del Sud. Dopo aver poi proposto al sultano Abdülhamid di risanare i debiti dell’Impero Ottomano in cambio della Palestina ed essersi visto rifiutare la proposta, Herzl si rivolse alla Gran Bretagna, optando, quali possibili territori per un futuro Stato ebraico, per la penisola del Sinai (la costa di Al-Arish) o l’Uganda, tutti progetti andati in fumo dopo la sua morte nel 1904.
Scrivevamo più sopra che il sionismo non costituisce affatto un blocco monolitico o un progetto per il quale sussiste un’identità di vedute da parte di tutti i suoi esponenti.
Tra le sue correnti principali, citiamo le seguenti:
- Sionismo territorialista (o neoterritorialista): i suoi sostenitori, guidati dallo scrittore e drammaturgo ebreo inglese Israel Zangwill (1864-1926), respingevano l’idea di un legame storico tra gli ebrei e la Palestina, così come tra lo stesso sionismo e la Palestina e, tramite la Jewish Territorial Organization, fondata dal medesimo Zangwill, si erano messi alla ricerca di un territorio adeguato da assegnare al popolo ebraico in vista di un insediamento stabile. Tra le possibilità di colonizzazione si ipotizzavano: Angola, Tripolitania, Texas, Messico, Australia. Ovviamente, il territorialismo e il neo-territorialismo non sopravvissero alla creazione dello Stato d’Israele.
- Sionismo spirituale: il principale esponente di tale corrente è stato Asher Hirsch Ginzberg (1856-1927), noto come Ahad Ha-Am (in ebraico: uno del popolo). Studioso della Torah e del Talmud, abbandonò definitivamente la fede e si dedicò con passione allo studio di una soluzione per la questione ebraica. Egli era, tuttavia, convinto che la Palestina non rappresentasse la soluzione ideale poiché, in primo luogo, non era in grado di accogliere tutta la popolazione ebraica mondiale e, in secondo luogo (e fu tra i pochi a dichiararlo) quella regione era già occupata da un altro popolo semita, gli arabi, per il quale nutriva rispetto e ammirazione, tanto da scrivere, dopo l’uccisione di un ragazzo arabo da parte di alcuni ebrei: “Ebrei e sangue: esistono due termini più antitetici di questi? […] Oggi si sta diffondendo nel popolo ebraico una tendenza a sacrificare, sull’altare del ‘ritorno’, i suoi profeti, i grandi principi morali per i quali il nostro popolo ha vissuto e sofferto e per i quali solamente ha ritenuto valesse la pena di operare per divenire di nuovo un popolo della terra dei suoi padri”[11]. E ancora, dopo essere emigrato in Palestina e aver contribuito alla promulgazione della Dichiarazione Balfour (1917), aderendo ai principi del sionismo binazionale: “Il diritto storico del popolo ebraico non annulla il diritto degli altri abitanti del Paese, i quali hanno un diritto reale al Paese dovuto a generazioni di residenza e di lavoro in esso. […] La sede nazionale del popolo ebraico deve costruirsi […] senza distruggere con ciò la sede nazionale degli altri abitanti”[12].
- Sionismo binazionale, i cui principali esponenti sono stati Judah Leon Magnes (1877-1948) e il famoso Martin Buber (1878-1965). Buber, in particolare, sosteneva che sionismo e nazionalismo non hanno nulla a che vedere, anzi, che il sionismo dovesse essere una “potenza dello spirito” che s’irraggiasse da un centro che era individuato a Gerusalemme e da cui si effondesse in tutto il mondo a vantaggio dell’umanità intera. Pertanto, non era pensabile che fosse fondato uno Stato nazionale a base esclusivamente ebraica. Ebrei e arabi avrebbero dovuto, invece, convivere pacificamente in uno Stato binazionale in cui entrambi vedessero realizzate le legittime aspirazioni. Anche dopo la creazione dello Stato d’Israele, Buber si oppose energicamente alle politiche adottate dai governi del suo nuovo Paese nei confronti della minoranza araba.
- Sionismo socialista, la cui finalità era quella di liberare definitivamente il popolo ebraico dalla sua secolare sottomissione attraverso non solamente l’emigrazione in massa in Palestina, ma la costruzione di uno Stato proletario e socialista. Dov Ber Borochov (1881-1917), principale rappresentante di tale corrente, insisté particolarmente su un punto: la Palestina era abitata da un popolo poco numeroso e sparso in esigue aree abitate, del tutto inconsapevole di essere un popolo. Attraverso un’azione di stampo marxista, andava imposta, da una popolazione più “avanzata” – e che conservasse una posizione dominante – a un’altra, più duttile e retrograda, l’assimilazione economica e culturale.
- Sionismo armato (revisionista), il cui massimo teorico e fautore è stato l’ebreo russo Vladimir Ze’ev Jabotinsky (1880-1940). Costui creò nel 1920 la Legione ebraica e nel 1925 un partito di estrema destra, l’Unione mondiale dei sionisti revisionisti (Zohar) da cui derivarono organizzazioni terroristiche quali l’Irgun Zevai Leumi (Organizzazione militare nazionale) e il Lehi (Lohamei Herut Israel), più noto come Banda Stern. Questa forma di sionismo vedeva nella lotta armata l’unica forma per garantire agli ebrei l’ottenimento di uno Stato; una lotta armata che doveva essere sia contro la potenza mandataria (la Gran Bretagna) sia contro la popolazione araba. Tra le altre cose, i revisionisti respingevano categoricamente ogni forma di socialismo e marxismo. Molti hanno visto in questa forma di sionismo quella che ha finito per prevalere sulle altre e che ha permeato diverse strutture dello Stato d’Israele, in particolare la dottrina di partiti e movimenti politici quali il Likud, partito di Menahem Begin, Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu.
Provando a tracciare un primo bilancio rispetto al sionismo, possiamo affermare che, almeno fino al 1918, esso non ebbe molta presa tra gli ebrei del mondo. Le cifre dei flussi migratori in Palestina tra il 1880 ed il 1918 attestano l’arrivo di 65 mila-70 mila ebrei; tra il 1919 ed il 1948 ne arrivarono 483 mila. Solo tra il 1948 ed il 1951, invece, immigrarono nel neonato Stato ebraico 687 mila persone.
Nel complesso, tra il 1948 e il 1991 sono giunte in Israele ben 2 milioni 200 mila anime, anche se, dopo il 1951, i flussi si sono fortemente attenuati, ma solo fino alla fine degli anni ‘80, periodo della grande immigrazione dall’ex Unione Sovietica. In particolare, numeri alla mano, si evince un dato fondamentale: solo a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, e quindi dalla fondazione dello Stato d’Israele, si è registrato un impressionante aumento dei flussi migratori, il che fa pensare che, a convincere gli ebrei del mondo del rischio di continuare a vivere nella diaspora, non sia stata tanto l’ideologia sionista, quando una delle maggiori catastrofi della storia: l’Olocausto. Se così non è stato, di certo la Shoah ha rappresentato il colpo finale alle speranze di assimilazione di molti ebrei europei.
Eretz Israel: emigrazioni verso la Palestina
La prima emigrazione importante di ebrei europei verso la Palestina ebbe luogo a partire dal 1881. È curioso notare come l’idea di lasciare il proprio Paese per andare a vivere in Palestina – dopo il 1948, Stato d’Israele – corrisponda, per un ebreo, al concetto di ritorno e, ancor più, a un’esperienza religiosa paragonabile a un pellegrinaggio.
E in effetti, in ebraico, “immigrazione in Israele” e “pellegrinaggio” sono omonimi: per definirli si usa il termine ‘aliyah (עלייה), che significa “ascesa”, “ascensione”. Gli ebrei che compiono questa immigrazione e questa ascesa si definiscono ‘olìm (עולים – dalla stessa radice “על”, “‘al”), cioè “coloro che salgono”. Addirittura, il nome della compagnia di bandiera israeliana El Al (אל על), vuol dire “verso l’alto” (e con un doppio senso: “alto” è il cielo, ma “alta”, rispetto a tutto il resto del mondo, è anche la Terra d’Israele, verso cui gli aerei della El Al conducono i passeggeri).
L’anno d’inizio di tale fenomeno coincide con una serie di pogrom contro gli ebrei russi, seguiti all’assassinio a San Pietroburgo, il 1° marzo 1881, dello zar Alessandro Romanov da parte di membri dell’organizzazione rivoluzionaria Narodnaja Volja. Tale gesto, benché uno solo tra i membri dell’organizzazione stessa fosse ebreo, scatenò ira e vendette su tutti gli israeliti dell’Impero Russo, costringendo un milione di persone a fuggire, in gran parte negli Stati Uniti, ma anche in altre regioni del mondo tra cui, in minima parte, la Palestina.
Alcuni di questi profughi fondarono un’organizzazione chiamata Bilu (dalle iniziali di un versetto di Isaia: “Beth Yaakov, lekhù ve nelkhà”, che significa “Casa di Giacobbe, venite, camminiamo!”), i cui componenti furono chiamati biluìm e che rappresenta il primo nucleo sostanziale di ‘olìm. Essi poterono insediarsi grazie all’aiuto di ricchi filantropi come il barone de Rothschild o di organizzazioni sioniste quali la russa Hovevei Zion oppure la Jewish Colonization Association.
La seconda ‘aliyah, invece, si verificò a partire dal 1905, dopo il fallimento della prima Rivoluzione russa e la pubblicazione dell’opuscolo Protocolli dei Savi di Sion, da parte della polizia segreta zarista, un falso documentale attribuito a una presunta organizzazione ebraica e massonica per diffondere l’idea di un complotto ordito dagli ebrei per impadronirsi del mondo.
Questa seconda ‘aliyah, i cui membri avevano idee più marcatamente socialiste rispetto a quelli della prima, andò a incrementare la presenza ebraica in Palestina, grazie anche all’acquisto di larghe estensioni di terreni agricoli, ottenute grazie all’aiuto delle già citate organizzazioni internazionali, le quali in molti casi pagavano generose tangenti ai funzionari ottomani e ai latifondisti locali cui, in teoria, era vietato vendere terreni agli stranieri occidentali. Gli stessi terreni, peraltro, erano già abitati o in uso ai fellah, i contadini arabi che da generazioni vi vivevano, pur senza averne mai rivendicato legalmente la proprietà, come vedremo più avanti.
È di quest’epoca la fondazione di città come Tel Aviv (1909) e di villaggi agricoli di due distinte tipologie:
- Kibbùtz (dalla radice ebraica קבץ, kavatz, “raccogliere”, “raggruppare”), un tipo di azienda agricola (in alcuni casi anche ittica, industriale o artigianale) i cui membri si associano volontariamente e decidono di sottoporsi a rigide regole egualitarie, la più nota delle quali è il concetto di proprietà collettiva. All’interno del kibbùtz i profitti derivanti dal lavoro agricolo (o di altra tipologia) vengono reinvestiti nell’insediamento dopo che ai membri sono stati forniti cibo, vestiario, alloggio e servizi sociali e medici. Gli adulti hanno alloggi privati, ma i bambini sono generalmente alloggiati e accuditi in gruppo. I pasti sono sempre in comune e i kibbùtz (il primo è stato fondato a Deganya nel 1909) sono generalmente stabiliti su terreni affittati dal Jewish National Fund, che detiene la proprietà di molta della terra dell’attuale Stato d’Israele. I membri convocano riunioni collettive settimanali in cui si determinano le politiche generali e si eleggono gli amministratori.
- Moshàv (dalla radice ebraica שוב, shuv, “insediarsi”), anch’esso, proprio come il kibbùtz, un tipo di insediamento agricolo cooperativo. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, nel moshàv vige il principio della proprietà privata dei singoli appezzamenti di terra che costituiscono l’azienda. Anche il moshàv è costruito su terreni appartenenti al Jewish National Fund o allo Stato. Le famiglie vivono in maniera autonoma.
All’interno dei nuovi insediamenti agricoli e urbani, gli ‘olìm, ancora sudditi dell’Impero Ottomano, dovevano imparare a vivere in modo nuovo. Vi era anzitutto il problema della diversa provenienza geografica e culturale: la comunità ebraica di più antico insediamento, quella palestinese sefardita, poi arricchitasi di alcuni primi gruppi giunti dallo Yemen, dall’Iraq, dal Marocco e dalla Georgia si trovava ora a fronteggiare l’arrivo di europei, in gran parte ashkenaziti, con cui poco o nulla aveva in comune.
Occorreva, dunque, una lingua per comunicare, e si cominciò a utilizzare quella ebraica biblica. Pioniere del progetto di rinascita di tale idioma fu Eliezer Ben Yehuda (1858-1922), ebreo di origine russa e immigrato in Palestina, il cui figlio divenne il primo bambino di lingua madre ebraica dopo migliaia di anni.
La rinascita di una lingua vecchia di tremila anni e ormai in disuso da due millenni fu una delle avventure più incredibili della storia, anche per via della necessità di adattare un idioma il cui lessico, povero e basato più che altro sulle Sacre Scritture e sulle liriche antiche, aveva bisogno di essere completamente reinventato e adattato a una pronuncia moderna che risultò essere un compromesso tra quelle adottate dalle varie comunità disperse intorno al mondo.
Si creava, quindi, la base di un uomo nuovo, del futuro israeliano[13], che spesso cambiava nome, adottandone uno più “semitico”, rifiutava di tornare a parlare la lingua europea che aveva parlato fino a quel momento e doveva essere diverso rispetto al tradizionale ebreo sottomesso dei ghetti europei o delle mellah marocchine: un uomo forte, abituato al lavoro nei campi, la cui pelle chiara e delicata doveva essere rosolata dai roventi raggi del sole mediorientale e le cui membra andavano temprate dalla fatica di strappare terra e acqua al deserto. Non a caso, ancora oggi i nativi dello Stato d’Israele si chiamano tzabra (“fico d’India”, in ebraico) e si caratterizzano per i modi spicci rispetto alle affettate maniere degli antenati dei ghetti.
Occorreva, tra l’altro, vista la crescente resistenza non tanto degli ottomani, quanto della popolazione araba già residente in Palestina, qualcuno che custodisse e vigilasse sulla sicurezza dei coloni. Così, sempre nel 1909 nacque lo Ha-Shomer (Corporazione dei guardiani), per sorvegliare gli insediamenti in cambio di un salario, poi confluito, nel 1920, nella celebre Haganah, la quale si formò in seguito ai moti arabi di quello stesso anno.
Arabi o palestinesi?
Come scrivevamo a proposito del significato dei termini “ebreo” e “israeliano”, è bene fare un’analoga distinzione tra la parola “arabo” e la parola “palestinese”. La prima indica, in primo luogo, un abitante della Penisola arabica e, per estensione, è passato a designare chiunque, al giorno d’oggi, parli la lingua araba, benché, a questo proposito, sarebbe più corretto utilizzare l’aggettivo sostantivato “arabofono”.
In effetti, molte delle persone che oggigiorno usano l’arabo come prima lingua non sono arabe in senso stretto, bensì “arabizzate”. Gli abitanti del Nord Africa, ad esempio, sono per lo più di origine berbera (camitica); gli egiziani sono in gran parte di origine copta (discendenti, appunto, degli antichi egizi, una popolazione che parlava anch’essa una lingua camito-semitica); gli abitanti del Vicino Oriente arabo, poi, parlavano, prima della conquista da parte dei seguaci del profeta dell’islam, una serie di lingue semitiche quasi tutte estinte, tra cui la più celebre e diffusa era l’aramaico. Le popolazioni che vivevano negli attuali Paesi arabi, inoltre, erano, prima della conquista islamica, per la stragrande maggioranza cristiane.
Al momento dell’arrivo dei seguaci del profeta Maometto, dunque, anche la regione siro-palestinese, soggetta all’Impero bizantino ma messa a dura prova dalla precedente incursione sassanide (che tra l’altro si era accanita con particolare livore contro i luoghi santi cristiani) era cristiana. In un nostro precedente articolo abbiamo analizzato alcune ragioni per cui, nelle terre sottomesse all’islam, gran parte della popolazione cristiana (e, in questo caso, anche ebraica) decise di sottomettersi alla fede del conquistatore[14].
La regione, come abbiamo visto, fu occupata e ceduta varie volte nella storia, facendo parte prima del califfato omayyade, poi di quello abbaside e poi ancora di quello dei fatimidi d’Egitto; in seguito, dopo essere stata dominata da diversi regni crociati e aver visto le gesta di Saladino, che riconquistò Gerusalemme nel 1187, tornò definitivamente nelle mani dei musulmani con i turchi selgiuchidi, e successivamente, degli ottomani. Nel 1540, sotto il regno di Solimano il Magnifico, furono costruite le mura della città vecchia di Gerusalemme che ammiriamo ancora oggi.
Alla fine del XIX secolo l’area faceva quindi parte dell’Impero ottomano (vilayet di Siria) ed era divisa in tre sangiaccati. Il nome “Palestina” era usato in maniera approssimativa per definire sia quella che oggi conosciamo come area israelo-palestinese sia parte della Transgiordania e del Libano e gli abitanti della zona, i quali, come abbiamo visto, erano quasi totalmente di lingua araba e di religione islamica sunnita, erano concentrati soprattutto a Gerusalemme e dintorni e in alcune città della Giudea (oggi Cisgiordania) e della Galilea.
Sebbene la stragrande maggioranza (poco meno dell’80%) della popolazione fosse musulmana, vi era una considerevole minoranza cristiana (16% circa, prevalentemente a Betlemme, Gerusalemme, Nazaret), una piccola minoranza ebraica (4,8%) e un’ancor più piccola presenza drusa.
Gli abitanti si consideravano allora come parte dell’Impero ottomano e il nazionalismo arabo, e solo dopo palestinese, non era che un germe nelle menti di pochi esponenti delle classi abbienti. Vero è che l’acredine nei confronti della Porta e del suo sempre più esoso sistema di tassazione cresceva, anche e soprattutto in seguito alla riforma fondiaria del 1858 (Arazi Kanunnamesi), varata nell’ambito delle Tanzimat.
Tale decreto aveva lo scopo di far recuperare all’autorità centrale il controllo sulle terre che, nel corso dei secoli, erano sfuggite alla sua longa manus e si trovavano nelle mani di privati o di contadini non in grado di rivendicarne il diritto legale.
Questa riforma, tuttavia, non fece che accrescere il potere di grandi proprietari latifondisti, i quali poterono esibire falsi certificati di proprietà per ingrandire ulteriormente i propri latifondi, favoriti, tra l’altro, dagli stessi piccoli proprietari terrieri, dalle tribù e dalle collettività di contadini (in arabo: fellah), che, sebbene insediati da secoli su determinate estensioni di terreni, temevano un’ancor più esosa tassazione, qualora ne fossero divenuti i proprietari legittimi, oltre che la coscrizione. Da qui la facilità, per le ricche fondazioni ebraiche internazionali, di acquisire grandi estensioni di terreno presso i latifondisti locali.
Il risveglio nazionale arabo e islamico
Curiosamente, il risveglio nazionale arabo, coincise quindi con quello ebraico, in un primo momento per fattori diversi, ma poi per uno scontro diretto tra i due, e proprio in Palestina, data la crescente presenza nella regione di ebrei che andavano a insediarsi in terre precedentemente occupate da contadini arabi. Fino al XIX secolo, infatti, ovvero prima delle Tanzimat, gli arabi musulmani erano considerati, alla stregua dei turchi, cittadini di prima categoria di un Impero che non si ergeva su base etnica, bensì religiosa.
Vi sono, dunque, tre fattori fondamentali alla base della nascita del fenomeno nazionalista arabo:
- Le riforme chiamate Tanzimat avevano provocato una reviviscenza del nazionalismo turco (anche chiamato “panturanismo”) che sarebbe sfociato nei genocidi armeno, assiro e greco (da notare: non in quello arabo, dato che il criterio adottato per i massacri di popolazioni minoritarie all’interno di determinate aree dell’Anatolia non fu meramente etnico, per come in occidente s’intende questo concetto, bensì soprattutto religioso. Furono risparmiati, infatti, coloro che erano musulmani o si convertivano all’islam, benché di lingua diversa da quella turca).
- L’afflusso di migliaia di ebrei in Palestina, dal 1880 in poi, e della facilità con cui questi ultimi divenivano proprietari di latifondi della zona.
- Il colonialismo europeo, che spinse intellettuali e scrittori islamici come Jamal al-Din Al-Afghani (ca. 1838-1897) e Muhammad Abduh (1849-1905) a divenire fautori del progetto conosciuto come Nahdha, o risveglio culturale e spirituale del mondo arabo islamico, attraverso una maggiore consapevolezza del proprio patrimonio letterario, religioso e culturale ma anche mediante un ritorno alle origini, una riscoperta dell’epoca d’oro in cui gli arabi non erano oppressi (concetto, questo, alla base del pensiero salafita).
Il Nazionalismo panarabo e panislamico
La maggior presa di consapevolezza degli arabi in generale, e di quelli di Palestina in particolare, condusse alla formazione di due correnti di pensiero contrapposte:
- Nazionalismo panarabo, o panarabismo: più o meno coetaneo del sionismo e la cui nascita è localizzata tra il Libano e la Siria. Tale ideologia è fondata sulla necessità di un’indipendenza di tutti i popoli arabi uniti (fattore unificante è la lingua) e in cui tutte le religioni abbiano pari dignità di fronte allo Stato. È, quindi, una forma di nazionalismo laico e, in ciò, molto simile ai nazionalismi europei, tanto che tra i suoi fondatori vi è Negib Azoury (1873-1916), un arabo cristiano maronita che aveva studiato a Parigi, presso l’École de Sciences Politiques. Ne saranno esponenti, successivamente, pensatori e politici quali: George Habib Antonius (1891-1942), cristiano; George Habash (1926-2008), cristiano, fondatore del Movimento Nazionalista Arabo e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, poi confluita nell’OLP; Michel Aflaq (1910-1989), cristiano, fondatore, insieme al musulmano sunnita Salah al-Din al-Bitar, del partito Baath (quello, per intenderci di Saddam Hussein e del presidente siriano Bashar al-Asad); e lo stesso Gamal Abd Al-Nasser (1918-1970).
- Nazionalismo panislamico, o panislamismo: anch’esso nato nello stesso periodo, abbiamo visto da pensatori quali Jamal al-Din Al-Afghani e Muhammad Abduh, ma che si propone di unificare tutti i popoli islamici (non solo arabi) sotto l’insegna della fede comune e in cui, ovviamente, l’islam ha un ruolo preponderante, una dignità più elevata e un completo diritto di cittadinanza, a discapito delle altre religioni. Ne saranno esponenti, tra gli altri: Hasan al-Banna (1906-1949), fondatore dei Fratelli Musulmani, che pare sia stato fatto giustiziare proprio dai servizi segreti egiziani di Nasser; il famigerato sceicco Amin Al-Husseini (1897-1974), anch’egli membro dei Fratelli musulmani e uno tra i precursori del fondamentalismo islamico, che espresse attraverso i suoi proclami antiebraici e la sua vicinanza ad Adolf Hitler.
Il nazionalismo sia panarabo che panislamico iniziò a diventare “locale”, o meglio, a identificare un problema palestinese in contrapposizione alla crescente presenza ebraica in Palestina, con Rashid Rida (1865-1935), musulmano siriano che, conquistato dalle idee di Al-Afghani e Abduh, si convinse della necessità di un’indipendenza araba, pur identificando l’arabismo con l’islam, elementi, a suo avviso, legati indissolubilmente.
Fondatore del periodico Al-Manar, fu autore del primo articolo antisionista, in cui accusò di immobilismo i propri compatrioti affermando che “gli squattrinati del più debole dei popoli, che tutti i governi hanno espulso”, hanno preso possesso del Paese “per crearvi colonie e ridurre i suoi padroni a lavoratori salariati”[15]. Proprio a partire da Rashid Rida germogliò una specifica coscienza nazionale palestinese all’interno del nazionalismo panarabo e panislamico. Di Rida, tra l’altro, fu allievo al Cairo lo sceicco Al-Husseini.
È importante citare le due correnti di pensiero scaturite dal risveglio nazionale arabo prima e palestinese poi, poiché della prima è praticamente figlia l’OLP, con il movimento Fatah (quello di cui è stato leader Yasser Arafat e di cui è membro l’attuale presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen); della seconda, invece, è diretta discendente Hamas. Le due correnti sono al giorno d’oggi aspramente in lotta fra loro e ognuna rivendica di essere la legittima rappresentante del popolo palestinese e delle sue aspirazioni.
Le troppe promesse e la Prima guerra mondiale
La presenza delle potenze occidentali all’interno dei territori governati dall’Impero ottomano non risale certo alla fine del XIX secolo. Già dal XV secolo, infatti, diversi Stati europei stipularono dei trattati con la Porta al fine di garantirsi dei privilegi. È il caso della Repubblica di Genova (1453, subito dopo la conquista ottomana di Costantinopoli), seguita da Venezia (1454) e da altri Stati italiani.
Fu poi la volta della Francia, che strinse vari accordi con l’Impero Ottomano, il più importante dei quali nel 1604. Tutti questi patti bilaterali siglati tra la Sublime Porta e gli Stati europei presero il nome di Capitolazioni e prevedevano che, in materia religiosa e civile, i sudditi stranieri presenti all’interno dei territori ottomani, facessero riferimento ai codici dei Paesi di cui erano cittadini, imitando il modello conosciuto come millet[16].
Poiché, tradizionalmente, la Chiesa cattolica latina non era molto presente all’interno dei territori ottomani, le Capitolazioni, specie gli accordi con la Francia, favorirono l’afflusso di missionari cattolici. Altre potenze – tra cui in particolare l’Impero austro-ungarico ma più avanti soprattutto la Germania, storica alleata di Costantinopoli anche nella Prima guerra mondiale – iniziarono a rivaleggiare fra loro nel campo della protezione delle minoranze non musulmane dell’Impero, ed è in tale gioco che si inserisce, all’inizio del XX secolo, la Gran Bretagna, rimasta fino a quel momento a bocca quasi asciutta perché non aveva trovato minoranze da proteggere.
Se la politica internazionale europea aveva cercato, fino a quel momento, di tenere in vita quel “grande malato” che era l’Impero ottomano, l’entrata in guerra di Costantinopoli a fianco dell’Impero germanico e contro le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Russia e Francia) spinse queste ultime ad accordarsi sulla spartizione della “carcassa del turco”.
È qui che cominciò la grande partita delle nazioni proprio sul futuro dei popoli che erano stati soggetti alla Sublime Porta. Citiamo, in particolare, una serie di accordi e dichiarazioni che riguardano più da vicino la zona mediorientale di nostro interesse:
- Accordo Hussein-McMahon (1915-1916): la sostanza di tale accordo, contratto tra lo sceriffo Hussein della Mecca (antenato dell’attuale re di Giordania Abdallah) e sir Arthur Henry McMahon, Alto commissario britannico in Egitto, era che la Gran Bretagna, in cambio di supporto nel conflitto contro i turchi e di concessioni economiche importanti, si sarebbe impegnata a garantire, dopo la fine della guerra, l’indipendenza di un regno arabo che si estendesse dal Mar Rosso al Golfo Persico e dalla Siria centro-meridionale (quella settentrionale rientrava negli interessi francesi) allo Yemen, con a capo proprio lo sceriffo della Mecca.
- Accordo Sykes-Picot. Tale accordo veniva stipulato tra la Gran Bretagna, nella persona di sir Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, parallelamente alle trattative con lo sceriffo della Mecca Hussein, a testimoniare quanto la politica ambigua e cieca degli Stati europei nella zona, seguiti successivamente dagli Stati Uniti, abbia provocato, nel corso del tempo, danni devastanti. I patti prevedevano che l’ex Impero ottomano (nella parte orientale, ossia parte della Cilicia e dell’Anatolia, insieme con le attuali Palestina/Israele, Libano, Siria e Mesopotamia) sarebbe stato diviso in Stati arabi sotto la sovranità di un capo locale, ma con una sorta di diritto di prelazione, in materia politica ed economica, alle potenze protettrici, che sarebbero state: la Francia per la zona interna della Siria, con i distretti di Damasco, Hama, Homs, Aleppo fino a Mosul; la Gran Bretagna per la parte interna della Mesopotamia, per la Transgiordania e il Negev. Per altre zone si prevedeva un tipo di amministrazione diretta da parte delle due potenze (Francia in Libano, nelle zone costiere di Siria e di parti della Cilicia e dell’Anatolia orientale; Gran Bretagna per i distretti di Baghad e Bassora). La Palestina, invece, sarebbe ricaduta sotto l’amministrazione di un regime internazionale concordato con la Russia, gli altri alleati e lo sceriffo della Mecca.
- Dichiarazione Balfour (promulgata nel 1917 ma le cui trattative risalivano già al 1914). Con tale dichiarazione la Gran Bretagna affermava di vedere con favore la creazione di una “sede nazionale” (national home), definizione volutamente vaga, in Palestina, per il popolo ebraico. I britannici, tuttavia, erano ben consapevoli del fatto che 500 mila arabi non avrebbero mai accettato di lasciarsi governare da neppure 100 mila ebrei. Si riservava quindi, l’opzione di annettere la Palestina all’Impero britannico, favorendovi l’immigrazione ebraica, e solo successivamente dare la possibilità di autogoverno agli ebrei.
Sappiamo bene che il generale britannico Edmund Allenby entrò vittorioso a Gerusalemme, liberandola dagli ottomani e che, dopo la Grande guerra, la Gran Bretagna, che pur aveva promesso la Palestina a mezzo mondo, la tenne per sé. Ma questa è un’altra storia.
(ndr, per approfondire gli eventi successivi al 1918 consigliamo la lettura dell’articolo dedicato alla questione palestinese dal 1920 al 1948).
Note:
[1] Da Ashkenaz e Sefarad, che, in ebraico medioevale, vogliono dire, rispettivamente, Germania e Spagna.
[2] Le stime sugli ebrei che dovettero lasciare la Spagna variano da 50 mila a un milione, tuttavia quelle più attendibili, secondo documenti lasciati da don Isaac Abravanel, ebreo e ministro delle finanze del Regno fino all’espulsione, parlano di una cifra compresa fra le 200 mila e le 300 mila unità. Inoltre, va tenuto anche in considerazione il fatto che molti sefarditi, per non abbandonare il Paese, si convertirono, mentre altri morirono ancor prima di partire alla volta, principalmente, del Portogallo, del Regno di Napoli, della Navarra, dell’Africa del Nord, dell’Anatolia e dei Balcani.
[3] In generale, le differenze tra ashkenaziti e sefarditi riguardano l’importanza che gli uni e gli altri danno alla formazione della legge ebraica, la halakha, ed al contributo della tradizione e dei costumi ancestrali nella formazione di quest’ultima. Inoltre, se gli ashkenaziti sono molto più rigorosi dei sefarditi nel rispetto delle regole di liceità ed illiceità dei cibi da consumare, questi ultimi, invece, sono molto più rigidi riguardo al modo di relazionarsi con i gentili rispetto ai loro confratelli dell’Europa orientale. Per quanto riguarda il culto, invece, vi sono importanti differenze nei riti. Una considerevole diversità fra i due rami principali dell’ebraismo è costituita anche dalla lingua usata quotidianamente che, in generale, per l’ebreo sefardita era il giudeo-spagnolo e per l’orientale il giudeo-arabo, il giudeo-persiano, ecc., mentre per l’ashkenazita lo yiddish, lingua derivata dal tedesco ma con influenze ebraiche e slave.
[4] La Bibbia dei Settanta, del III secolo a.C., è una traduzione, realizzata da 72 saggi ad Alessandria d’Egitto, dell’Antico Testamento dall’ebraico e dall’aramaico al greco, proprio per rendere il testo sacro comprensibile alle diverse comunità israelitiche sparse per il Mediterraneo e che ormai non comprendevano più la lingua d’origine, ormai utilizzata quasi soltanto in ambito liturgico persino da molti ebrei residenti nella regione palestinese, che l’avevano rimpiazzata con l’aramaico, lingua franca dell’epoca.
[5] Fatidicamente avvenuta nella stessa data della distruzione del primo tempio, quello di Salomone, da parte del re di Babilonia Nabucodonosor: il nove del mese di Av (nel calendario lunare ebraico, che corrisponde a luglio-agosto nel nostro calendario), giorno luttuoso tuttora commemorato dagli ebrei di tutto il mondo con il nome di Tisha be-Av.
[6] Da Shimon Bar-Kokhba, il mitico condottiero a capo dei ribelli ebrei, proclamato persino messia – in un primo momento – dai notabili religiosi e dal popolo, che speravano avrebbe liberato definitivamente Israele, o quello che ne era rimasto, dal dominio dei romani)
[7] La Palestina vera e propria era, fino a quel momento, una sottile striscia di terra, corrispondente più o meno all’odierna Striscia di Gaza, in cui si trovava l’antica Pentapoli filistea, un gruppo di cinque città-Stato abitate da una popolazione di lingua indoeuropea storicamente ostile agli ebrei: i filistei.
[8] Nel 613, la rivolta degli ebrei contro l’imperatore bizantino Eraclio culminò nella conquista di Gerusalemme nel 614 ad opera di persiani ed ebrei, il massacro di 90 mila abitanti cristiani della città, la distruzione di alcuni luoghi santi, tra cui il Santo Sepolcro, e lo stabilimento di un’autonomia ebraica. La rivolta terminò con la partenza dei persiani e un massacro finale degli ebrei nel 629 ad opera dei bizantini. Fu la fine di 15 anni di autonomia ebraica. In seguito alla conquista musulmana di Gerusalemme, agli Ebrei fu di nuovo consentito di praticare la propria religione con maggiore libertà a Gerusalemme, 8 anni dopo aver subito la repressione bizantina e circa 500 anni dopo la loro espulsione dalla Giudea ad opera dell’Impero romano.
[9] Questo gruppo ebraico oltranzista vive oggigiorno prevalentemente in due quartieri di Gerusalemme, Me’ah She’arim e Ge’ula. Di recente, una famosa piattaforma televisiva digitale ha prodotto e trasmesso una serie di successo i cui protagonisti erano appunto membri di tale setta.
[10] Da “Sion”, nome di uno dei colli su cui è costruita Gerusalemme e, per estensione, dai Salmi in poi, dell’intera città santa e della terra d’Israele.
[11] Massara, M., La terra troppo promessa. Sionismo e nazionalismo arabo in Palestina, Teti e C. Editore, 1979, Milano, p. 71.
[12] Ivi, p. 72.
[13] Allo scopo, oltre che per favorire l’istruzione e la formazione professionale degli ebrei di tutto il mondo e per combattere l’antisemitismo con le sue devastanti conseguenze, era stata creata nel 1860 l’Alliance Israélite Universelle, una società internazionale di cultura ebraica che operò altresì per preparare i futuri‘olìm all’integrazione nella società israeliana.
[14] https://www.fattiperlastoria.it/corano/
[15] Massara, M., op. cit., p. 117.
[16] Tale modello legislativo prevedeva che ogni comunità religiosa non musulmana era riconosciuta come una “nazione” (dall’arabo millah, in turco millet) ed era governata dal proprio capo religioso di quella comunità, il quale era rivestito di funzioni religiose e civili insieme. La massima autorità religiosa di una comunità o nazione cristiana (come potevano essere gli armeni), ad esempio, era il patriarca.
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- Atlas cultural del pueblo judío, Ediciones Folio S.A., Barcelona, 2000.
- Atlante storico del popolo ebraico, Zanichelli editore S.p.A., Bologna, 1993.
- Barnavi, Eli, Storia d’Israele. Dalla nascita dello Stato all’assassinio di Rabin, Bompiani, Milano, 1996.
- Fattal, Antoine, Le statut légal des non-musulmans en Pays d’Islam, Beyrouth, Imprimerie Catholique, 1958.
- Johnson, Paul, La historia de los judíos, Zeta Bolsillo, Barcelona, 2006.
- Lapierre, D., Collins, L., Gerusalemme, Gerusalemme!, Mondadori, Milano, 1988.
- Lewis, Bernard, Gli ebrei nel mondo islamico, RCS Sansoni Editore S.p.A, Firenze, 1991.
- Méchoulan, Henry (dir.), Los judíos de España: historia de una diáspora (1492-1992), Editorial Trotta, Madrid, 1993.
- Massara, Massimo, La terra troppo promessa: Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Teti e C. Editore, Milano, 1979.
- Oz, Amos, In terra d’Israele, Casa Editrice Marietti S.p.A., Genova, 1992.
- Pareja, F. M., con la collaborazione di A. Bausani e L. Hertling, Islamologia, Orbis Catholicus, Roma, 1951, vol.
- Said, Edward W., La convivenza necessaria. Il processo di pace tra palestinesi e israeliani visto da un grande intellettuale, Internazionale, Roma, 1997.
- Yehoshua, Abraham B., Viaggio alla fine del Millennio, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 1998.
- Yehoshua, Abraham B., Elogio della normalità. Saggi sulla diaspora e Israele, Giuntina, Firenze, 1991.