CONTENUTO
La questione mediorientale
La nascita dello Stato d’Israele e il processo di decolonizzazione del continente africano portano al risveglio del nazionalismo arabo il cui maggior esponente è, sin da subito, Gamal Abd-al-Nasser, Capo di Stato maggiore dell’esercito egiziano.
Dal 1953 Nasser diviene presidente dell’Egitto e si propone come catalizzatore di un nazionalismo panarabo capace di unificare tutti i popoli arabi, in nome di una comune identità culturale. Il conflitto con Israele rappresenta il simbolo di questa strategia poiché lo stato ebraico, sostenuto economicamente e militarmente dagli Stati Uniti, incarna l’avamposto degli interessi imperialistici occidentali in Medio Oriente.
Il conflitto tra Israele e il mondo arabo si sviluppa senza soste nel corso degli anni, alternando azioni locali di guerriglia con guerre di più ampie proporzioni. In seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez, da parte del presidente Nasser, Israele, appoggiato da Francia e Gran Bretagna, decide di muovere guerra all’Egitto nell’ottobre 1956.
La reazione dell’URSS, alleata dell’Egitto, è però immediata ed energica: il ministro degli esteri sovietico rivolge un ultimatum agli aggressori minacciando di utilizzare armi atomiche in caso di un rifiuto israeliano di ritirare le proprie truppe. A metà novembre un contingente dell’ONU giunge nei territori occupati e il 22 dicembre le truppe israeliane abbandonano l’Egitto.
La guerra dei sei giorni: l’attacco di Israele a Egitto, Siria e Giordania
Negli anni successivi il Medio Oriente continua ad essere un focolaio di tensione locale e anche un luogo di scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti, le due potenze antagoniste della Guerra Fredda. Nel 1967 Nasser chiede il ritiro delle forze Onu che presidiano il confine del Sinai, proclama la chiusura del golfo di Aqaba (di enorme importanza per gli approvvigionamenti israeliani), e stringe un’alleanza militare con la Giordania.
Israele non rimane a guardare e il 5 giugno sferra un attacco ben coordinato contro Egitto, Siria e Giordania. L’aviazione egiziana viene distrutta quasi completamente e l‘esito della guerra, che dura appena sei giorni, è disastroso per gli arabi:
- l’Egitto perde la penisola del Sinai;
- la Siria le alture del Golan;
- la Giordania tutti i territori sulla riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme.
Alla fine dei combattimenti gli arabi contano più di 30 mila morti, mentre gli israeliani qualche centinaio. Circa 400 mila palestinesi riparano in Giordania e negli altri paesi limitrofi, dove vanno ad ingrossare il numero dei rifugiati nei campi profughi.
La guerra dei sei giorni, conseguenze
La disfatta militare ha per il fronte arabo conseguenze di vasta entità. L’esito della guerra dei sei giorni, infatti, conduce al declino di Nasser e della sua politica panaraba. Inoltre l’esito sfavorevole dello scontro armato, oltre a spingere verso un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri stati della zona, provoca il distacco dei movimenti di resistenza palestinesi riuniti nell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) dalla tutela dei paesi arabi.
A capo dell’Olp si pone, a partire dal 1969, Yasir Arafat che pone la base operativa dell’organizzazione palestinese in Giordania, creandovi una sorta di Stato nello Stato.