CONTENUTO
Guerra dello Yom Kippur, introduzione
Quello dello Yom Kippur rappresenta il quarto grande confronto militare del pluridecennale conflitto tra Israele e il mondo arabo. Svoltosi tra il 6 e il 25 ottobre del 1973, lo scontro è una diretta conseguenza della Guerra dei Sei Giorni del 1967, un rapido intervento militare delle forze di difesa israeliane (Tsahal) contro Egitto, Siria e Giordania, terminata con una clamorosa sconfitta dei paesi della coalizione araba.
Il desiderio di rivalsa egiziano e siriano è quindi la causa scatenante della guerra del Kippur, sentimento alimentato dall’occupazione di ampie porzioni territoriali dei due paesi da parte degli israeliani. Nonostante la consapevolezza delle intenzioni nemiche, una serie di motivi farà sì che Israele, sottovalutando la minaccia costituita dai due paesi, sarà impreparato al momento dell’offensiva di ottobre.
Le forze armate dello stato ebraico riusciranno, comunque, anche grazie al supporto americano, a organizzare un’efficace controffensiva, pur pagando un enorme prezzo, sia a livello di perdite umane che di reputazione, a causa delle difficoltà sopraggiunte durante i primi giorni di guerra.
Il drammatico andamento della guerra e il potenziale coinvolgimento dell’Unione Sovietica, storica alleata dell’Egitto di Sadat, convinceranno gli Stati Uniti, nella persona del segretario di stato, Henry Kissinger, a cercare una rapida via d’uscita al conflitto. L’intervento diplomatico americano, rivelandosi risolutivo, aprirà la strada a un graduale ma ininterrotto cammino di riconciliazione tra i paesi rivali, la cui conseguenza sarà radicale mutamento degli equilibri geopolitici nella regione.
Il contesto storico
La Guerra dei Sei Giorni del 1967 ha rappresentato un decisivo spartiacque del conflitto arabo-israeliano: attraverso un rapido attacco a sorpresa e con un ampio ricorso alle forze aeree, Israele ha sbaragliato le forze militari di Egitto, Siria e Giordania, penetrando in profondità e occupando vaste aree dei territori nemici.
Alla fine del breve ma intenso scontro l’estensione del territorio sotto il diretto controllo dello stato ebraico è passato da 21.000 a 102.000 chilometri quadrati: all’Egitto ha perso la penisola del Sinai e la striscia di Gaza, la Siria le alture del Golan e la Giordania il territorio della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.
Gli effetti della guerra sono stati avvertiti in tutta la regione, interessata dallo spostamento di un sempre maggior numero di profughi palestinesi, la cui presenza alimenterà tensioni e conflitti nelle aree di accoglienza. In secondo luogo, l’esito della guerra convincerà i palestinesi a fronteggiare la superiorità militare di Israele ricorrendo a modalità di guerra asimmetrica, supportati dagli alleati arabi.
Tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘70, le zone di confine saranno teatro di continui scontri tra le truppe israeliane da un lato e quelle egiziane e siriane dall’altro, accompagnate da una sempre più intensa la guerriglia portata avanti dai fedayyn, combattenti legati all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dal 1969 sotto la guida di Yasser Arafat.
La guerra del ‘67 accresce l’odio e l’ostilità del mondo arabo nei confronti di Israele, ormai percepito come un retaggio degli imperi coloniali europei. Per gli egiziani e i siriani l’umiliazione subita doveva essere lavata il prima possibile; l’Egitto di Gamal Adbel Nasser punta ad approfondire la collaborazione militare con l’Unione Sovietica, consentendo al regime comunista l’apertura di due proprie basi navali a Port Said e Alessandria e ricevendo una squadra di 20.000 consiglieri militari.
Dopo la morte di Nasser, avvenuta nel 1970, il potere passa nelle mani di Anwar Sadat, il quale, come il suo predecessore, percepisce l’alleanza con Mosca come necessaria al potenziamento delle forze armate egiziane. Per Sadat conseguire una vittoria contro Israele non significa solo riconquistare un territorio strategico come il Sinai, ma anche un modo per rafforzare la propria reputazione tra i vertici militari e il consenso della popolazione egiziana.
L’obiettivo di una rivincita è anche condiviso dal nuovo capo di Stato siriano Hafiz Al-Assad, il cui obiettivo è riconquistare i territori persi del Golan. Meno disposto a impegnarsi in una nuova guerra con Israele è il re giordano Hussein, la cui preoccupazione è ora rivolta essenzialmente all’elevato numero di profughi palestinesi presenti nel territorio della monarchia, tra i quali molti guerriglieri legati all’OLP.
Nel cercare una soluzione al problema dei territori occupati da Israele, nel novembre del 1967, il Consiglio di Sicurezza vota, all’unanimità, la Risoluzione 242, contenente un piano per la fine dello stato di guerra e il ritiro delle forze militari israeliane. Il tentativo, come qualsiasi altra proposta per arrivare a un accordo si rivelerà fallimentare, sia per l’atteggiamento poco collaborativo del mondo arabo che per la reticenza di Israele a un qualsiasi ritiro da queste aree, diventate vere e proprie zone cuscinetto tra il territorio ebraico e quello arabo.
Inoltre, l’efficacia della risoluzione Onu si scontra con l’ambiguità del linguaggio utilizzato nel documento, il quale, nella versione inglese, non definiva chiaramente se l’abbandono dei territori da parte israeliana sarebbe dovuto essere parziale o totale, lasciando spazio a letture differenti. (1)
Nel corso del 1973 si moltiplicano i segnali che fanno presagire un’offensiva della coalizione araba, tra cui esercitazioni militari e spostamenti di truppe, tuttavia, Israele ritiene improbabile un attacco congiunto entro la fine dell’anno interpretando la decisione di Sadat di “licenziare” i 20.000 consiglieri militari sovietici, come un sintomo dell’incapacità egiziana a sostenere una guerra.
A contribuire alle errate valutazioni israeliane ha avuto un ruolo fondamentale l’efficiente operazione di disinformazione avviate dai servizi segreti egiziani volta a sottolineare l’inefficienza organizzativa e la scarsità di batterie missilistiche necessarie a colpire in profondità il territorio israeliano.
Sadat, consapevole che mantenere il pieno riserbo sull’organizzazione dell’offensiva, denominata in codice operazione “Badr” (luna piena) è il solo modo per la sua riuscita, ritiene anche che l’effetto sorpresa sarebbe stato amplificato dalla scelta della data, il 6 ottobre, corrispondente alla festività ebraica dello Yom Kippur (Giorno dell’espiazione), giorno in cui la popolazione israeliana era riunita in preghiera nelle sinagoghe e il livello d’allerta nemico era più basso.
L’attacco arabo e la controffensiva israeliana
La strategia si rivelerà vincente, almeno nelle fasi iniziali del conflitto, visto che, al momento in cui scatta l’aggressione congiunta di Egitto e Siria, molti soldati israeliani sono già tornati dalle loro famiglie per le celebrazioni religiose.
L’offensiva egiziana si concentra nel Sinai, dove i reparti militari avviarono una lenta ma costante avanzata, supportata delle forze antiaeree, evitando, in questo modo, il ripetersi della disfatta del 1967, nella cui occasione l’esercito del Cairo esposto agli attacchi dall’aviazione nemica, fu spazzato via.
Poche ore dopo l’attacco egiziano, si apre il secondo fronte della guerra, quello del Golan, qui, a entrare in scena sono le forze siriane che attuano un tentativo di sfondamento delle linee nemiche al fine di riconquistare rapidamente i territori sottratti durante la Guerra dei Sei Giorni.
Nei primi giorni, l’Egitto avanza inarrestato, superando il Canale di Suez e penetrando nel Sinai, dove procede ottenendo numerosi successi militari, tra i quali l’espugnazione delle fortificazioni poste sulla linea difensiva israeliana di Bar Lev.
Tsahal, dopo le prime difficoltà, riesce ad elaborare una strategia di difesa, scegliendo, come primo obiettivo quello di arrestare l’offensiva siriana, consapevole che una eventuale occupazione delle alture del Golan avrebbe reso le città israeliane vulnerabili alle incursioni nemiche.
Il contrattacco di Israele si rivela fruttuoso, e agevolato dalla peculiare conformazione orografica della regione, proseguirà fino al 10 ottobre, quando le truppe di Assad si ritireranno oltre il confine prebellico, la linea Porpora. Scongiurato il principale rischio della guerra, quello di un attacco diretto al cuore del paese, ora Israele può concentrarsi sul Sinai, dove l’esercito di Tel Aviv aveva, fino a quel momento, preferito rimanere sulla difensiva.
Dopo aver bloccato, il 14 ottobre un attacco frontale, gli israeliani avviano una grande controffensiva, che terminerà con l’occupazione di una parte della riva occidentale del canale di Suez. Intanto, a nord, i combattimenti proseguono: gli israeliani dopo aver respinto le truppe di Assad avanzano in profondità in territorio siriano, arrivando non lontano da Damasco.
A metà ottobre, le sorti del conflitto sono ormai mutate, Israele ha saputo riorganizzarsi in breve tempo e avviare un contrattacco su larga scala su entrambi i fronti, ad ogni modo, questo non sarebbe stato possibile senza il massiccio supporto militare americano. Il timore del presidente Richard Nixon e del segretario di stato Henry Kissinger, oltre che della destabilizzazione di una regione chiave come il Medio Oriente, è di un possibile ricorso all’arma atomica da parte di Israele, in caso di minaccia alla sua sopravvivenza.
Il piano di rifornimenti di armi a Israele da parte americana, noto con il nome in codice di operazione Nickel Grass, prevedeva il trasferimento di 22mila tonnellate di materiale. L’operazione fu attuata con non poche difficoltà soprattutto a causa del rifiuto dei paesi dell’Europa Occidentale di permettere agli aerei destinati al supporto ad Israele di utilizzare i propri scali aeroportuali.
La riluttanza degli europei era dovuta soprattutto al timore di nuove misure di ritorsione da parte degli stati arabi aderenti all’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio (OPEC), i quali sin dall’avvio del conflitto hanno manifestato il loro supporto a Egitto e Siria, aumentando il costo degli idrocarburi destinati all’esportazione in Occidente, fino a minacciare l’embargo.
Unica eccezione è il Portogallo, che permetterà la buona riuscita dell’operazione concedendo a Washington l’uso di una base militare nelle Azzorre, la cui lontananza dal Medio Oriente renderà però più impegnativo il rifornimento. Per poter arrivare sul fronte di guerra, il carico, partito dall’Oceano Atlantico, deve attraversare tutto il Mediterraneo, con il supporto della VI flotta americana, facendo scalo intermedio in territorio israeliano.
Guerra dello Yom Kippur, la fine delle ostilità e le trattative di pace
Il rischio di un intervento militare sovietico a fianco dell’Egitto e il sempre crescente malcontento degli alleati europei, pesantemente colpiti dal crescente costo dell’energia mette in allarme gli Stati Uniti, spingendo la Casa Bianca, a cercare una soluzione, condivisa da entrambe le parti per porre fine al conflitto.
Dopo aver assicurato ai sovietici il suo impegno a far cessare le ostilità, il segretario di stato Henry Kissinger si reca in Israele, esortando Golda Meir a una maggior collaborazione dello stato ebraico, con lo scopo di raggiungere più velocemente la fine della guerra.
Il 22 ottobre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impone ai belligeranti il cessate il fuoco, attraverso la Risoluzione 338, ciononostante, dopo una breve tregua, lo scontro si riaccende, culminando con l’accerchiamento dell’intera terza armata egiziana da parte di Israele.
Il rischio di una disfatta totale induce l’Egitto a una maggior collaborazione con gli Stati Uniti, ormai unico attore in grado di costringere le parti al tavolo delle trattative. Kissinger consapevole dell’’ampio margine di manovra che le dinamiche belliche gli hanno concesso, convince Israele a evitare di “umiliare” l’esercito egiziano, consentendo così a Sadat di uscire dalla guerra senza perdere la faccia.
I combattimenti terminano ufficialmente il 25 ottobre, Israele ha sopraffatto nuovamente la coalizione araba, ma questa volta con un costo umano non indifferente, circa 2300 militari caduti, a fronte di 12.000 egiziani e 3000 siriani. (2) Dopo il cessate il fuoco, obiettivo di Kissinger è cercare di arrivare a un accordo duraturo al per evitare nuovi scontri futuri in Medio Oriente; per arrivare a un’intesa occorre, agli occhi del segretario di stato, affrontare la questione dei territori occupati dallo stato ebraico dal 1967.
La strategia adottata prevede un graduale ma continuo processo di riavvicinamento, attraverso incontri bilaterali tra la delegazione degli Stati Uniti e quella di ciascuno dei tre paesi coinvolti nella guerra. Il metodo, scelto da Kissinger, fu ribattezzato Shutter Diplomacy (diplomazia della navetta), perché caratterizzato dallo spostamento del diplomatico americano tra Gerusalemme, Damasco e il Cairo.
Sul fronte del Sinai, l’11 novembre viene raggiunto un primo accordo che prevede rifornimenti per la terza armata egiziana, scambio di prigionieri e avvio dei colloqui definitivi, i quali avranno luogo a Ginevra, e vedranno la partecipazione, oltre che di Israele, Egitto e Siria, anche di Giordania, ma con l’esclusione, a causa del veto israeliano, di una delegazione palestinese.
La conferenza di Ginevra si conclude con una serie di accordi, ritenuti soddisfacenti da entrambe le parti: Israele si assume l’impegno di ritirarsi gradualmente da alcuni dei territori occupati, chiedendo in cambio la fine dello stato di belligeranza e il libero transito dei propri navigli nel Golfo di Aqaba e nel canale di Suez. Per quanto riguarda la questione dell’occupazione israeliana del Golan, una soluzione, almeno parziale, viene raggiunta il 31 maggio 1974, con la restituzione della città di Quneitra alla Siria.
Le conseguenze della guerra dello Yom Kippur
L’impreparazione iniziale dinanzi all’offensiva nemica e l’elevato numero di perdite subite ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica israeliana e quindi, sulle dinamiche politiche interne allo stato ebraico.
Travolta dalle polemiche il primo ministro Golda Meir decide, nel 1974, di rassegnare le sue dimissioni ma, a subire i contraccolpi più forti sarà l’intero Partito Laburista, la principale forza politica israeliana, il cui indebolimento, causato oltre che dalla gestione della guerra e da violenti dissidi tra i suoi esponenti principali, favorirà l’ascesa del partito della destra sionista, il Likud.
Di grande importanza sono anche le conseguenze del conflitto sul piano internazionale: se dopo l’accordo sul Golan le trattative con la Siria subiscono una battuta d’arresto, quelle con l’Egitto continuano per l’intero decennio, contrassegnate da piccoli passi che oltre ad avvicinare i due storici nemici accelerano il passaggio del regime di Sadat tra le file dei paesi mediorientali alleati di Washington.
Ritenendo deludenti i benefici ottenuti dall’alleanza con l’Unione Sovietica, Sadat vede ora negli Stati Uniti la superpotenza di riferimento e in Israele un interlocutore affidabile. Il dialogo tra egiziani e israeliani raggiunge il suo apice con gli Accordi di Camp David del settembre del 1978, a cui seguirà, l’anno successivo, la firma del trattato di pace tra i due paesi.
Firmato il 26 marzo 1979 a Washington, il trattato sancisce la fine dello stato di guerra, pone fine all’occupazione israeliana del Sinai e assicura la libera circolazione dei navigli israeliani nel canale di Suez. In definitiva, l’avvicinamento tra Egitto e Israele modifica pesantemente i rapporti di forza nel Medio Oriente, contribuendo a indebolire la presenza sovietica nella regione e a rafforzare il sistema di alleanze a guida americana.
Ad essere penalizzata sarà invece la reputazione dell’Egitto all’interno del mondo arabo, dove la nuova collocazione geopolitica del Cairo è vista come un tradimento alla causa palestinese, già prima degli accordi di Camp David, in risposta ai colloqui israelo-egiziani si viene a costituire un “fronte della fermezza”, promosso dal dittatore libico Muammar Gheddafi.
In terzo luogo non bisogna tralasciare le ripercussioni economico-finanziarie che la guerra dello Yom Kippur, seppur indirettamente ha causato: la decisione dei paesi arabi, grandi produttori di petrolio, di utilizzare le proprie risorse come arma, avrà effetti rilevanti e duraturi sulle economie occidentali, in particolare su quelle dei paesi europei, fortemente dipendenti dalle importazioni di idrocarburi. Al contrario, la crisi energetica avvantaggerà i paesi produttori che potranno godere di ingenti risorse finanziarie (i cosiddetti “petrodollari”), utilizzate poi per concedere prestiti internazionali.
Note:
- Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo a oggi, Laterza Editore, Bari, 2007, pp. 327-328.
- Gawrych, Dr. George W. The 1973 Arab-Israeli War: The Albatross of Decisive Victory. Combat Studies Institute, U.S. Army Command and General Staff College, 1996, p. 243.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Simon Dustan, La Guerra dello Yom Kippur, Leg Edizioni, Gorizia, 2018.
- Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza Editore, Roma, 2010.
- Ennio Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo a oggi, Laterza Editore, Bari, 2007.