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Il Corano e la Šarī‛a
Il termine “Corano” deriva dalla radice semitica qaraʼa, nel senso di recitazione o lettura recitata, quindi cantillazione. Già nell’antichità cristiani ed ebrei del Medio Oriente utilizzavano la voce aramaica equivalente, qeryan, per indicare la recitazione solenne di testi sacri. L’uso della medesima radice, tuttavia, è ancora più antico: ʼAnī qōl qōreʼ ba-midbar (in ebraico: voce di uno che grida nel deserto, come nel libro del profeta Isaia, riportato successivamente in greco nel Nuovo Testamento) ha il significato di gridare, di chiamare, di proclamare, di cantillare.
Il Corano è il testo sacro dei musulmani. Per gran parte di essi è parola di Dio increata. È diviso in centoquattordici capitoli, detti sūra, con i rispettivi versetti, chiamati ayāt. Per un qualunque esegeta non islamico risultano evidenti nel testo numerosissimi passi identici o paralleli a quelli di altri documenti più antichi, Antico e Nuovo Testamento in primis, oltre che a pratiche, tradizioni ed usi pre-islamici come la credenza nei folletti, ǧinn, i riti del pellegrinaggio, le leggende dei popoli scomparsi e la venerazione della Ka‛ba.
È quindi molto importante il problema delle fonti coraniche, le quali non possono indubbiamente definirsi scritte, giacché Maometto, universalmente considerato autore (dagli studiosi) o latore (dai credenti musulmani) della rivelazione riportata nel Corano, era analfabeta e non poté, ovviamente, avere personalmente accesso alla lettura dei libri sacri cristiani ed ebraici.
È quindi oralmente che molte nozioni religiose del cristianesimo e dell’ebraismo giunsero ai suoi orecchi, e ciò in due fasi: le affollate feste che si tenevano periodicamente alla Mecca, ove i proseliti di sette eretiche cristiane ed ebraiche si rifugiavano sovente per sfuggire alle persecuzioni nell’Impero bizantino (lo si deduce da molte nozioni eretiche cristiane e da reminiscenze della haggadah e di libri apocrifi di cui abbonda il Corano) e, come dicevamo, i viaggi commerciali che Maometto intraprese al di là del deserto (anche in questo caso le nozioni che dovette apprendere sono poche, imprecise e lacunose, come risulta evidente dalle citazioni coraniche).
Abbiamo visto, quindi, che Muḥammad era convinto sin da subito di essere oggetto di una rivelazione già comunicata ad altri popoli prima di lui, gli ebrei e i cristiani, e proveniente dalla stessa fonte, un libro celeste che egli chiamava umm al-kitāb. Le comunicazioni, tuttavia, nel suo caso avvenivano in modo intermittente, il che fece sì che gli avversari si burlassero di lui. Abbiamo visto altresì che Allāh forniva spesso a questi ultimi delle risposte a tono e delle ammonizioni, come la seguente:
“Gli increduli dicono: se il Corano fosse disceso tutto in una volta. [—] Così lo facciamo discendere poco a poco, per confortare con esso il tuo cuore. [—] E non porteranno contro di te una parabola senza che Noi ti comunichiamo la verità e la migliore interpretazione[3]” (25/34-35).
Il risultato di una simile intermittenza, e dell’abitudine di Maometto di cambiare spesso versione, è il carattere frammentario del Corano, oltre che la mancanza di un ordine logico e cronologico: tutto è ad uso e consumo immediato. Ciò risultò lampante già per i primi commentatori coranici, poco dopo la morte del “profeta” dell’islam, particolarmente per la questione dei versetti abrogati da altri posteriori. Per tentare di accomodare alla meglio la faccenda, si classificarono allora le sūra in meccane e medinesi, a seconda del periodo in cui erano state rivelate.
Il primo periodo, quello meccano, si suddivide a sua volta in tre fasi:
- una prima, corrispondente ai primi quattro anni di vita pubblica di Maometto, contraddistinta da sūra brevi, appassionate, solenni, con corti versetti ed insegnamenti pieni di forza finalizzati a preparare gli animi degli ascoltatori al giorno del giudizio (yawm al-dīn);
- una seconda, che copre i successivi due anni, in cui l’entusiasmo, al cominciare le persecuzioni, si intiepidisce e si vanno narrando storie sulle vite di profeti precedenti, in forma molto simile alla haggadah (letteratura rabbinica di natura narrativa ed omiletica);
- una terza, dal settimo al decimo anno di vita pubblica alla Mecca, piena anche questa di leggende profetiche, oltre che di descrizioni dei castighi divini.
Nel secondo periodo, invece, quello medinese, si riscontra il grande cambiamento subito da Maometto dopo l’ègira. Le sūra si rivolgono ad ebrei e cristiani e il tono amichevole e celebrativo riservato a questi ultimi nella prima fase[4] va perdendosi a poco a poco, fino a culminare, negli ultimi anni di vita del “profeta” dell’islam, in un vero e proprio attacco. È di quest’epoca, ad esempio, la sūra 9, in cui, al versetto 29, si esige l’umiliazione di “coloro, fra quelli cui fu data la scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo uno per uno, umiliati”.
Il che si tradurrà poi nelle leggi che imporranno varie restrizioni a chi professa la religione ebraica o cristiana, come il vestire in modo speciale, il divieto di portare armi e di montare a cavallo, ecc. Pur essendo dal Corano esplicitamente ammessi come rivelati il Pentateuco, i Salmi e il Vangelo, vi sono notevoli divergenze tra l’islam e l’ebraismo, e ancor più tra l’islam e il cristianesimo. Tali divergenze, come dicevamo, riflettono i contatti tra Maometto e le sette eretiche cristiane all’epoca abbastanza comuni sia nell’Impero bizantino che, soprattutto, appena fuori dai suoi confini.
Tra le più evidenti, quelle che riguardano la figura di Cristo, per cui il Corano risente dell’influsso di libri apocrifi. Nel libro sacro dell’islam, ad esempio: Gesù è figlio di Maria ed è nato da parto verginale, e tuttavia questa Maria è la sorella di Mosè; si narrano, con grande dovizia di particolari, i miracoli operati da Gesù fin dall’infanzia e gli si attribuiscono i nomi di Messia, Spirito di Allāh e Verbo, ponendolo su un piano di superiorità rispetto agli altri profeti, ma si precisa che il Cristo non è che un servo di Allah, un uomo come gli altri; si stabilisce, tra l’altro, che la sua morte sulla croce non sarebbe mai avvenuta: al posto di Gesù sarebbe stato crocifisso solo un simulacro[5].
Un’altra notevole divergenza concerne l’idea di paradiso, che per l’Islam è assolutamente terrena (altro dei motivi per cui si parla di islam come di religione naturale), del tutto idonea a impressionare dei semplici e rudi abitanti del deserto: verdi giardini, deliziosi ruscelli, vino che non inebria, vergini sempre intatte. Non vi si trova nulla che esprima il concetto di visione beatifica e di partecipazione dei credenti alla stessa vita divina: Allah è inaccessibile alla visione umana (6/103).
In ultimo, tra le altre differenze, vi è quella sulla predeterminazione delle azioni umane da parte di Allāh (in ciò l’islam è simile al calvinismo). Vi sono passi coranici più o meno a favore o del tutto contrari al libero arbitrio, ma sono questi ultimi ad essere stati accettati, con abili correzioni, dall’ortodossia sunnita per dare all’islam la sua impronta predeterminista (il maktub, destino di ogni uomo, è rigidamente scritto e predeterminato da Dio).
Le fonti del diritto islamico
La compilazione effettiva del Corano è successiva alla morte di Maometto, momento in cui si incominciò a raccogliere tutti i frammenti della rivelazione da lui affidata ai seguaci. Le sūra furono ordinate per lunghezza (dalla più lunga alla più breve, sebbene con diverse eccezioni, anche per via dell’impossibilità di un ordine logico o cronologico). A questa stessa epoca rimonta l’inizio delle feroci lotte e delle divisioni interne, tra partiti e correnti varie, tutte soffocate nel sangue, con ogni parte a fabbricarsi versetti e citazioni coraniche à la carte che appoggiassero le rispettive rivendicazioni.
Šarī‛a è termine arabo che significa “strada battuta”, quindi cammino, come l’ebraico halakhah, e sta ad indicare la legge scritta. Da un punto di vista semantico, entrambi i termini, arabo ed ebraico, possono essere assimilati al nostro “diritto” (strada “diretta”, cammino da seguire). La Šarī‛a, legge o diritto islamico (secondo il punto di vista “ortodosso” sunnita[6]), si basa su quattro fonti principali:
- Il Corano;
- La sunna (tramite il ḥadīṯ);
- Il qiyās;
- L’iǧmā‛.
Avendo già trattato il Corano, passiamo ad analizzare direttamente le altre tre fonti, a partire dalla Sunna – abitudine, tradizione, linea di condotta degli antenati –, che è una parola indicante, già prima di Maometto, le usanze tradizionali che regolavano la vita degli arabi. In ambito islamico, lo stesso termine va a definire l’insieme dei detti, dei fatti e degli atteggiamenti di Maometto secondo la testimonianza dai suoi contemporanei.
In ciò entra in gioco il ḥadiṯ, cioè la narrazione o relazione della sunna di Maometto fatta secondo un determinato schema, basato su isnād (appoggio ed enumerazione in ordine ascendente delle persone che hanno riferito il racconto fino a giungere al testimone diretto dell’episodio) e matn (il testo, corpo della narrazione). Tale fonte era oltremodo necessaria nel momento in cui, alla morte di Maometto, l’islam era solo una bozza di ciò che sarebbe divenuto in seguito. Vi era poi l’esigenza, in seguito alla conquista di vastissimi territori e al conseguente confronto con nuove culture, di trovare soluzioni a problemi e difficoltà mai affrontati direttamente dal “Messaggero di Dio”.
E proprio a Maometto si ricorse per fargli precisare, benché fosse ormai passato a miglior vita, una serie di punti solamente accennati nel Corano o addirittura mai trattati, in merito a diverse discipline. Si venne così a creare un insieme di tradizioni vere, presunte o false in un periodo in cui ciascuna delle fazioni in lotta all’interno dell’islam pretendeva di avere Maometto dalla propria parte e gli attribuiva questa o quella affermazione costruendosi interi apparati di testimonianze assolutamente inattendibili.
Il metodo che si adottò al fine di arginare questo fiume in piena fu oltremodo arbitrario. Non si ricorse, infatti, all’analisi testuale e all’evidenza interna dei testi (lo stesso dicasi a proposito della pressoché inesistente esegesi coranica) – che è invece il criterio per eccellenza, nel cristianesimo, per accertare e verificare l’autenticità di un testo –, bensì esclusivamente alla reputazione dei garanti: se quindi la catena dei testimoni era ineccepibile, si poteva far accettare qualunque cosa. Tra l’altro, le tradizioni definite più antiche e vicine a Maometto sono invece quelle più inaffidabili e artificiosamente costruite (lo si evince anche dall’eccessiva affettazione del linguaggio).
La terza fonte del diritto è il qiyās, ovvero deduzione per analogia, tramite cui, dall’esame di questioni determinate e risolte, si traeva la soluzione per altre non previste. Il criterio utilizzato, in questo caso, è il ra’y, cioè punto di vista, visione intellettuale, giudizio o opinione personale. La fonte in questione si rese necessaria sin dagli albori dell’islam, in quanto, come già abbiamo visto, l’incoerenza del Corano e degli ḥadīṯ aveva prodotto una notevole confusione e condotto all’entrata in vigore, per le due prime fonti, della tradizione dell’abrogante e dell’abrogato.
Qualora, tuttavia, non fosse stato sufficiente il qiyās per dirimere tutte le questioni irrisolte, si provvide ad inserire una quarta fonte, la vox populi, o iǧmā‛ (consenso popolare) per fornire una base solida all’intero apparato legale e dottrinale. Questa fonte appariva più che giustificata sia per delle citazioni coraniche sia per alcuni hadīṯ, in uno dei quali Maometto avrebbe affermato che la sua comunità non sarebbe mai caduta in errore. L’iǧmā‛ può consistere in un consenso dottrinale raggiunto dai dottori; in un consenso di esecuzione, quando si tratti di costumi consolidati nella pratica comune; in un consenso tacito, seppure non unanime, da parte dei giureconsulti, quando si tratti di atti pubblici che non comportino la condanna di nessuno.
Il lavoro costruttivo per trarre il diritto dalle quattro fonti indicate, Corano sunna, qiyās e iǧmā‛, si chiama iǧtihād (da ǧ-h-d, la stessa radice del termine ǧihād), ovvero “sforzo intellettuale”. Lo sforzo in questione, una vera e propria elaborazione del diritto positivo islamico, basato comunque su una parola “rivelata”, si protrasse fino al X secolo circa, quando si formarono le scuole giuridiche (maḍhab), epoca successivamente alla quale “le porte dell’ iǧtihād” si considerano ufficialmente chiuse.
Da allora bisogna accontentarsi di accettare ciò che è stato già elaborato, senza introdurre ulteriori innovazioni (bid‛a). I più rigidi in tal senso sono i waḥḥabiti (fondati da Muḥammad ibn ‛Abd-el-Waḥḥab: la dottrina waḥḥabita è quella ufficiale del regno dei Sa‛ūd, monarchi assoluti dell’Arabia Saudita) e i salafiti (fondatori ed esponenti principali: Ǧamal al-Dīn al-Afġāni e Muḥammad ‛Abduh, sec. XIX; i Fratelli musulmani fanno parte di questa corrente). Secondo la visione di entrambi i movimenti, all’interno della dottrina islamica sarebbero state introdotte eccessive innovazioni; occorre dunque ritornare alle origini, all’età dell’oro, quella dei padri (salaf), in particolare quella della vita di Maometto a Medina e dei suoi primi successori, o califfi.
Prima di passare oltre, spendiamo qualche parola sul concetto di ǧihād. Il diritto musulmano considera il mondo diviso in due categorie: dār al-islām (dimora dell’islam) e dār al-ḥarb (dimora della guerra); contro quest’ultima i musulmani si trovano in costante stato di guerra, finché tutto il mondo non sia assoggettato all’islam. Il ǧihād è talmente importante, nel diritto islamico, da essere quasi considerato un sesto pilastro dell’islam. A questo proposito vi sono due obblighi di combattere: uno collettivo (farḍ al-kifāya), quando vi sia un sufficiente numero di truppe; uno individuale (farḍ al-‛ayn), in caso di pericolo e di difesa della comunità musulmana.
Esistono due tipi di ǧihād, uno piccolo e uno grande. Il primo è il dovere di combattere per propagare l’islam, il secondo quello di compiere uno sforzo individuale quotidiano e costante sulla via di Dio, in pratica un cammino di conversione. È tramite il ǧihād che moltissime terre cristiane sono cadute, il più delle volte per capitolazione, in mani islamiche e, in tal caso, i loro abitanti, considerati “gente del patto” o ahl al-ḏimma, o semplicemente ḏimmī, sono divenuti sudditi protetti dallo Stato, cittadini di seconda categoria soggetti al pagamento di un’imposta di capitolazione, detta ǧizya, e di un tributo sulle terre possedute, ḫarāǧ.
Il concetto di “eresia” e Hilaire Belloc
San Giovanni Damasceno (676 circa – 749), Dottore della Chiesa, fu uno dei primi teologi cristiani ad avere contatti con l’islam (in giovane età fu addirittura consigliere del Califfo omayyade di Damasco) e a definirlo un’eresia cristiana, come più tardi fecero altri, in particolare il Sommo poeta, Dante Alighieri.
Nell’epoca in cui nacque e si diffuse l’islam, la presenza di sette ereticali era cosa piuttosto comune, così come lo era stata ai tempi di Gesù, in cui l’ebraismo conosceva diverse scuole e correnti (sadducei, farisei, esseni, ecc.). Per tale ragione, in un primo tempo non si considerò affatto insolito il sorgere di un nuovo sedicente profeta, o meglio, eresiarca.
Prima di continuare, dunque, occorre inquadrare più dettagliatamente che cosa si cela dietro il termine “eresia”. Esso deriva dal sostantivo latino haerĕsis, a sua volta derivato dal greco αἵρεσις, con il significato di “scelta”. Il verbo principale, in greco, è αἱρέω, “scegliere”, “separare”, “raccogliere”, o anche “portare via”. Possiamo allora affermare che un eretico non è chi propugna una verità totalmente diversa da quella proclamata dalla dottrina ufficiale contro la quale si scaglia, bensì colui che mette in discussione solo una parte di quella verità.
Difatti, il grande storico, autore e intellettuale inglese Hilaire Belloc, nel suo libro del 1936 The great heresies[7], definì l’eresia come un fenomeno che ha la caratteristica di distruggere non l’intero impianto di una verità, bensì solo una sua parte e, nell’estrapolare una componente della stessa verità. lascia un vuoto oppure lo sostituisce con un altro assioma.
Belloc individua cinque grandi eresie, la cui importanza è capitale non solamente nella storia del cristianesimo, bensì della civiltà occidentale tutta intera, e di quella mondiale di conseguenza. Non pare eccessivo, infatti, affermare che la cattiva interpretazione della verità cristiana, o di determinate sue parti, ha prodotto alcuni tra i peggiori mali della storia del genere umano. Citiamo qui di seguito le cinque grandi eresie secondo Belloc.
La prima è l’arianesimo, che consiste nella razionalizzazione e semplificazione del mistero fondamentale della Chiesa: l’Incarnazione e la divinità di Cristo (Gesù vero uomo e vero Dio) e con ciò mette in discussione l’autorità su cui si fonda la Chiesa stessa. Si tratta essenzialmente un attacco al “mistero” in sé, portato avanti con l’attacco a quello che è considerato il mistero dei misteri.
L’eresia in questione ha la pretesa di abbassare al livello dell’intelletto umano ciò che invece va ben oltre la comprensione e la visione limitata dell’uomo. Il concilio di Nicea (325) elaborò un “simbolo”, cioè una definizione dogmatica relativa alla fede in Dio, nella quale compare, attribuito al Cristo, il termine ὁμοούσιος (homooùsios = consustanziale al Padre, letteralmente “della stessa sostanza”), che costituisce, tuttora, la base dogmatica del cristianesimo ufficiale. Il “simbolo niceno” si poneva in netta antitesi con il pensiero di Ario, il quale predicava invece la creazione del Figlio ad opera del Padre e quindi negava la divinità del Cristo e la trasmissione degli attributi divini del Padre al Figlio ed al corpo mistico di questo, ovverosia la Chiesa e i suoi membri.
La seconda eresia individuata da Belloc è il manicheismo, fondamentalmente un attacco alla materia e a tutto ciò che riguarda il corpo (ne sono un esempio gli albigesi): la carne è vista come qualcosa di impuro e i cui desideri vanno combattuti tout court.
Terza eresia, la Riforma protestante: un attacco all’unità e all’autorità della Chiesa, più che alla singola dottrina, che produce una serie di eresie. L’effetto della riforma protestante in Europa ha distrutto l’unità del continente, un fatto gravissimo, specie se si considera che il concetto stesso di Europa moderna nasce dalle radici della nostra civiltà, fondata sulla combinazione armonica tra i principi spirituali cristiani e il sistema di pensiero greco-romano. Con la Riforma, invece, ogni riferimento all’universalità, alla cattolicità, è rimpiazzato dal criterio di nazione e di etnia, con evidenti e catastrofiche conseguenze.
La quarta eresia è la più complessa. Per Belloc può essere chiamata modernismo, ma il termine alogos può esserne un’altra possibile definizione, giacché esso chiarisce quello che è il cuore di questa eresia: non esiste nessuna verità assoluta, a meno che essa non sia empiricamente dimostrabile e misurabile. Il punto di partenza, come per l’arianesimo, è sempre la negazione della divinità di Cristo, proprio per l’incapacità di comprenderla o di definirla empiricamente, ma il modernismo va oltre, e in ciò può essere chiamato anche positivismo giacché individua come positivi, o reali, esclusivamente i concetti scientificamente sperimentati, mentre dà per scontata l’inesistenza, o l’irrealtà, di tutto quando non è dimostrabile.
L’eresia in questione, in sostanza, si basa su un assunto fondamentale: si può accettare soltanto ciò che si può vedere, comprendere e misurare. E’ un attacco materialista e ateo non solo al cristianesimo, bensì al fondamento stesso della civiltà occidentale che ne è una derivazione, un attacco alle radici trinitarie dell’Occidente. Non parliamo qui soltanto della Santissima Trinità, bensì di quel legame trinitario ed inscindibile che già i greci avevano individuato tra verità, bellezza e bontà. E come non è possibile muovere un attacco contro una delle Persone della Trinità senza attaccare anche le altre, allo stesso modo non si può pensare di mettere in discussione il concetto di verità senza intaccare anche quelli di bellezza e di bontà.
Le quattro eresie elencate finora hanno tutte dei fattori comuni: provengono dall’interno della Chiesa cattolica; i loro eresiarchi erano dei battezzati; si sono quasi tutte estinte, da un punto di vista dottrinale, nel giro di qualche secolo (le Chiese protestanti, nate dalla Riforma, conoscono comunque una crisi senza precedenti e, salvo quella pentecostale, se ne prevede la fine entro pochi anni) ma i loro effetti perdurano nel tempo, in modo sottile, contaminando il sistema di pensiero di una civiltà, la mentalità, le politiche sociali ed economiche, la visione stessa dell’uomo e dei suoi rapporti sociali.
Gli effetti dell’arianesimo e del manicheismo, ad esempio, avvelenano ancora la teologia cattolica e quelli della Riforma protestante – benché la Riforma stessa sia ormai stata sdoganata da molti cattolici, o addirittura considerata cosa buona e giusta e i suoi eresiarchi quasi dei santi – sono sotto i nostri occhi: dall’attacco contro l’autorità centrale e l’universalità della Chiesa si è giunti ad affermare che l’uomo basta a se stesso, salvo poi edificargli ovunque idoli da adorare e cui sacrificarsi. L’estrema conseguenza delle idee di Calvino, poi, in materia di negazione del libero arbitrio e della responsabilità delle azioni umane di fronte a Dio, ha reso l’uomo schiavo di due entità principali: lo Stato prima e le corporazioni private sovranazionali dall’altra.
E qui Belloc arriva a parlare dell’islam, da lui definita la più particolare e la più formidabile tra le eresie cristiane, del tutto simile al docetismo e all’arianesimo nel voler semplificare e razionalizzare al massimo, secondo criteri umani, il mistero del tutto imperscrutabile dell’Incarnazione – producendo uno svilimento sempre maggiore della natura umana, non più legata in alcun modo con quella divina – e al calvinismo nel dare un carattere predeterminato da Dio alle azioni umane.
Se, tuttavia, la “rivelazione” predicata da Maometto era cominciata come un’eresia cristiana, la sua inspiegabile vitalità e la sua durevolezza le hanno presto dato le sembianze di una nuova religione, di una sorta di “post-eresia”. L’islam, infatti, si distingue dalle altre eresie per il fatto di non essere nato all’interno dell’orbe cristiano e perché il suo eresiarca non era un cristiano battezzato, bensì un pagano che improvvisamente ha fatto proprie idee monoteiste – un miscuglio di dottrina ebraica e cristiana eterodossa con pochi elementi pagani presenti da tempo immemore nell’Arabia – e ha iniziato a diffonderle.
La base fondamentale dell’insegnamento di Maometto era infatti ciò che la Chiesa professa da sempre: vi è un solo Dio, l’Onnipotente. Dal pensiero giudaico-cristiano il “profeta” dell’islam ha estrapolato altresì gli attributi di Dio, la natura personale, la somma bontà, l’atemporalità, la provvidenza, il potere creativo come origine di tutte le cose; l’esistenza di spiriti buoni e di angeli, come pure di demoni ribelli a Dio capeggiati da Satana; l’immortalità dell’anima e la risurrezione della carne, la vita eterna, il castigo e la retribuzione dopo la morte.
Molti nostri contemporanei cattolici, specie dopo il Concilio Vaticano II e la Dichiarazione “Nostra Aetate”, hanno iniziato a considerare unicamente i punti in comune con l’islam, tanto da far sembrare Maometto quasi un missionario che ha predicato e diffuso, grazie all’innegabile carisma, i principi fondamentali del cristianesimo tra i nomadi pagani del deserto. Essi insistono sul fatto che nell’islam l’unico Dio è fatto oggetto di somma adorazione, e che pure a Maria e al suo parto verginale è riservata grande riverenza; e ancora che, per i musulmani, nel giorno del giudizio (altra idea cristiana riciclata dal fondatore dell’islam) sarà Gesù, e non Maometto, a giudicare l’umanità.
Non considerano, tuttavia, che il Dio dei musulmani non è il Dio dei cristiani; la Maria del Corano non è la stessa Maria della Bibbia; e, soprattutto, il Gesù islamico non è il nostro Gesù, non è Dio incarnato, non è morto sulla croce, non è risorto, come inequivocabilmente affermato da Maometto. Con la negazione dell’Incarnazione, è poi venuta giù l’intera struttura sacramentale: Maometto ha stigmatizzato l’Eucaristia e la presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo nel pane e nel vino all’interno del rito della messa e, di conseguenza, ha rifiutato qualunque idea di sacerdozio particolare.
In altre parole, egli, come tanti altri eresiarchi forse meno carismatici, ha basato la propria eresia su un’estrema semplificazione della dottrina cristiana, liberandola da quelle – a suo parere – false aggiunte ed innovazioni che l’avevano resa eccessivamente complessa; ha creato, in pratica, una religione perfettamente naturale, in cui l’uomo è uomo e Dio è Dio, con insegnamenti più alla portata dei suoi seguaci, che, ricordiamolo, erano semplici e rozzi nomadi del deserto. Basta considerare la dottrina islamica sul matrimonio, che non è sacramentale, monogamo e indissolubile, bensì un contratto che è possibile rescindere tramite il ripudio, con la possibilità per gli uomini di avere fino a quattro mogli e innumerevoli concubine.
Il successo di questa eresia nata da Maometto si spiega quindi attraverso alcuni elementi chiave:
- Profonde divisioni dottrinali e politiche fra i cristiani;
- Semplificazione estrema della dottrina ed eliminazione di misteri incomprensibili per la massa dei credenti;
- Crisi economica, politica e religiosa nel mondo cristiano e nell’Impero bizantino, la cui società si trovava, così come lo è la nostra al giorno d’oggi, in uno stato di perenne disordine e insofferenza. Sugli uomini liberi, già soffocati dai debiti, gravava il pesante fardello delle tasse, e la longa manus imperiale, con la tentacolare burocrazia, infieriva non solo economicamente sulle vite dei cittadini, ma anche in materia di fede, con i contrasti tra le varie eresie periferiche e l’ortodossia centrale a rappresentare non solamente una lotta religiosa, ma anche etnica, culturale, linguistica;
- Tendenza tutta orientale a riunirsi sotto un unico e potente leader carismatico che incarni sia il potere politico che l’autorità religiosa;
- Forza militare cresciuta gradualmente, grazie soprattutto al reclutamento di nuove forze tra i mongoli dell’Asia centrale e centro-occidentale (i turchi);
- Vantaggi fiscali per chi capitolava (e che poteva, dunque, liberarsi dell’opprimente giogo bizantino), insieme a un sistema di tassazione molto più semplice ed immediato.
Quelli appena elencati sono solo alcuni, pur se i principali, elementi che consentono di spiegare il perché l’islam si sia diffuso così repentinamente e vigorosamente nel mondo. In queste poche pagine non pretenderemo, comunque, di affrontare tale questione, essendo l’oggetto del nostro lavoro più che altro l’analisi delle origini del fenomeno e la vita del suo iniziatore. E’ curioso, tuttavia, notare come, da fine analizzatore della storia qual era, Belloc prevedeva, già nel 1936, un prepotente ritorno dell’islam sulla scena internazionale, in opposizione alla decadente civiltà di un Occidente ormai solo nominalmente cristiano:
“Will not perhaps the temporal power of Islam return and with it the menace of an armed Mohammedan world which shall shake off the domination of Europeans still nominally Christian and reappear again as the prime enemy of our civilization? [—] In the place of the old Christian enthusiasms of Europe there came, for a time, the enthusiasm for nationality, the religion of patriotism. But self-worship is not enough”[8].
L’analisi di Belloc, tra l’altro, considera particolarmente il fatto che l’islam, come si evince dalla sua storia, tende a indebolirsi nel momento in cui diminuisce il suo potere politico ed economico (dato l’imprescindibile legame tra fede e politica, e quindi economia, all’interno del sistema di pensiero islamico), ma, viceversa, si risveglia ciclicamente su impulso di un leader carismatico.
Molto importanti sono altresì le considerazioni del grande pensatore russo Solov’ëv in merito a Maometto e all’islam, in particolare nell’opera La Russia e la Chiesa universale[9], del 1889. Ne riportiamo qui di seguito alcuni brani:
“L’islam è il bizantinismo coerente e sincero, liberato da ogni contraddizione interiore. E’ una reazione piena e completa dello spirito orientale contro il cristianesimo, è un sistema nel quale il dogma è intimamente legato alle leggi della vita, nel quale la credenza individuale è in perfetto accordo con lo stato sociale e politico. Già sappiamo che il movimento anticristiano, che si era manifestato nelle eresie imperiali, era culminato nel VII e nell’VIII secolo in due dottrine, l’una delle quali (quella dei monoteliti) negava indirettamente la libertà umana, mentre l’altra (quella degli iconoclasti) rifiutava implicitamente la fenomenalità divina. L’affermazione diretta ed esplicita di questi due errori costituì l’essenza religiosa dell’islam, che vede nell’uomo una forma finita senza alcuna libertà e in Dio una libertà infinita senza alcuna forma.
Una volta che Dio e l’uomo siano stati così fissati ai due poli dell’esistenza, non vi è più alcun nesso fra loro, e ogni realizzazione discendente del divino, al pari di ogni spiritualizzazione ascendente dell’umano resta del tutto esclusa; e la religione si riduce a un rapporto puramente esteriore tra il creatore onnipotente e la creatura che è privata di qualsiasi libertà e non deve altro al suo signore se non un semplice atto di devozione cieca (è questo il senso del termine arabo islam). [—] A questa semplicità dell’idea religiosa corrisponde una concezione non meno semplice del problema sociale e politico: l’uomo e l’umanità non sono chiamati a realizzare alcun progresso essenziale; non si dà rigenerazione morale per l’individuo e a maggior ragione per la società; tutto è abbassato al livello dell’esistenza puramente naturale; l’ideale è ridotto a una misura che gli garantisce una realizzazione immediata.
La società musulmana non poteva avere altro scopo se non l’espansione della sua forza materiale e il godimento dei beni della terra. Tutto il compito dello Stato musulmano, compito che gli sarebbe ben difficile non adempiere con successo, consiste nel diffondere l’islam con le armi e nel governare i fedeli con un potere assoluto e secondo le regole di una giustizia elementare fissate nel Corano. [—] Il bizantinismo, che è stato ostile per principio al progresso cristiano, che ha voluto ridurre tutta la religione a un fatto compiuto, a una formula dogmatica e a una cerimonia liturgica – questo anticristianesimo nascosto sotto una maschera ortodossa – ha dovuto soccombere nella sua impotenza morale di fronte all’anticristianesimo aperto e onesto dell’islam. [—]
Cinque anni furono sufficienti per ridurre a un’esistenza archeologica tre grandi patriarcati della Chiesa orientale. Il fatto è che non vi erano conversioni da compiere, ma solo un vecchio velo da strappare. La storia ha giudicato e condannato il Basso Impero. Esso non solo non ha saputo compiere la propria missione – fondare lo Stato cristiano – ma si è attivamente adoperato per far fallire l’opera storica di Gesù Cristo. Non essendo riuscito a falsare il dogma ortodosso, lo ha ridotto a una lettera morta; ha voluto minare alla base l’edificio della pace cristiana attaccando il governo centrale della Chiesa universale; e nella vita pubblica ha sostituito la legge del Vangelo con le tradizioni dello Stato pagano.
I bizantini hanno creduto che, per essere veramente cristiani, fosse sufficiente conservare i dogmi e i riti sacri dell’ortodossia senza preoccuparsi di cristianizzare la vita sociale e politica; hanno creduto che fosse cosa lecita e degna di lode confinare il cristianesimo nel tempio e abbandonare l’agone pubblico ai principi pagani. Non poterono certo lagnarsi del loro destino. Hanno avuto quello che volevano: hanno conservato il dogma e il rito e solo la potenza sociale e politica è caduta in mano ai musulmani, eredi legittimi del paganesimo“.
Conclusione
Riteniamo che Belloc e Solov’ëv, da abili e fini pensatori, abbiano saputo spiegare con chiarezza la fenomenologia dell’islam e prevederne con largo anticipo il ritorno sulla scena internazionale.
La stessa natura della rivelazione che da Maometto ebbe origine andrebbe considerata e studiata meglio da un punto di vista storico ed esegetico, anche a partire dalle sue contraddizioni, come quella citata precedentemente e riportata nella cronaca di Ṭabarī, biografo del “profeta dell’islam” (vol. I, pagg. 1460-62) a proposito dell’episodio in cui Maometto stesso si recò a casa di suo figlio adottivo Zayd e vi trovò solamente la moglie di costui, leggermente vestita:
“…e il Profeta stornò da lei lo sguardo. Essa gli disse: [Zayd] non c’è, o inviato di Allāh, ma entra; tu sei per me come mio padre e mia madre. L’inviato di Allāh non volle entrare. Ed essa piacque all’inviato di Allāh che se ne andò mormorando qualcosa di cui si capiva soltanto: Gloria ad Allāh il Supremo! Gloria ad Allah che sconvolge i cuori! Quando Zayd tornò a casa la moglie gli riferì ciò che era avvenuto. Zayd si affrettò ad andare da Maometto a dirgli: O inviato di Allāh! Ho saputo che sei venuto a casa mia. Perché non sei entrato? Ti è piaciuta Zaynab? In questo caso la divorzio. L’inviato di Allah gli disse: Tienti tua moglie! Qualche tempo dopo Zayd divorziò da sua moglie e poi, mentre Maometto stava parlando con ‛Āʼisha cadde in trance e gli fu tolto un peso dal cuore, sorrise e disse: Chi andrà da Zaynab a darle la buona novella? A dirle che Allāh mi sposa con lei? [10]”.
Fu in quell’occasione che Maometto promulgò il versetto 37 della sūra 33”, destando una notevole impressione anche tra i suoi seguaci, pure sempre arabi, per i quali quali la filiazione adottiva era sempre stata del tutto equivalente a quella naturale: non era quindi lecito prendere in moglie la moglie di un figlio o di un padre, tanto naturale quanto adottivo. Ovviamente, vennero altri versetti, della stessa sūra, in cui si dichiara che la filiazione adottiva non vale quella naturale (33/4) e che M., per privilegio personale, può prendere quante mogli desidera, oltre alle concubine (33/49). In tale occasione, la stessa ‛Āʼisha, sua moglie preferita, esclamò: “Vedo che Allāh si affretta a compiacerti!”.
In questo e in altri casi è possibile distinguere sostanziali differenze tra Maometto e Gesù Cristo:
- Maometto predicò l’esistenza di un Dio unico, nobile e onnipotente che all’uomo chiede solamente obbedienza e sottomissione; Cristo predicò e confermò l’esistenza di un Dio che è “Padre nostro[11]”, oltre che Amore (1 Giovanni 4, 8).
- Maometto si proclamò “Messaggero di Dio” e sigillo dei profeti; Gesù fu innanzitutto “Figlio” di Dio in un modo che nessuno poteva immaginare prima di lui, e così Dio fu per lui “il Padre” nel senso più rigoroso del termine, con la partecipazione dell’unica natura divina non solo del Figlio, ma anche di tutti gli uomini che a quest’ultimo sono uniti tramite il battesimo.
- Per Maometto la pienezza della vita morale consisteva nel rispettare dei precetti; per Cristo nell’essere perfetti come il Padre è perfetto (Matteo 5, 48), perché “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre” (Galati 4,6).
- Maometto predicò la sottomissione totale ai decreti immutabili di Dio; Cristo annunciò che il Padre ha voluto stabilire una nuova relazione che unisce gli uomini a Dio, del tutto soprannaturale, la théosis, l’elevazione della natura umana che diviene divina per mezzo dell’incarnazione del suo Figlio, per cui in cristiano non è solo un seguace di Cristo: è Cristo.
Desideriamo concludere citando ancora Solov’ëv:
“Il limite fondamentale nella concezione del mondo di Muhammad e nella religione da lui fondata è l’assenza dell’ideale della perfezione umana o della perfetta unione dell’uomo con Dio: l’ideale dell’autentica divinoumanità. Il musulmanesimo non esige dal credente un infinito perfezionamento, ma solo un atto di assoluta sottomissione a Dio. È evidente che anche dal punto di vista cristiano, senza un simile atto è impossibile per l’uomo raggiungere la perfezione; ma di per sé questo atto di sottomissione non costituisce ancora la perfezione. E invece la fede di Muḥammad pone la prima condizione di una autentica vita spirituale al posto di questa vita stessa. L’islam non dice agli uomini: siate perfetti come lo è il Padre vostro che sta nei cieli, cioè perfetti in tutto; esso richiede loro soltanto una generale sottomissione a Dio e l’osservanza nella propria vita naturale di quei limiti esteriori che sono stati stabiliti dai comandamenti divini.
La religione resta soltanto il fondamento incrollabile e la cornice sempre identica dell’esistenza umana e non diventa mai invece il suo contenuto interiore, il suo senso e il suo fine. Se non v’è un ideale perfetto che l’uomo e l’umanità devono realizzare nella loro vita con le proprie forze, questo significa che per queste forze non v’è alcun compito preciso, e se non c’è un compito o un fine da raggiungere, è evidente che non può esservi un movimento in avanti. È questo il motivo autentico per cui l’idea di progresso e il suo fatto stesso restano estranei ai popoli musulmani. La loro cultura conserva un carattere particolare puramente locale e presto sfiorisce senza lasciare alcuno sviluppo successivo”[12].
[3] Sūra 25/34-35.
[4] “Troverai che i più feroci nemici di coloro che credono sono i giudei e i pagani, mentre troverai che i più cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: ‘Siamo cristiani (nazareni)!. Questo avviene perché fra di loro vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi – ma anzi, quando ascoltano quel che è stato rivelato al Messaggero di Dio li vedi versar lacrime copiose dagli occhi, a causa di quella verità che essi conoscono, e li odi dire: ‘O Signor nostro! Crediamo! Annoveraci fra i testimoni del Vero!” (5/82-83). Sembra ci si riferisca, a onor del vero, più a cristiani che si convertono all’islam, tanto che poco prima, ai versetti 72-72 della medesima sūra: “Certo sono empi quelli che dicono: ‘Il Cristo, figlio di Maria, è Dio’. [—] E certo chi a Dio dà compagni, Dio gli chiude le porte del paradiso: la sua dimora è il Fuoco, e gli ingiusti non avranno alleati. – E sono empi quelli che dicono: ‘Dio è il terzo di Tre’. Non c’è altro dio che un Dio solo, e se non cessano di dire simili cose un castigo crudele toccherà a quelli di loro che così bestemmiano”.
[5] “…né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a Lui” (4/56). In ciò la dottrina islamica è identica a quella docetista, di origine gnostica (già nel II sec. dell’era cristiana, dal verbo greco dokéin, apparire), il cui principale esponente fu il teologo gnostico Basilide. Secondo questa dottrina, non era concepibile la coesistenza, in Cristo, di due nature, una umana (portatrice del male) e una divina (portatrice del bene). Dunque, o Cristo era stato sostituito da qualcun altro al momento della crocifissione oppure l’intero episodio era stato un’illusione. Già Simon Mago (citato negli Atti degli Apostoli) si era espresso in questo senso, e a lui e ai suoi seguaci gnostici sembra rispondere già Giovanni, in 1Gv 4, 1-2: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne è da Dio”; e ancora, Gv 1, 14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
[6] L’islam si divide in due branche fondamentali: una sunnita (75% circa) e l’altra sciita (da šī‛at ‛Alī, in arabo: partito di ‛Alī, genero di Muḥammad e quarto nella successione alla guida della comunità islamica). L’islam sciita si basa, oltre che sui cinque pilastri comuni a quello sunnita, anche su altri cinque fondamenti: il monoteismo (Tawḥīd); la profezia (Nubūwa); l’imamato (Imāma); la risurrezione (Ma‛ad); la Giustizia di Dio (‛Adl). Rispetto all’Islam sunnita, lo sciismo presenta alcune caratteristiche peculiari: la guida della comunità islamica (che, nello sciismo, deve essere nelle mani esclusivamente di un discendente del profeta Muḥammad); vari aspetti del diritto, come il matrimonio temporaneo (mut‛a); alcune forme di culto di santi e di martiri, molto simili a forme popolari di culto cristiano cattolico; la minore rigidità nell’interpretazione del testo sacro, che, per gli sciiti, ha anche una valenza esoterica e nascosta; la presenza di diverse sette minoritarie. Inoltre, una peculiarità essenziale, all’interno dello sciismo, è la presenza di un clero. Ne sono un esempio i celebri Ayatollah, che hanno un’importanza fondamentale nella vita religiosa e politica dell’Iran, Paese in cui i fedeli sciiti sono la maggioranza assoluta della popolazione.
[7] Belloc, H., The great heresies, Cavalier Books, Londra, 2015 (versione e-book).
[8] Belloc, H., op. cit.
[9] Solov’ëv, V., La Russia e la Chiesa universale, ed. Ghibli, 2013 (consultato online).
[10] Il brano è riportato in: Pareja, F.M., op. cit., pag. 69.
[11] Nel Nuovo Testamento la parola “Padre” compare ben 170 volte, di cui 109 nel solo Vangelo di Giovanni. Lo stesso termine, invece, non compare che 15 volte in tutto l’Antico Testamento, e in quasi tutte si riferisce a una paternità collettiva nei confronti del popolo d’Israele.
[12] Solov’ëv, V., Maometto. Vita e dottrina religiosa, capitolo XVIII, “La morte di Muhammad. Valutazione del suo carattere morale”, in “Bisanzio fu distrutta in un giorno. La conquista islamica secondo il grande Solov’ëv”, https://www.tempi.it/bisanzio-fu-distrutta-in-un-giorno-la-conquista-islamica-secondo-il-grande-solovev#.WhXnpaDcnqA (consultato il 21 novembre 2017).
Regola per la trascrizione delle parole arabe
Utilizzando il metodo adottato da Oriente Moderno*
أ ’ | خ ḫ | ش š | غ ġ | ن n |
ب b | د d | ص ṣ | ف f | ه h |
ت t | ذ ḏ | ض ḍ | ق q | و w |
ث ṯ | ر r | ط ṭ | ك k | ي y |
ج ǧ | ز z | ظ ẓ | ل l | ى à |
ح ḥ | س s | ع ‛ | م m | ﺓ a, at |
* Oriente Moderno, LI., 1971, Istituto per l’Oriente, Roma
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- Belloc, H., The great heresies, Cavalier Books, Londra, 2015 (versione e-book).
- Carmignac, J., A l’écoute du Notre Père, Ed. de Paris, Parigi, 1971.
- Pareja, F.M., Islamologia, Roma, Orbis Catholicus, 1951.
- Gabriel, Mark A., Jesus and Muhammad: Profound Differences and Surprising Similarities, Charisma House, Lake House, 2004.
- Solov’ëv, V., L’ecumenismo che verrà. La Russia e la Chiesa universale, ed. Ghibli, 2013 (consultato online).
- Claudio Lo Jacono, “Maometto“, Laterza, 2011.
- Solov’ëv, V., Maometto. Vita e dottrina religiosa, capitolo XVIII, “La morte di Muhammad. Valutazione del suo carattere morale”, in “Bisanzio fu distrutta in un giorno. La conquista islamica secondo il grande Solov’ëv”, https://www.tempi.it/bisanzio-fu-distrutta-in-un-giorno-la-conquista-islamica-secondo-il-grande-solovev#.WhXnpaDcnqA (consultato il 21 novembre 2017).
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