CONTENUTO
L’eredità della Rivoluzione americana
Gli anni tra il 1775 e il 1783 hanno profondamente influenzato e nutrito l’orizzonte europeo, che di lì a pochi anni sarebbe stato teatro della seconda delle due rivoluzioni atlantiche, la Rivoluzione francese. Ma che cosa ci ha lasciato la Rivoluzione americana? Perché ricordiamo con tanta premura il 1776, anno di formazione degli Stati Uniti d’America?
L’ideale costituzionale del governo limitato, in cui si sperimentano per la prima volta, oltreoceano, tecniche di bilanciamento ed equilibrio dei poteri tipicamente inglesi, rendono gli Stati Uniti i legittimi eredi di un funzionamento politico che – secondo i pensatori politici delle colonie americane – era da tempo in crisi in Gran Bretagna.
Un passo indietro: le tredici colonie britanniche
Le tredici colonie britanniche in territorio americano conoscono sin dall’inizio una fortissima impronta multiculturale e una larga varietà etnica, continuamente infoltita da un alto tasso di natalità e un costante flusso immigratorio di inglesi, scozzesi, irlandesi, olandesi e tedeschi. I 2,5 milioni di coloni si raggruppano in tre fasce territoriali, storiograficamente distinte in colonie del Nord o del New England (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island e New Hampshire), in colonie del Centro (New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware) e in colonie del Sud (Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud, Georgia).
Il forte sviluppo disomogeneo tinteggia un quadro dalla fisionomia variegata: le colonie del Nord, infoltite sin dal 1620 dall’immigrazione di minoranze religiose puritane e con un’economia essenzialmente agricola fondata sulla coltivazione e l’esportazione di cereali e legname, ospitano le prime industrie cantieristiche per la fabbricazione di navi attorno al porto di Boston.
Le colonie del Centro, economicamente simili alle colonie del Nord, perfezionano ulteriormente le attività finanziarie e commerciali. Infine, le colonie del Sud sono commercialmente più legate alla madrepatria, con un’economia basata su una produzione agricola di tipo latifondistico e sull’impiego di manodopera a basso costo, preannunciando lo stesso quadro che si ripresenterà alle soglie della guerra civile americana.
L’organizzazione politica delle colonie è diversa da quella della Gran Bretagna. Alcuni punti fondamentali: le carte coloniali, che descrivono gli organi atti a governare i singoli territori; un governatore, nominato dal sovrano inglese; una camera alta di nomina governativa con funzioni di consiglio; una camera bassa elettiva, che acconsente all’introduzione di imposte locali.
Tuttavia, per ottenere il consenso degli insediamenti coloniali dispersi sul territorio – da cui dipendono comunque le entrate fiscali – vanno sempre più ampliandosi i poteri della camera elettiva, accrescendo le funzioni di autogoverno delle comunità: la diminuzione della soglia censitaria come requisito di ingresso alla camera permette così una larga partecipazione politica, paradossalmente molto più estesa che in madrepatria. (1)
I contrasti con la madrepatria
I primi dissapori con la Gran Bretagna dipendono essenzialmente da tre tipi di motivazioni: commerciali, culturali e fiscali. La promulgazione, dal 1651, dei Navigation Acts, tesi a limitare l’attracco del naviglio estero presso tutti i porti britannici, inclusi quelli delle colonie, si accompagnano all’introduzione di dazi sulle importazioni e ad espliciti divieti di esportazione di manufatti che potessero potenzialmente competere con quelli della madrepatria. L’ostracismo alla libertà di manovra coloniale e l’assenza di un mercato regolato da sana e libera concorrenza si risolve ben presto nel contrabbando e nella corruzione delle autorità portuali.
Gli abitanti delle tredici colonie britanniche hanno inoltre preso parte alla sanguinosa guerra dei Sette anni (1756-1763): la partecipazione consente loro di acquisire consapevolezza della propria forza, dell’incapacità dei generali inviati dall’Inghilterra, e di prendere coscienza di sé come popolo distinto, animato da un vivacissimo melting pot, da principi illuministi e razionali e dal “grande risveglio religioso” (Great Awakening), rivitalizzazione evangelica che travolge le sette protestanti coloniali e destinata a lasciare grande impatto sulla politica, enfatizzando la conquista della libertà personale come prerequisito per futura salvezza.
Tra il 1764 e il 1765, l’imposizione dello Sugar Act (tassa che grava essenzialmente sull’importazione di zucchero, vino, caffè, pimento e liquori) e successivamente dello Stamp Act (imposta su ogni foglio stampato, come documenti legati, licenze e giornali) precede la promulgazione del Declaratory Act (1767), supremo diritto del parlamento britannico di approvare leggi per le colonie americane. Queste nuove imposizioni fiscali inglesi accrescono la rabbia dei coloni americani che iniziano a pensare di tirarsi fuori dal sistema economico della madrepatria.
L’indebitamento dello Stato britannico e la riorganizzazione della difesa richiedono il contributo maggiore da parte delle colonie, ma i rapporti tra le due realtà sono destinati a sfilacciarsi, soprattutto davanti alla manovra liberticida dello Stamp Act (in ogni caso ritirato nel 1766), rivolta a mettere a tacere la diffusione delle idee, che nei primi agglomerati in forte aumento demografico – come Philadelphia, Boston e New York – si esprimono attraverso giornali, gazzette e ceti intellettuali. I delegati delle colonie dichiarano illegittima la tassa da bollo, votata in un Parlamento in cui esse non sono rappresentate (da qui la nota formula “no taxation without representation”).
Per tutta risposta, i coloni iniziano a boicottare le merci inglesi, le cui vendite diminuiscono di due terzi, fino a quando la tensione non esplode nel celebre episodio del Boston Tea Party nel dicembre 1773, quando un gruppo di patrioti travestiti da indiani assale una nave della Compagnia delle Indie orientali nel porto di Boston, gettando in acqua tutto il carico di tè in essa trasportato: il seme del conflitto è stato gettato.
La guerra d’indipendenza americana e i congressi di Philadelphia
La reazione della Gran Bretagna è più che mai dura: viene decretata la chiusura immediata del porto di Boston fino al completo risarcimento per le merci distrutte, ma la misura genera ulteriore insubordinazione. Il primo Congresso continentale di Philadelphia del 1774 incoraggia il boicottaggio delle merci inglesi e ribadisce duramente il principio del “no taxation without representation”.
Nel frattempo, nel 1775 il Congresso organizza la formazione di un esercito, per trasportare lo scontro sul piano militare. Dopo la vittoria nella battaglia di Lexington (aprile 1775), che segna convenzionalmente l’inizio della guerra di indipendenza, il comando viene affidato a George Washington, futuro primo presidente degli Stati Uniti.
Gli esordi bellici non possono tuttavia considerarsi felici: l’esercito di Washington non è all’altezza di quello britannico, meglio equipaggiato e addestrato, e subisce un rovescio nella battaglia di Bunker Hill (giugno 1775) prima e in quella di Long Island poi (agosto 1776), vedendosi costretto ad evitare gli scontri diretti in campo aperto, tentando di indebolire la resistenza inglese con azioni di sabotaggio a sorpresa.
Arriva quindi inaspettata e forse prematura la decisione del secondo Congresso continentale che, sempre a Philadelphia, il 4 luglio 1776 dichiara a nome delle tredici colonie della costa atlantica nordamericana la propria indipendenza dall’Impero britannico, con un documento destinato ad entrare nella storia: la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America
Il documento segue lo schema del sillogismo e inaugura un nuovo stile dissertatorio, che sarà ripreso successivamente dai testi rivoluzionari francesi. Esso propugna il legittimo diritto di resistenza dell’oppresso nei confronti della tirannia di Londra, nonché l’esistenza di diritti inalienabili che devono essere protetti dai governi, e afferma la nascita di un popolo nuovo come esito delle esperienze politiche e culturali delle colonie nel XVIII secolo. Tra i principali redattori, Thomas Jefferson, John Adams e Benjamin Franklin.
Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali;
che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la
Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli
uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una
qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di
istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri
al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità. (2)
La “comunità volontaria” statunitense non avrebbe rinsaldato i propri legami sociali riconoscendosi in una tradizione secolare, bensì nella consapevole partecipazione morale e individuale alla vita politica e sociale del nuovo embrione.
Originandosi quindi dall’opposizione della costituzione (legge fondamentale intessuta di principi giusnaturalistici e influenze filosofiche) alla legge del parlamento inglese (legge ordinaria, ovvero l’atto impositivo di tributi dichiarato illecito e incostituzionale), la rivoluzione americana, svincolando irreparabilmente due organismi territoriali, può dirsi fondata su una duplice base: da un lato, i diritti naturali dell’uomo e il potere sovrano del popolo a cui si ricorre quando si è tentato di tutto per evitare la rottura (Stati Uniti), dall’altro la tradizione del costituzionalismo inglese e del valore garantistico positivo dei diritti. (3)
L’influenza del pensiero politico e della filosofia
L’Inghilterra, già tra il XV e il XVI secolo viene descritta da pensatori politici del calibro di John Fortescue come un dominum politicum et regale che associa il principio regio alla comunità politica che si manifesta nel Parlamento, luogo di incontro di tutte le realtà del regno. Tra le prerogative proprie del Parlamento, quelle di dichiarare la legge, imporre tributi e amministrare i beni pubblici.
Le argomentazioni con cui le tredici colonie si sollevano hanno dunque validità giuridica: il principio intessuto e stabilito su misura per la madrepatria – la compartecipazione di tutte le antiche istituzioni politiche e territoriali alle decisioni del Parlamento – viene disatteso proprio dalla stessa; di qui, la lotta contro l’incoerenza britannica. La rappresentanza e la consultazione dei diretti interessati erano principi alla base del funzionamento politico medievale britannico.
La costituzione mista medievale (recuperando un’espressione dal sapore polibiano) nasce come evoluzione di una realtà storicamente determinata con le sue varietà e complessità, e con l’esistenza di realtà di potere molto diverse (basti pensare ai sovrani, feudatari e orientamenti cittadini medievali), che non hanno nessuna pretesa totalizzante e onnicomprensiva nei confronti degli altri soggetti. Il dialogo politico è caratterizzato da medietà, stabilità e compartecipazione dei ceti – insieme di corpi privati e civili che, trapiantati nella dimensione pubblica dello stato, godono del diritto di proporre ed elaborare forme proprie di gestione della loro condizione.
Simili premesse secolarmente cristallizzate spiegano le reazioni davanti alla pubblicazione, nel 1762, del Contratto sociale di Rousseau, in cui il potere attribuito al popolo (ad una sola, quindi, delle componenti della costituzione mista) disegna un’entità sovrana totalizzante, una libera volontà ridefinitrice degli orizzonti costituzionali, che si riconosce in un patto che dà vita al corpo politico.
Il popolo sovrano rappresenta, per gli sbigottiti lettori di Rousseau, una minaccia alla costituzione – generalmente intesa come una sponsio, ovvero un impegno reciproco tra governanti e governati. Il popolo può unirsi in assemblee periodiche durante le quali ogni attività di governo è momentaneamente sospesa, e può decidere se mantenere o meno i magistrati in carica. Il ruolo dei governanti risulta così circoscritto: sono essenzialmente commissari che il popolo delega e che può funzionalmente destituire; inoltre, non possono concludere nulla in modo definitivo, perché la legge deve essere ratificata nel suo atto finale dal popolo sovrano.
Facendo cronologicamente un passo indietro, il recupero della “costituzione mista dimenticata” si fa strada nell’età moderna con François Hotman, che nei suoi Franco-Gallia (1573) e Vindicae contra tyrannos (1579) sprona alla rivalorizzazione dell’utilitas rei publicae, che obbliga il sovrano a trattare ogni questione alla presenza degli Stati Generali, veri custodi e interlocutori di istituzioni e consuetudini formatesi nel corso di molte età.
La novità, in Hotman, sta nell’origine della costituzione: essa è infatti uno strumento di configurazione del popolo originariamente dotato di potere, e che può nuovamente imbracciarlo per utilizzarlo contro il re e i suoi tentativi di dominio. Altro non è che l’affermazione di quel diritto di resistenza del popolo che sarà da formulario durante le rivoluzioni settecentesche.
L’intervento ridefinitore ‘dal basso’ viene contemplato anche in John Locke, che nei Due trattati sul governo (1689) si fa sostenitore dell’esistenza di un potere moderato e bilanciato, limitato dal divieto di disporre in modo arbitrario dei beni, obbligato ad operare mediante leggi riconosciute e chiamato a perfezionare la tutela dei diritti preesistenti. Locke teme i due estremi: la monarchia assoluta e l’esistenza di una sola camera di governo. L’ideale del checks and balances considera un parlamento che si oppone alla tirannia della monarchia, e una prerogativa regia che contrasta il dominio assoluto e abusante del potere legislativo.
Se però l’equilibrio si rompe diventa possibile l’appello al popolo, che può riprendere in mano il proprio potere per istituire in poco tempo un’altra forma politica, sebbene sia ragionevolmente ostile a mutare repentinamente le proprie antiche consuetudini – giustificando, quindi, l’intervento in nome di uno sfinimento politico prolungato nel tempo. (4) Il modello del “potere che frena il potere”, con atti di reciproca limitazione, alla base del governo limitato statunitense sarà, inoltre, anche il presupposto de Lo spirito delle leggi (1748) di Montesquieu, testo fondamentale per i primi orizzonti rivoluzionari francesi.
La fine del conflitto
La battaglia di Saratoga (ottobre 1777) segna la prima grande arresa degli inglesi. Uno dopo l’altro, si aggiungono gli appoggi alla causa statunitense di Francia e di Spagna, interessate a regolare con il gigante britannico la contesa sul dominio dei mari. La battaglia di Yorktown (settembre-ottobre 1781), episodio militare finale della rivoluzione americana, rappresenta uno smacco per la macchina bellica inglese: il generale Cornwallis, sotto i bombardamenti dell’artiglieria franco-americana, capitola insieme alle sue truppe. (2)
Le trattative di pace intraprese con le forze americane culminano nella Pace di Versailles (1783) che sancisce il definitivo riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Negli anni immediatamente successivi, il nuovo organismo sarebbe stato impegnato a ridefinire il proprio processo di organizzazione politica, passando da un’unione confederata a una federazione di stati, forma unitaria riconosciuta dalla Costituzione (1787).
Note:
(1) Marco Meriggi, Leonida Tedoldi, Storia delle istituzioni politiche, Carocci editore, pagina
63
(2) Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, 1776
(3) Maurizio Fioravanti, Costituzione, il Mulino, pp. 102-103
(4) Ibidem, pp. 90-93
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- T. Bonazzi, La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, Marsilio, Venezia, 2001
- D. Armitage, La Dichiarazione d’indipendenza. Una storia globale, UTET, Torino, 2007
- N. Matteucci, La rivoluzione americana. Una rivoluzione costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1987
- P. Raynaud, America e Francia: due rivoluzioni a confronto (1989) in F. Furet (a cura di), L’eredità della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari.