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Vito Cascio Ferro: gli anni di Bisacquino
Chi abbraccia la carriera criminale è consapevole dei rischi che corre: in un conflitto a fuoco può incrociare la pallottola di un poliziotto, o all’apice della lotta per il potere nella propria organizzazione esser fatto fuori da colui che sino al giorno prima era un suo fedele luogotenente. Ma vi sono anche criminali che hanno concluso la loro vita in una dorata latitanza, ed altri che, una volta catturati tra il giubilo dei governanti e la legittima soddisfazione delle forze dell’ordine, vedranno sino alla conclusione dei loro giorni “il sole a scacchi”, rinchiusi in un carcere di massima sicurezza.
Il capo mafioso (o se preferite “padrino”, giacché come il primo di essi viene indicato dagli storici) di cui ci occupiamo concluse la sua “onorata” carriera proprio in tale ultimo modo. Dopo aver affrontato negli Stati Uniti ed in terra palermitana detective dello spessore del poliziotto americano di origini italiane Joe Petrosino, del cui omicidio rimane il principale sospettato quale mandante, nonché aver contrastato l’azione del “prefetto di ferro” di nomina mussoliniana Cesare Primo Mori, don Vito Cascio Ferro (ma lo trovate scritto anche Cascioferro) perirà di stenti in una prigione, attendendo l’arrivo degli alleati impegnati a risalire l’isola nella liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista. A dirla tutta la data della sua morte è avvolta dal mistero, così come in realtà fu tutta la sua vita. Concordi nell’affermare che morì in cella, alcuni giurano che fu nel 1943 a Pozzuoli a causa di un bombardamento, il figlio asserisce nel carcere di Procida, stroncato da una crisi cardiaca, altri a Palermo, mentre l’Italia è in via di liberazione nel 1945.
Il suo certificato di nascita porta la data del 22 gennaio 1862. All’ufficio di Stato Civile di Palermo si presenta il padre Accursio, che pochi anni più tardi si trasferisce con la famiglia nel comune di Bisacquino, oltre Corleone, nella provincia palermitana che si spinge verso quella agrigentina, per fare il mestiere di campiere. La professione di Accursio avrà acceso una lampadina ai lettori più addentro: si tratta di un guardiano armato di fucile, controllore del lavoro dei contadini, alla base del sistema semi-feudale ottocentesco dell’agro siciliano, da cui gli si fa risalire le origini della mafia, nell’ opaco connubio “protezionistico” con le élite terriere del tempo.
Papà Accursio lavora per i gabellotti che versano l’affitto ai latifondisti baroni Inglese, nei campi del feudo di S. Maria del Bosco. Il giovane Vito, al pari di tanti coetanei in quell’epoca, non viene avviato agli studi. Ma ha modo di rifarsi, in maniera senz’altro originale: ancora giovane sposa una maestra, Brigida Giaccone, che gli assicura l’abitazione e gli insegna a leggere e scrivere. E deve anche sopportare i tradimenti del marito: affascinante e carismatico, un po’ spaccone, Vito si costruisce uno di quei personaggi che spesso si incontrano in provincia: poca o punta voglia di lavorare (compravendite per conto del barone Inglese e una rappresentanza dell’impresa di trasporti postali Caruso), abiti eleganti, scappatelle matrimoniali, gioco d’azzardo nei circoli di Palermo e Bisacquino. Il classico “vitellone”, però dalle molteplici maschere. Una è politica: si professa anarchico e nel 1892 è attivo nei “Fasci dei Lavoratori“, movimento di rivendicazione cui partecipano braccianti agricoli, mezzadri, affittuari di terreno, che chiedono miglioramenti salariali. Agli occhi della sicurezza pubblica è talmente vivace che per evitare il domicilio coatto è costretto a fuggire in Tunisia per circa un anno.
È pur vero che in un rapporto inviato al siciliano Capo del Governo Francesco Crispi, il questore di Palermo Lucchesi segnala che i “fasci” sono composti per i 2/3 di povera gente e per il restante 1/3 di delinquenti. In questo periodo della sua vita egli pare rientrare nella porzione minore. Come osserva uno storico, taluni mafiosi – che avevano nel loro DNA i geni della politica – capirono come nei Fasci ci fosse l’occasione per consolidare il proprio prestigio ed il potere sui contadini siciliani mobilitatisi. Già, perché un ulteriore aspetto peculiare di Vito sarà predominante nella sua vita: la tendenza al crimine.
In Tunisia è attivo nel settore della ricettazione degli animali rubati in Sicilia e lì inviati a mezzo imbarcazioni, sino a che non giunge l’auspicato momento di rientrare nell’isola, dietro la promessa che non si sarebbe più occupato di politica, non foss’altro perché nel frattempo espulso dai Fasci. Ha raggiunto i 36 anni e siamo nel 1898 quando il fascicolo tenuto dal Delegato di Pubblica Sicurezza di Bisacquino si arricchisce. Il motivo è il rapimento di una diciannovenne baronessina, dal nome altisonante: Clorinda Peritelli di Valpetrosa, liberata nel giro di ventiquattro ore, dopo il sequestro ad opera di tre individui e la detenzione durata una sola notte, curata da una donna che la rapita descriverà a verbale come “gentile e premurosa”.
La polizia ha le sue fonti e presto è in grado di predisporre un riconoscimento negli uffici della Questura: Cascio Ferro, cinque sue sodali e tale Lucrezia Azerba sono formalmente sospettati del sequestro. Allora come oggi un bravo avvocato una forma per sfuggire alle grinfie della giustizia ha il dovere di trovarla: signor giudice, è che uno dei complici, lo studente Girolamo Campisi, era innamorato della baronessina, ed aveva chiesto aiuto ai compari per organizzare una “fuitina”, un sequestro per causa d’amore che avrebbe messo i baroni di fronte al fatto compiuto. Il processo però si tiene ugualmente e per il capo banda Cascio Ferro la condanna è a tre anni (condonati) con correlata proposta di ammonizione, a ben vedere una pena senza delitto mediante la quale la polizia esercita un serrato controllo sul soggetto colpito.
Don Vito comprende che per lui tra Palermo e Bisacquino si vanno stringendo le maglie poliziesche e che è giunto il momento di cambiare aria: la sorella Francesca è a Nuova York, perché non provare a scoprire se il nuovo mondo è proprio così ricco e pieno di opportunità come lo descrivono, anche e soprattutto per chi intende aggiornare il proprio curriculum criminale? Per salire sulla nave La Champagne don Vito deve giungere fino a Le Havre, e dopo circa un mese di viaggio eccolo sbarcare il 30 settembre 1901 ad Ellis Island, dove curiosamente preferisce farsi registrare come scapolo, seppure non nasconda la reale data di nascita.
Scoprire l’America
Cascio Ferro certamente non è emigrato per spezzarsi la schiena con l’onesto lavoro come tanti compatrioti facevano in quegli anni. Little Italy di East Harlem è il quartiere di Manhattan dove tanti immigrati trovano alloggio, ammassati in stamberghe malsane. Ciò consente comunque loro di essere sostenuti da una rete di connessioni tra connazionali, sì da mantenere tradizioni e lingua. Gli affitti e il costo della vita sono più bassi rispetto ad altre aree di New York, e l’integrazione lavorativa assicurata dall’impiego in piccole attività commerciali, ristoranti e fabbriche all’interno del quartiere. Inoltre, Little Italy si trova nei pressi dei porti di sbarco, Ellis Island compresa, tanto da facilitare l’insediamento iniziale.
Le mirabolanti promesse del nuovo mondo si rivelano però fallaci: difficili le condizioni di vita degli immigrati, caratterizzate da povertà, violenza sociale, caos. Non manca il razzismo: gli italiani vengono descritti “dalla carnagione scura” e “dai capelli crespi”, nonché “pigri, sporchi, crudeli, feroci, assetati di sangue”. E per parificarli agli africani in schiavitù volano insulti come “dago” o “guinea”. L’epiteto dispregiativo di “wops” (“with out papers”) sta ad indicare lo status di clandestini o privi di documenti regolari. Se tutto ciò non bastasse, si aggiunga la vessazione da parte degli stessi delinquenti connazionali, taglieggiatori ed usurai, scarsamente se non affatto contrastati dal Dipartimento di polizia (NYPD) che ha il Quartier Generale proprio a Little Italy, al numero 300 di Mulberry Street, nei cui ranghi primeggiano agenti irlandesi, avvantaggiati dal parlare la stessa lingua degli americani, ed a loro volta prevenuti verso gli italiani.
È in questo contesto che il nuovo giunto Cascio Ferro non ha difficoltà ad unirsi ad una banda formata da corleonesi e palermitani che ha il suo punto di ritrovo nella trattoria Stella d’Italia, al numero 8 di Prince Street, capeggiata dal temuto Giuseppe Morello, soprannominato “Joe l’Artiglio” a causa della deformazione della mano destra che presenta quattro dita atrofizzate, cui si assocerà presto il futuro cognato Ignazio Lupo, cui con poca fantasia sarà appioppato il nomignolo di “Wolf”. Vito è giunto da appena tre giorni e riceve dallo stesso Morello un invito a “mangiare un piatto di maccheroni” con Giuseppe Fontana – un mafioso immigrato dopo l’assoluzione per l’omicidio “eccellente” di Emanuele Notarbartolo, banchiere e politico – ed altri quattro “uomini d’onore”.
Il suo ruolo nella congrega appare presto essere quello di “consigliori”, ovvero, come il nome indica, un consigliere fidato del boss, con spiccate capacità diplomatiche. La leggenda vuole che sia proprio lui a suggerire oltreoceano l’imposizione del “pizzo” a connazionali commercianti ed imprenditori, ovvero un pagamento di una somma estorto a fronte di una simulata “protezione”. A quanto si narra trova però anche il tempo per dare un tocco di lucido alla sua evidentemente mai archiviata ideologia anarchica, mediante una visita a Sophia Knieland Bresci nella sua casa nel New Jersey. Si tratta della vedova di Gaetano Bresci, l’anarchico che aveva ucciso a Monza il re italiano Umberto I il 29 luglio del 1900, prendendo le mosse proprio dalla comunità italiana statunitense.
Se i poliziotti irlandesi sono relativamente interessati alla malavita italiana, lo stesso non può dirsi del brillante e rubizzo capitano del Secret Service statunitense William J. Flynn, tanto meritorio che anni dopo lo ritroveremo capo del Bureau of Investigation, precursore del ben noto FBI. A quei tempi non esiste ancora il florido traffico di stupefacenti, che è una delle attuali maggiori preoccupazioni della politica criminale statunitense. In compenso la delinquenza è specializzata nella relativamente semplice falsificazione del dollaro, in banconote, in particolare del taglio da 5, ma anche in monete.
Lo U.S. Secret Service era stato creato sin dal 1865 per combattere la contraffazione e stabilizzare il giovane sistema finanziario americano, con la missione di individuare le bande specializzate e le relative stamperie. Già nel maggio del 1902 Flynn si imbatte in Cascio Ferro, arrestato con Stella Frauto, vedova di un noto counterfeiter ed a capo di una banda di falsari, tra i quali Salvatore Clemente, che nei successivi trent’anni diverrà un prezioso informatore del Secret Service. Cascio Ferro sfugge alla condanna, dopo che alcuni testimoni non riescono ad identificarlo e altri non si presentano affatto. Continua comunque a bazzicare Giuseppe Morello ed i membri della banda.
Joe Petrosino
Flynn trova poi un capace alleato in Giuseppe “Joe” Petrosino, primo poliziotto di origini italiane del Dipartimento di New York, una carriera che lo porterà ad essere nominato detective e capo della da lui voluta e neocostituita Italian Squad. Emigrato con la famiglia dal salernitano nel 1873, questo sveglio tredicenne come tanti paisà inizialmente si arrangia, pulendo le scarpe in un banchetto di Mulberry Street. Adocchiato dall’ ispettore Alexander “Clubber” Williams, cui gli amministratori locali iniziano a chieder conto di risultati nella lotta alla dilagante criminalità italiana, dopo essere nominato controllore dello sversamento dei rifiuti nel mare a largo della città, è definitivamente arruolato.
Volendo dimostrare che gli italiani lavoratori nulla hanno a che spartire con i connazionali criminali, si dedica con encomiabile spirito di servizio, acuta intelligenza e modo spicci a combattere mafiosi, camorristi e la leggendaria “Mano Nera”, che altro non è che la sigla di origine anarchica dietro la quale si nascondono le gang che terrorizzano Little Italy con esplosioni di bombe e taglieggiamenti tramite lettere a sfondo minatorio (blackmails, in italiano note come “lettere di scrocco”).
Petrosino, benvoluto dal Police Commissioner Theodore Roosevelt futuro presidente degli States, si trova a collaborare con Flynn per squarciare il mondo criminale italiano nel caso passato alla storia come Barrel Murder, il delitto del barile. Il 14 aprile 1903 all’interno di un barile lasciato all’angolo tra 11th Street e Avenue D è rinvenuto il corpo di Benedetto Madonia, un membro della banda Morello stanziato a Buffalo, ucciso con diciassette coltellate all’interno di una macelleria gestita da un altro affiliato, Vito Laduca, poiché sospettato di essere un delatore.
Gli uomini di Flynn tenevano d’occhio a causa dei loro traffici di banconote contraffatte la banda di Morello, Petrosino ha l’intuizione investigativa di comprendere da dove proviene il barile. Gli sforzi investigativi comuni portano in tribunale il gruppo di mafiosi siciliani, seppure nell’estate Morello e soci sono scagionati per carenza di prove. Cascio Ferro non è compreso nella retata che neutralizza per un breve periodo quella che gli studiosi definiranno “la Prima famiglia mafiosa di New York”. È fuggito il giorno successivo al ritrovamento del barile e del corpo costrettovi all’interno, dirigendosi verso New Orleans, sede di una delle più antiche comunità di immigrati siciliani negli Stati Uniti, e nel settembre 1904 fa ritorno in Sicilia. Certo l’opera di Petrosino è tale da giustificare agli occhi suoi e dei suoi compari quella che solo qualche anno dopo si rivelerà una vendetta definitiva.
Rientrato a casa e forte del suo aggiornato curriculum criminale, Vito diviene un “agente d’affari” per conto dell’onorevole Domenico De Michele Ferrantelli, un commerciante di olio e di cereali. Ne cura il bacino elettorale e l’azienda agricola con sede a Guiglia ed assume definitivamente la postura del boss anche grazie alla sua opera di raddrizzatore di torti subiti dai compaesani (il ritrovamento di un animale rubato, prestiti di denaro, e via così). L’occasione per vendicare i suoi ex soci si presenta quando il quarantanovenne Tenente Petrosino, in accordo con l’attuale Police Commissioner, il Generale Theodore Alfred Bingham, il 9 febbraio 1909 si imbarca sotto il falso nome di Simone Velletri sul piroscafo Duca di Genova alla volta del capoluogo ligure, per raggiungere poi Roma, fare una breve sosta nel borgo natale Padula ed arrivare infine a Palermo, dove prende alloggio all’Hotel de France, camera numero 16, cinque lire a notte.
Il viaggio – pagato con fondi di privati – discende da un progetto fortemente voluto dai due e parzialmente accolto dal legislatore: consentire ai soli immigrati italiani dalla fedina penale “pulita” di entrare negli States. Come riuscirci? Intanto andando in loco a scovare nei tribunali i certificati dei più noti mafiosi immigrati per rimpatriarli (Joe ha con sé una lista di 2000 nomi di criminali!), poi costruire un sistema di verifica preventiva ad hoc, se necessario anche con l’aiuto di funzionari di polizia italiani. La missione, che deve rimanere segreta, viene disvelata prima dall’Araldo italiano, il quotidiano degli immigrati, ed il 20 febbraio confermata all’Herald dallo stesso Bingham.
È una falla che rende vulnerabile il tenente italo-newyorkese in terra siciliana. In realtà due sodali di Morello, Carlo Costantino e Antonio Passananti, a loro volta si erano imbarcati per Palermo, avendo saputo la banda sin dal 12 febbraio del viaggio del loro arcinemico. Intanto Petrosino dal capoluogo si muove da solo – senza soverchie precauzioni – verso altre città siciliane, per ricercare nei tribunali i certificati penali dei soggetti riportati nella sua lunga lista. Come d’abitudine la sera del 12 marzo cena al caffè Oreto in Piazza Marina, secondo quanto poi riportato da alcuni quotidiani interrotto da un paio di uomini che si fermano al tavolo a parlare brevemente con lui e si allontanano.
Uscito dal locale si dirige verso i vicini giardini Garibaldi in piazza Marina, compiendo un itinerario per lui insolito. Da lì riecheggiano quattro colpi di pistola, che si riveleranno fatali per quello che sarà l’unico poliziotto newyorkese ucciso in attività di servizio all’estero. Il questore Ceola scoprirà che Joe era disarmato (aveva lasciato la pistola in albergo) e che nella famosa lista di nomi era riportato in bella vista quello di Vito Cascio Ferro. La polizia italiana costruisce agevolmente il puzzle investigativo, e predispone un rapporto, che però non supera il vaglio della fase di istruzione giudiziaria. Incolpa quattordici mafiosi, intuendo che contro Petrosino “è stata costituita una coalizione internazionale”.
È compreso Cascio Ferro, nel frattempo arrestato cautelarmente, sospetto di aver fornito direzione ed appoggio logistico ed informativo ai due killer visti fuggire dal luogo del delitto (gli stessi uomini che avevano avvicinato Joe mentre era a cena? Tra loro Paolo Palazzotto, arrestato in precedenza da Petrosino negli Stati Uniti, e giunto a Palermo pochi giorni prima del delitto al pari di Costantino e Passananti?). Ancorché un venditore ambulante di cartoline illustrate testimoni di averlo veduto in piazza Marina nel periodo dal 10 al 15 marzo, don Vito sfodera il più classico degli alibi: nella settimana dell’omicidio si trovava stabilmente a Burgio, ben distante da Palermo, in casa dell’onorevole De Michele Ferrantelli, come poter sospettare? La morte di Petrosino rimane uno degli innumerevoli misteri di mafia.
Forse la soluzione è nel criptico telegramma che Carlo Costantino inviò a Morello a New York, il giorno dopo essere giunto sull’isola: “Io Lo Baido lavoro Fontana”. Di Fontana abbiamo già parlato, mentre Lo Baido era un altro uomo del clan. Joe Petrosino – che già da vivo era un personaggio leggendario – divenne un’icona. Il console americano a Palermo, Bishop, scrisse nel telegramma con il quale annunciava il suo assassinio: “è morto un martire”. Ai suoi funerali a New York sono stati calcolati più di duecentomila partecipanti. Anche grazie a frasi captate da investigatori italiani in recenti intercettazioni ambientali di pronipoti di mafiosi, il quadro indiziario costruito a suo tempo dagli investigatori di Ceola risulta confortato.
Lo stesso Flynn, con il quale Petrosino aveva strettamente collaborato, ebbe occasione di avere un colloquio con Morello, nel frattempo incarcerato, il quale confermò la struttura accusatoria degli inquirenti, ivi compreso il ruolo di supervisione di Cascio Ferro. Il boss però non volle verbalizzare le sue dichiarazioni che, come molte altre in questa vicenda, rimasero “confidenze” riportate nelle relazioni poliziesche, non degne per tale motivo di assurgere a prova.
Arriva Cesare Mori
Secondo un rapporto di polizia il potere di Cascio Ferro si va consolidando. Egli controlla il crimine organizzato in tre province ed ha una fitta rete di rapporti con politici locali, cui assicura i voti. Quando un sindaco viene avvertito del suo arrivo in qualche paese dell’entroterra, corre ad attenderlo per baciargli la mano in segno di rispetto. Ha ormai assunto una posa ieratica, aiutato dalla figura alta e magra e da una barba bianca, e non manca di aiutare i bisognosi con opere filantropiche, esaltando al massimo valore quel “monopolio dell’intermediazione” che distingue un capo mafioso da un semplice “soldato” dell’organizzazione criminale.
Cosa o chi può fermare il suo dominio? Sul suo cammino si para la figura di un prefetto, Cesare Primo Mori, inviato nell’isola da Benito Mussolini, divenuto Capo del Governo nel tardo 1922. Il regime non può certo permettere che accanto al fascismo esista un potere parallelo e pervasivo come quello mafioso. A puntualizzarlo sarà lo stesso Duce, in un discorso del maggio 1927 alla Camera dei Deputati, quando ricorderà una sua visita di tre anni prima a Piana dei Greci, e “quell’ineffabile sindaco che trovava modo di farsi fotografare in tutte le occasioni solenni, e che ora è dentro, e ci resterà per un pezzo” riferendosi a don Ciccio Cuccia, che vedendolo circondato dalla forza pubblica, ebbe a dire al capitano dei carabinieri che scortava Mussolini: «Voscienza, signor capitano… viene con mia e non ha bisogno di temere niente. Che bisogno aveva di tanti sbirri?». E forse non stupisce che nell’occasione della visita del Duce risulti presente anche don Vito.
La scelta di mostrare alla mafia il volto feroce del fascismo cade quindi su questo pavese ultracinquantenne, che lo stesso regime aveva posto ai margini imputandogli una non gradita fermezza quando agli albori del movimento da prefetto di Bologna si era trovato a contrastare le violente squadre di Leandro Arpinati, Cesare Balbo, Dino Grandi, tutti fedelissimi di Mussolini. Dalla sua Mori ha una formazione militare in Accademia (la sua carriera in grigioverde è interrotta dalla volontà di sposare prima del tempo allora concesso la sua amata Angelina Salvi), esperienza in terra siciliana (prima da funzionario di polizia a Castelvetrano, in provincia di Trapani e poi da coordinatore di squadre deputate a sconfiggere il fenomeno del brigantaggio) e – sopra tutto – l’inflessibilità.
Ritornato sull’isola nella primavera del 1924, da prefetto di Trapani ritira i permessi per la detenzione di armi, dando una stretta alla guardianìa ed al campieraggio, come abbiamo già visto attività gestite dai mafiosi. Quindi il 20 ottobre 1925 si insedia come prefetto di Palermo, con la chiara missione demandatagli da Mussolini di “ristabilire in Sicilia l’autorità dello Stato”. Rimane nella memoria l’azione svolta il Capodanno del 1926 a Gangi, quando la cittadina viene assediata e rastrellata da polizia e carabinieri, e donne e bambini trattenuti per indurre i malavitosi ad uscire allo scoperto e consegnarsi. La sua condotta gli vale l’appellativo di “prefetto di ferro”. Mori non opera solo con tale tipo di eventi eclatanti, per i quali passerà alla storia.
Egli è ben consapevole della esistenza dell’“alta mafia”, che si annida nella relazione tra mafiosi ed esponenti delle istituzioni, della politica e dell’economia, nella reciproca ricerca del potere e della subordinazione della società. Già anni prima aveva affermato: “il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero”. In questo contesto rientra nel mirino quello che nel frattempo è divenuto uno dei più influenti capi-mafia della provincia palermitana e territori contermini. Uno scontro con la cosca di Contessa Entellina consente nel 1926 alla magistratura, pure rinfrancata dal nuovo “vento” che spira da Roma, di imputare intanto a don Vito Cascio Ferro l’omicidio di Francesco Falconieri e Gioacchino Lo Voi.
E se in altri momenti sarebbe stato difficile trovare testimoni, ora “i tempi sono cambiati”, come si sente rispondere un suo sgherro andato a ricercare l’appoggio del solito “alto locato”. Intendiamoci: alcuni studiosi ritengono che durante i cinque anni durante i quali Mori è stato “con la mafia ai ferri corti” (come egli stesso intitolerà un libro sulla sua esperienza) gli uomini d’onore non abbiano fatto altro che applicare una strategia che difficilmente troverete nei manuali di management con l’appellativo che le viene dato in Sicilia: “càlati juncu ca passa la china”, ovvero: piegati giunco sinché non passa la piena del fiume, opponendo una postura mimetica, in attesa di tempi migliori, che nella circostanza vengono a breve, Mussolini ancora governante, poiché agrari e notabili trovano protezione ed interessi nello stesso Partito nazionale fascista. Qualche alto “giunco” però nella micidiale azione di Mori rimane incastrato.
Tra questi, come detto, il potente e rispettato don Vito Cascio Ferro, condannato all’ergastolo dopo un processo conclusosi il 27 giugno 1926. Le accuse sono complessivamente pesanti: concorso in venti omicidi, otto tentati omicidi, cinque rapine, trentasette atti di estorsione nonché ulteriori cinquantatré reati di varia natura, tutti accompagnati da minacce di violenza. Pare che anche nelle patrie galere continui ad imporre autorità su detenuti e secondini. Qui, rimuginando sui suoi “brillanti” trascorsi, confida ad un compagno di cella che dei molteplici omicidi di cui lo si accusa, in realtà, ne ha commesso solo uno. Non è difficile immaginare a quale poliziotto italo-americano si riferisca. Vanteria, o – meglio – una lafarniàta, per alimentare la fama di cui gode, onorevole solo per un uomo … della “onorata” società?
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- Anna M. Corradini, L’omicidio di Joe Petrosino. Misteri e rivelazioni, Bonanno, 2013.
- Giuseppe Carlo Marino, I PADRINI. Da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano da Calogero Vizzini a Stefano Bontate fatti segreti e testimonianze di Cosa Nostra attraverso le sconcertanti biografie dei suoi protagonisti, Newton Compton, 2006.
- Arrigo Petacco, Joe Petrosino, Mondadori, 1972.
- Arrigo Petacco, Il Prefetto di ferro: l’uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, Mondadori, 2016.
- Roberto Olla, Padrini, alla ricerca del DNA della mafia, Mondadori, 2004.