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Vincenzo Grossi e le sue «formichine laboriose»: un prete risorgimentale impegnato per l’emancipazione dei giovani
La storia del parroco don Vincenzo Grossi sembra simile a quella di tanti altri preti di campagna, che vissero il periodo risorgimentale schierandosi senza esitazione con il Papa regnante: con Pio IX senza se e senza ma, convinti della bontà del dogma dell’infallibilità del Successore di Pietro. Insomma, a scorrere la vita di don Grossi non si scorge nulla di straordinario, qualcosa che lasci il segno.
Eppure non è così: il suo lascito più grande sono le sue suore, le Figlie dell’Oratorio, una congregazione religiosa originale per il tempo (normalissima oggi), che fa dell’educazione delle nuove generazioni, attraverso la collaborazione con le parrocchie, con la cura della catechesi, la ragione d’esistere, e che vive il il carisma di San Filippo Neri, il santo della gioia e della letizia spirituale. Sono loro le «formichine laboriose»!
Una sola missione: educare i giovani all’impegno nella comunità
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento: anni durissimi, la povertà nelle campagne è dilagante, acuita dalle guerre risorgimentali, causa di reazioni scomposte dell’occupante austriaco, che senza pietà reprime il dissenso; anni in cui la meccanizzazione del lavoro porta all’emigrazione verso le città, con conseguente aumento della povertà; anni difficili in cui il popolo, allettato dai proclami socialisti, inizia a manifestare sofferenza verso la Chiesa; anni in cui non è facile fare il prete.
Don Vincenzo, sacerdote in questo contesto, ha l’intuizione, diffusa all’epoca nel clero, di educare i giovani a essere buoni cristiani, per un impegno consapevole nella comunità, a prescindere dallo Stato, ma rispettosi dell’autorità: è un sacerdote che si pone nella linea successoria di San Filippo Neri, che arriva sino al più recente don Lorenzo Milani.
La figura di Vincenzo Grossi (santo per la Chiesa cattolica) si staglia sul grande palcoscenico della storia e s’incrocia con colossi quali don Giovanni Bosco e -perché no? – Felice Orsini. Chissà, infatti, se don Vincenzo e Orsini si incontrarono in quel di Pizzighettone quando quest’ultimo, braccato dalle milizie asburgiche, appena evaso dal carcere mantovano di San Giorgio, nel 1856, vi passò rompendo il timone della carrozza? Chissà se gl’occhi del barbuto Orsini incrociarono quelli del giovane e futuro santo…chissà…
La vita del piccolo Vincenzo Grossi
Vincenzo nasce a Pizzighettone (allora Regno Lombardo-Veneto), una cittadina della Pianura Padana, in riva all’Adda, il 9 marzo 1845: è il penultimo di dieci figli. Il padre è un mugnaio; tutta la famiglia lavora con lui. Il clima è sereno, non hanno problemi economici e tutto ciò favorisce nel piccolo Vincenzo un’armonica crescita umana, impregnata di valori cristiani. È questo l’ambiente in cui si feconda la sua vocazione di uomo di Dio.
Conoscere i luoghi in cui vive, ancor di più il contesto familiare, ci permette di approfondire le radici di don Vincenzo; radici sane e robuste, alimentate dai valori semplici e tradizionali del cattolicesimo lombardo. Eredita dal padre il suo essere austero ma faceto al bisogno, il suo essere lavoratore sodo e onesto, incapace di mezze misure, di compromessi al ribasso; eredita dalla mamma, donna semplice e retta, la serenità dell’agire, la saggezza del pensare, la dolcezza e la giovialità del rapportarsi agli altri, la mitezza della parola.
A undici anni, dopo avere ricevuto la Prima comunione, incomincia a sentire l’attrattiva verso la vita sacerdotale e lo confida alla mamma. Le dice che desidera entrare in seminario, come il fratello Giuseppe, ma le motivazioni (realistiche) del padre impongono un’attesa: è necessario, infatti, il suo contributo di ragazzo forte e di buona volontà al mulino di famiglia. Vincenzo sa che la vita è sacrificio, duro lavoro; per questo non si scoraggia, anzi la sua vocazione si rafforza e al lavoro unisce lo studio: attende semplicemente il momento. Sa che arriverà.
Grossi in seminario
La pazienza e la perseveranza premiano: nel 1864, a diciannove anni entra in seminario. Negli studi si applica, il profitto è ottimo. Gli educatori lo descrivono gioviale, vivace e disciplinato. Da subito manifesta un positivo ascendente verso i giovani: inizia a comprendere che la sua strada sarà quella della loro educazione cristiana. È ordinato sacerdote dal Vescovo di Brescia, nella Cattedrale di Cremona, il 22 maggio 1869, a ventiquattro anni.
Il contesto storico
La situazione sociale ed ecclesiale della seconda metà dell’Ottocento è dura. Le vicende storiche dell’Italia risorgimentale, la tumultuosità degli eventi, prima e dopo l’Unità, la confusione dottrinale all’interno della Chiesa, chiamata a confrontarsi con rapide evoluzioni sociali, creano un quadro nel quale non è facile vivere l’identità di credenti e tanto meno avviarsi verso il ministero sacerdotale.
Vincenzo, quindi, è sacerdote in anni difficili, caratterizzati dalla scristianizzazione, non solo tra la borghesia, ma anche tra il popolo delle campagne, perseguita dal Governo (decisamente anticlericale) attraverso la laicizzazione della scuola, con la soppressione dell’insegnamento della religione. E i movimenti politici antagonisti al Governo non sono da meno: i socialisti sono laicisti e anticlericali ancor di più.
La catechesi che i sacerdoti assicurano «dalla fanciullezza alla vecchiaia» è, quindi, un muro di confine, una valida difesa agli attacchi alle tradizioni cristiane della gente di campagna. Don Vincenzo, e altri come lui, pensano che solo educando i giovani a essere buoni cristiani li si fa diventare bravi italiani, cioè attraverso un’attenta azione pastorale basata sulla catechesi costante, la confessione periodica e un’attenta, chiara e comprensibile predicazione. È il prodromo della creazione della civiltà cristiana tanto cara a Pio XII.
Il ruolo del sacerdote nella seconda metà dell’Ottocento
Il Risorgimento ha fatto l’Italia, ma gl’italiani, parte di una comunità nazionale, sono fatti? Massimo D’Azeglio pronunciò la famosa frase «L’Italia è fatta. Ora bisogna fare gl’italiani» con la quale mise in luce un’ovvietà, che poi tale non è, vista la complessità del popolo italiano, figlio di secoli di conflitti e di patrie diverse (prima dell’Unità se ne contano almeno sette), cementato essenzialmente dalla religione cattolica, comune denominatore di persone che tra di loro non si comprendevano.
Sembra stano ma è così: se nella Penisola era difficile trovare un lombardo vivere con un siciliano, così non era negli Stati Uniti d’America, terra di forte immigrazione, in cui un calabrese non si comprendeva con un piemontese, un veneto con un campano… eppure erano tutti e semplicemente italiani. Questo la dice lunga. È vero: l’Italia era fatta, gl’italiani no! Aveva ragione D’Azeglio!
In questo contesto, in questa nuova Italia, il sacerdote assume un ruolo ancor più determinante, perché nelle campagne è tra i pochi che sa leggere e scrivere; per questo è al servizio della gente per questioni molto pratiche (la lettura di una missiva, la scrittura di una richiesta da inoltrare all’autorità e via elencando). Insomma, il prete è un punto di riferimento per tutti. Per questo deve essere «esemplare, disinteressato, prudente, zelante, caritatevole, istruito (descrizione di don Vincenzo fatta da monsignor Bonomelli dopo la visita pastorale a Regona)».
La Rerum Novarum
Sono tempi difficili in cui il rapido diffondersi del socialismo tra le classi lavoratrici delle città e delle campagne, da secoli dominio della Chiesa, pone con urgenza la domanda di cosa fare per fermare la scristianizzazione del popolo. L’esigenza è avvertita dai papi, soprattutto da Leone XIII, il successore di Pio IX, il quale nel 1891, con l’enciclica Rerum Novarum affronta il problema dei rapporti sociali.
Rifiutando la concezione materialistica e la lotta di classe, il Papa invita alla collaborazione tra borghesi e lavoratori in nome dell’amore cristiano e della giustizia sociale, indicando la via della possibile ricostruzione moderata e democratica delle associazioni professionali, mettendo sempre al centro la persona, creatura di Dio. Don Vincenzo, da sempre fedele agli insegnamenti del Successore di Pietro, ne segue fedelmente le indicazioni.
Don Vincenzo parroco a Regona
Don Vincenzo inizia il suo ministero sacerdotale come coadiutore ed economo in piccole parrocchie di campagna vicine a Pizzighettone: a Gera d’Adda, a Cà de’ Soresini e a Sesto Cremonese. Quando giunge in diocesi di Cremona come vescovo monsignor Geremia Bonomelli, don Vincenzo è nominato parroco di Regona all’insolita età di trent’anni.
La posizione marginale, l’ambiente semplice e rurale, la povertà diffusa, l’indifferenza religiosa della gente di Regona non scoraggiano il giovane sacerdote, il quale trova nella preghiera la forza per affrontare le difficoltà, la quale si traduce in attenzione, materiale e spirituale, verso il suo gregge.
Don Vincenzo dà ai propri parrocchiani il solido nutrimento dell’eucaristia e della parola di Dio: prega, studia, prende l’iniziativa di aprire la propria casa ai ragazzi per il catechismo, per l’istruzione, perché possano giocare in un luogo sicuro e trovare anche un po’ di cibo che compensi la povertà della propria tavola, tollerando, anche, gli schiamazzi e i danni.
E’ sollecito e premuroso verso i sofferenti, che conforta con la speranza cristiana; si dedica assiduamente all’amministrazione del sacramento della confessione e alla direzione spirituale; invita all’apertura della coscienza, perché la grazia possa meglio agire anche attraverso la sua umanità; tempra la propria personalità con la pazienza dell’agricoltore che getta il seme, ma non pretende di vedere subito il frutto della propria fatica; impara ad accogliere anche gli insuccessi e le contraddizioni: è santo per questo!
Parroco a Vicobellignano
Dopo dieci anni di ministero a Regona (gli anni decisivi che lo formarono come sacerdote attento all’apostolato, alla confessione dei giovani), l’obbedienza lo chiama a Vicobellignano, dove rimarrà per trentaquattro anni. Nella frazione di Casalmaggiore, cittadina ove è abate mitrato il fratello monsignor Giuseppe, è necessario un pastore preparato e zelante, che possa arginare una situazione pastoralmente difficile, con la presenza di una chiesa protestante vivace che fa proseliti: situazione complessa che ha portato a una frattura all’interno della comunità. Lui ci mette poco a risanarla: lo fa con il dialogo, la disponibilità, la carità.
La sua casa, il suo oratorio, la sua scuola sono aperti anche ai protestanti; non li esclude, sono attivi nella sua comunità, sono parte del suo gregge. Anche qui don Vincenzo cerca di rispondere con i fatti alle richieste del vescovo, monsignor Bonomelli. E dove non arriva l’azione, si affida alla preghiera, proprio come a Regona: prega a lungo per il suo popolo, offre le sofferenze, i distacchi, le delusioni, ben fermo nella sua idea di sacerdote.
Afferma: «Il prete non può sacrificare un’ostia estranea, se non è disposto egli stesso a sacrificarsi con tale vittima». «Non badava al peso del sacrificio, come non ci badava la gente del popolo, avvezza – specialmente allora – ad assumersi pesi, sacrifici, rinunce, uno dopo l’altro, tacendo – monsignor Salvaderi». È un pastore che sta con il gregge, cha ha «l’odore delle pecore (Papa Francesco)».
Una figura maschia di parroco
«Ecco una figura maschia di un altro parroco esemplarissimo, santo: dall’abito pulito ma neroverdognolo per il lungo uso; normale di statura, dritto, largo di spalle, robusto, bruno di colorito, folta, quasi riccia ed incolta , la capigliatura, fronte spaziosa, nere e fitte sopracciglia, occhi profondi, labbro inferiore un po’ sporgente e serrato proprio dei volitivi, di poche parole misurate e scandite, di carattere aperto , schietto, semplice, affabilissimo, dignitoso, spesso faceto, dall’aspetto modesto, dall’andatura svelta di chi ha molte cose da fare e fretta di arrivare ad una meta, che va oltre la visibilità del comune sguardo degli uomini»
Così monsignor Della Cioppa lo descrive nel suo libro dal titolo Il servo di Dio Vincenzo Grossi Editrice Biancardi, Lodi 1950): insomma, è il classico parroco di campagna, dotato di un’intelligenza fine e uno sguardo capace di andare oltre il contingente, i cui progetti si concretizzano per il bene della comunità affidata.
I giovani di Vincenzo Grossi
Don Vincenzo ama i giovani, sa che sono il futuro, per questo svolge un’attività di prevenzione, affinché non imbocchino la strada sbagliata. Considera dannoso che frequentino luoghi di lavoro per adulti, dove ci sono pericoli di cadere in errore, di avere comportamenti immorali, di abbandonare, quindi, la pratica cristiana Apre per questo la sua casa ai ragazzi: essa è la prima stanza dell’oratorio. Con loro instaura un rapporto fatto di comprensione e dialogo, alternando proposte formative ed educative ai giochi; non risparmia qualche scappellotto.
Li radunarli, li fa studiare e poi giocare, poi ancora studiare e giocare; insegna loro le materie scolastiche e li educa alla religione cristiana. Organizza un vero e proprio oratorio festivo, allestendo giochi e costruendo un salone teatro dove possano dedicarsi alle esibizioni teatrali. In queste iniziative profonde tutto se stesso, ci mette tutte le energie. È felice perché i risultati sono presto visibili.
Il 20 giugno 1901
Fin dagli anni di Regona, Don Vincenzo ebbe modo di incontrare giovani donne desiderose di donarsi interamente a Dio e di mettersi al Suo servizio. Impressionato dalla miseria morale e materiale della gioventù femminile del suo tempo, forma, quindi, piccole comunità di consacrate, affinché facciano «il maggior bene possibile», e collaborino con i parroci nella cura pastorale.
Due condizioni sono indispensabili per poter essere presenti soprattutto dove l’opera è resa più difficile: la povertà e lo spirito di adattamento. Il 20 giugno 1901, don Vincenzo si appresta a consumare il pranzo, quando, ecco, qualcuno suona il campanello. Si alza, apre la porta: è il postino, ha una lettera per lui. Guarda l’intestazione: arriva dal vescovo. Si domanda: «mica sarà la risposta alla richiesta di approvazione delle mie suore?».
Non ha l’ardire di aprirla subito: si siede, mangia e, poi, va in chiesa a pregare. Prega affinché sia la risposta di monsignor Bonomelli e sia positiva. Ritorna dalla chiesa e va in studio e, finalmente, trova il coraggio di aprire la busta: è la risposta del vescovo il quale dà l’approvazione. Nascono le Figlie dell’Oratorio! L’aspetto non le distacca molto dalle donne del tempo, lo stile è semplice e gioviale, hanno come luogo di preghiera la chiesa parrocchiale e svolgono semplici opere educative per formare le bambine e le ragazze, soprattutto le più bisognose.
Don Vincenzo segue attivamente e con discrezione quella che lui definisce «un’opera di Dio»; rifiuta il titolo di fondatore: il fondatore «è il Signore». Pian piano vede svilupparsi, al di là delle aspettative e dei progetti iniziali, il seme dello Spirito che lui ha custodito e che ha permesso germogliasse.
La carità dà senso all’operare delle suore: non una carità pietistica, ma strumento di promozione della persona umana per l’educazione delle nuove generazioni (ieri come oggi), perché i giovani non devono restare nell’ignoranza, perché si deve rompere la spirale del povero che genera un figlio povero e ignorante, che a sua volta ne genera uno povero e ignorante. È qui che si evince la marcia in più dell’opera di San Vincenzo: quel considerare importante ciascuno. E quel ciascuno deve imparare, essere formato, ma prima ancora educato, per l’elevazione della propria dignità.
Le “laboriose formichine”
Suor Vincenzina, Gabriella, Daniela, Gianpiera, Teresina, Anna, Cecilia, Rosanna, Denise (solo per citarne alcune): sono loro le suore che assistono i bambini dell’Istituto scolastico Antonia Tondini di Codogno. Sono loro le Figlie dell’Oratorio, le seguaci di San Vincenzo Grossi, le formichine laboriose che vivono il carisma del fondatore basato sulla gioia di essere al servizio di Dio, mutuato da San Filippo Neri (il grande santo del Cinquecento che ebbe l’intuizione di dare un pezzo di pane ai giovani abbandonati della Roma pontificia che vivevano nelle catacombe, spiegando loro che quel tozzo di pane, quella carezza erano dati in nome di Gesù).
Don Vincenzo fa sua la filosofia del Neri, la propone come modello educativo per le giovani generazioni, vuole che le sue suore siano gioiose, semplici, umili, animate dall’amore di Dio e dal pieno abbandono nella sua divina volontà. L’originalità di don Grossi sta qui: le Figlie dell’Oratorio nascono per operare in parrocchia, non in un convento o in monastero, sono suore che vivono a contatto con il gregge, ne sono parte, sono vestite come delle laiche, vivono anche in famiglia, non portano il velo. Non è solo una questione di stile: è sostanza, è un mettersi alla pari. È una forma pedagogica innovativa!
L’azione educativa è rivolta principalmente verso le giovani (ma anche i giovani), perché comprende che il ruolo della donna è fondamentale per l’epoca e che lo sarà ancor di più per il futuro. Oggi, l’Istituto è diffuso in Italia: a Lodi (dove si trova la Casa generalizia), Milano, Roma, Codogno e Maleo (in provincia di Lodi), Pizzighettone (Cremona), Viadana (Mantova) Gottolengo (Brescia), Pavullo (Modena), Palazzo San Gervasio e Sant’Arcangelo (Potenza), Tursi (Matera), Prato, Brolo (Messina). E in America Latina: Equador e Argentina. Il seme piantato da don Vincenzo è, oggi, un robusto albero che dà frutti.
Vincenzo Grossi: educatore della gioia
San Vincenzo Grossi è un efficace educatore della gioventù. I segreti del suo ascendente sono la bontà, la pazienza, la disponibilità verso il prossimo, la comprensione, la semplicità del tratto e del comportamento, la fiducia nel prossimo, soprattutto verso i più giovani: loro sono il futuro, su di loro bisogna investire per provare a costruire un mondo migliore, per l’emancipazione della gente di campagna. Bisogna piantare il seme della gioia, della felicità.
Come farlo? Con la gioia di vivere, esteriorizzata da lui stesso e vera missione delle sue suorine: per vivere semplicemente il quotidiano, essere felici di ciò che il buon Dio ha donato, cercando di darsi da fare per migliorare la situazione contingente, senza compromessi con il mondo, rimanendo fedeli ai valori della religione, eredità più preziosa lasciata dagli antenati.
Perché «solamente la gioia ci può dare una vantaggiosa libertà di spirito; libertà di spirito che è un istinto, un genio, una grazia indescrivibile ed un prodotto della gioia nella vita ascetica; la gioia è indispensabile alla pratica della mortificazione come le mortificazioni sono indispensabili alla gioia (San Vincenzo Grossi)».
La mortificazione è il terreno fertile nel quale coltivare il seme della gioia, per la crescita dell’albero della felicità. La sua mortificazione è vivere povero materialmente e in spirito, cercando di essere sempre umile, spegnendo sul nascere, attraverso il temperamento, istinti di vanagloria. Madre Ledovina Scaglioni così lo descrive: «Celava l’atto più eroico di virtù sotto l’apparenza di una facezia».
La spiritualità semplice di San Vincenzo
San Vincenzo Grossi non lo ricordiamo per le sue opere teologiche o per grandi rivelazioni e miracoli in vita. Niente di tutto questo. Lo ricordiamo per la sua santità umile, fatta di tante ore di preghiera; lo ricordiamo per tutte le ore delle giornate, di tutta la sua vita, passate a lavorare, sudare, faticare per Dio, per la sua gloria, per farlo conoscere ed amare.
La sua è una santità fatta non di rapimenti o di rivelazioni mistiche, ma di grande impegno sociale; una santità imitabile da tutti, consistente nel fare bene e per amore di Dio quelli che sono i compiti assegnati nel quotidiano; una santità che matura nello stare col Papa perché la Chiesa è colonna e fondamento della verità: chi ascolta la Chiesa ascolta Gesù Cristo (…) amare la Chiesa, pregare per la Chiesa, per il Papa, per i Vescovi e sacerdoti, per tutti i grandi interessi cattolici. Sono queste le linee portanti della spiritualità di San Vincenzo, trasmesse alle sue suore, con le parole: «Amate la Chiesa con tutte le vostre forze, col farvi sante».
Un prete contento
Questa è la santità semplice, per questo affascinante, di Vincenzo Grossi, il parroco santo della bassa cremonese, che fa della fedeltà assoluta al Papa (in questo in contrapposizione con il suo vescovo, il quale, più volte, sarà richiamato da Roma, invitato a correggersi, per talune posizioni assunte) le fondamenta dell’essere sacerdote. Ed esorta le suore a fare altrettanto: «Guardate a Roma, pensate, parlate, giudicate come Roma, là è la bussola, il timone, il pilota».
La sua è una santità fatta di rettitudine, austerità di vita, che fermenta nella fanciullezza, che sboccia nei primi anni di sacerdozio e che produce frutti nella maturità, quando l’armonia tra i valori cristiani e le la vita di tutti i giorni ne fanno un santo del quotidiano, un santo che trova gioia nel servire anche quando farlo porta sofferenze.
La testimonianza di Vincenzo Grossi («un prete contento») risalta in tutta la sua importanza ed esemplarità, similmente ad altre figure dello stesso secolo (don Bosco, i papi Pio IX e Leone XIII, don Antonio Rosmini, Madre Francesca Cabrini, monsignor Scalabrini per citarne solo alcune), ed è inserita nella storia sociale dell’Ottocento.
“La vita è aperta: bisogna andare…”
Al momento della morte, avvenuta il 7 novembre 1917, esprime, attraverso le ultime parole pronunciate, l’esortazione alle sue figlie «La via è aperta: bisogna andare…», la quale diventa il motto dell’Istituto, che, nel variare delle situazioni e dei tempi, vive il carisma del fondatore nelle realtà pastorali della Chiesa locale, dedicandosi, prioritariamente, all’educazione cristiana della gioventù femminile e offrendo una collaborazione attiva ai sacerdoti nelle parrocchie, soprattutto nella cura dell’oratorio, campo specifico dell’attività pedagogica.
Vincenzo Grossi è stato beatificato il 1 novembre 1975 da Paolo VI; il 18 ottobre 2015, Papa Francesco l’ha canonizzato. Nell’omelia l’ha definito: «parroco zelante, sempre attento ai bisogni della sua gente, specialmente alle fragilità dei giovani; per tutti spezzò con ardore il pane della Parola e divenne buon samaritano per i più bisognosi».
La memoria liturgica è il 7 novembre.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Rita Bonfrate, Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato. La paternità spirituale di don Vincenzo Grossi, Edizioni San Paolo srl, 2010.
- Luciano Quartieri, Un prete contento. Beato Vincenzo Grossi, Istituto Figlie dell’Oratorio, Lodi 1994.
- Massimiliano Taroni, Beato Vincenzo Grossi. Parroco e fondatore delle Figlie dell’Oratorio. Editore Velar, 2013.