Alle ore 16 del 13 giugno 1946 re Umberto II di Savoia parte per l’esilio lasciando l’Italia per sempre: è la fine della monarchia sabauda. Prima di salire sull’aereo che lo conduce in Portogallo, il “re di maggio” prepara un proclama che l’ANSA trasmette al Paese quella sera stessa, alle 22.30.
L’esito del Referendum Costituzionale del 2 giugno
L’attesa per i risultati del Referendum Costituzionale del 2 giugno 1946 diventa spasmodica sin da subito. I primi risultati registrano un vantaggio della Monarchia rispetto alla Repubblica. Tuttavia quando cominciano ad affluire i risultati del Nord le cose si ribaltano: alla fine, per una differenza di 2 milioni di voti, la monarchia viene liquidata.
I monarchici però non ci stanno e fanno ricorso alla Corte di Cassazione denunciando brogli. L’irregolarità segnalata consiste nel non aver preso in considerazione il numero delle schede nulle nel calcolo della maggioranza degli elettori votanti. Secondo l’interpretazione sostenuta dai monarchici, infatti, tale espressione deve intendersi come “la maggioranza dei consensi nella somma dei voti a monarchia, repubblica, schede bianche e schede nulle“. Il 10 giugno la Corte di Cassazione annuncia pubblicamente che avrebbe fornito i risultati definitivi del Referendum non prima del 18.
Umberto II di Savoia lascia l’Italia verso l’esilio
Nei due giorni che seguono si verificano dei tumulti in diverse città italiane che vedono protagonisti soprattutto gruppi di monarchici e comunisti. La sera del 12 giugno Umberto II apprende telefonicamente che il governo ha deciso di affidare al democristiano Alcide De Gasperi i poteri di Capo dello Stato; a quel punto il sovrano, con grande senso di responsabilità istituzionale, prende la decisione di abbandonare il paese per evitare altri disordini visto il clima da guerra civile che si respira in quelle ore.
Ai suoi collaboratori che lo invitano ad aspettare e a prendere in considerazione altre possibilità il giovane sovrano risponde in modo risoluto: “Casa Savoia ha fatto l’Unità d’Italia e non sarò certo io a dividerla“. All’alba del 13 il ministro della Real Casa prepara il piano d’azione per il re: una partenza pubblica con tutti gli onori dovuti al suo rango.
Accettata questa soluzione, Umberto II riceve nel primo pomeriggio al Quirinale amici, politici, funzionari per il commiato; quindi, con una rapida cerimonia, si congeda dai fedeli corazzieri e granatieri sulle emozionanti note della “Marcia Reale” che risuonano per l’ultima volta nel cortile e sale nell’auto che lo conduce all’aeroporto di Ciampino.
Qui, dopo aver salutato anche i suoi più stretti collaboratori, il re Umberto II sale sull’aereo che lo conduce a Cascais, in Portogallo, dove si trovano già da una settimana la moglie Maria Josè e i quattro figli Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice; solo pochi giorni prima l’esponente di casa Savoia aveva affermato:
“La Repubblica si può reggere col 51%, la Monarchia no. La Monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla.”
Lo stesso Umberto II ricorderà successivamente questi momenti così intensi: “Avevo addosso un senso di smarrimento quasi infantile. Ero incapace di pensare, avevo la sensazione di essere immerso in un clima irreale. Poi mi resi conto che l’aereo saliva. Vidi Roma dall’alto, in un velo grigio di pioggia: di colpo riacquistai il senso della realtà. E in quel momento, lo confesso, non fui capace né mi curai di trattenere le lacrime“.
In serata viene diramato il proclama di Umberto II di cui esistono due testi, uno di sereno commiato e l’altro con un tono un pò polemico, con il quale il reale di casa Savoia denuncia la presunta illegalità commessa dal governo nel trasferire subito le funzioni di Capo provvisorio dello Stato al Presidente del consiglio De Gasperi.
La replica ufficiale del governo agli attacchi di Umberto II sarà secca:
“E’ un documento penoso, impostato su basi false e su argomentazioni artificiose. Esso afferma il falso quando definisce come semplice comunicazione di dati la proclamazione dei risultati del Referendum fatta dalla Cassazione il 20 giugno”.
Nel pomeriggio del giorno seguente il Capo provvisorio dello Stato parla agli italiani attraverso la radio, cercando di mettere fine alle polemiche e alle recriminazioni e spendendo parole di comprensione per Umberto II:
Mi ripugna di rinnovare la polemica, anche perché il re, in molte circostanze del passato, l’ho trovato sempre molto conciliativo. So ben considerare la tragedia di quest’uomo che, erede di una disfatta e di funeste e fatali compromissioni con la dittatura, si è sforzato negli ultimi mesi di risalire la corrente, a furia di pazienza e di buon volere. Quest’ultima vicenda di una millenaria dinastia ci appare come una parte della catastrofe nazionale : è un’espiazione, ma tutti dobbiamo espiare, anche coloro che non hanno avuto o ereditato le colpe della dinastia.
Il messaggio di Alcide De Gasperi si conclude con un’esortazione al popolo:
Uniamoci, italiani, nel pensiero della Patria e dimostriamo la saldezza della nostra unità in confronto di chi insidia le nostre più care frontiere, speculando sui nostri disordini interni, e confermiamo, in vista delle trattative di pace, che il popolo italiano è risoluto a difendere il proprio sacrosanto diritto al suo avvenire.
Il 28 giugno 1946 l’Assemblea Costituente presieduta da Giuseppe Saragat elegge Enrico De Nicola capo provvisorio della Repubblica italiana.
L’esilio di Umberto II di Savoia, la partenza verso Cascais
Il proclama di Umberto II al popolo italiano
Italiani! Nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum.
Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.
Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.
Italiani! Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori dai confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia!
Umberto
Roma, 13 giugno 1946