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Uluç Alì Pascià: il contadino calabrese che diventò ammiraglio ottomano
Ricordava com’era vestito quando era stato portato via, anni prima: aveva solo i miseri panni che indossava quel giorno. Ora, invece, vestiva riccamente, era un uomo agiato e portava splendidi doni. Tutte le donne del villaggio avrebbero gioito della fortuna del figlio. Lei no. Lei, contadina calabrese, aveva sì gioito alla scoperta che era ancora vivo, ma era un altro il regalo che si aspettava: il dono del suo ritorno al cristianesimo.
Si appellò a lui con tutte le sue forze, piangendo e ricordandogli l’antica devozione. Il figlio le spiegò che non poteva più tornare indietro: ormai era un fedele musulmano. La madre allora lo ringraziò per i doni che aveva portato ma lo pregò di riprenderseli. Lei era già ricca della sua fede e non aveva bisogno di altre ricchezze. Da quelle parole, il figlio capì di averla persa per sempre. Per quel condottiero quasi imbattibile, per quell’uomo temuto e rispettato, il ripudio della madre fu forse la sconfitta più cocente.

Giovanni Dionigi Galeni: dalla Croce alla Mezzaluna
Nato a Le Castella, nei pressi di Isola Capo Rizzuto nel 1519, figlio di umili contadini, Giovanni Dionigi Galeni viene inizialmente destinato ad una carriera ecclesiastica che non intraprenderà mai: nel 1536, infatti, viene catturato dal corsaro albanese Khayr al-Din detto “il Barbarossa” durante una razzia sulle coste calabresi.
Al-Din era uno dei numerosi rinnegati al servizio del Sultano che per il suo coraggio e la sua bravura noti in tutto il Mediterraneo, divenne Kapudan (ammiraglio) della flotta ottomana. In tutto l’impero, dalla Turchia al nord Africa, erano numerosi i cristiani rapiti e ridotti in schiavitù, costretti a vivere in condizioni spaventose ed esposti a continui rischi.
I turchi non insistevano molto per indurli alla conversione all’islam, poiché i retagliati – così chiamati dopo la circoncisione – diventavano cittadini con gli stessi diritti dei sudditi musulmani. Molti erano coloro che abbracciavano la fede islamica per liberarsi dalla loro sfortunata condizione, con l’imposizione di un nome islamico che rende oggi difficile l’identificazione e la valutazione della reale estensione del fenomeno.
Tuttavia, sappiamo che questa sorte tocca anche al Galeni, costretto, in quanto cristiano, a servire al remo delle galere turche per circa quattordici anni fino a quando entra nelle grazie del ricco e potente Ja’far Pascià e passa alla casa di costui come schiavo domestico. Riesce a farsi benvolere anche dalla moglie del padrone, la quale ha in casa altri due schiavi cristiani, un siciliano e un napoletano. La morte di quest’ultimo in seguito a una lite cambia ancora una volta la vita di Giovan Dionigi: per i non musulmani c’è la condanna a morte, a meno che… non pronuncino la shahada e si convertano all’islam
È a questo punto che Galeni diventa Uluç Alì: i padroni gli danno in sposa la figlia Bracaduna e lui, turbante in testa, comincia a guadagnarsi il pane con la guerra da corsa contro gli ex compaesani, diventando in pochi anni uno degli uomini più temuti del Mediterraneo.
La carriera di Alì Pascià sotto il Sultano
La sua carriera si caratterizza per il coraggio e l’abilità di marinaio che lo portano a compiere, con successo, molteplici incursioni sulle coste italiane, a catturare diverse galere cristiane oltre che a partecipare a battaglie e imprese belliche. Fra queste, c’è sicuramente l’attacco nel canale di Malta del 15 luglio 1570 che, dopo un ostinato combattimento e la morte di molti cavalieri, Uluç Alì vince, conducendo in trionfo il Sultano. E poi ancora, l’impresa delle Gerbe, l’invasione dell’Africa, l’assedio di Curzola sulle coste dalmate, la guerra di corsa in Sicilia e a Napoli, fino allo stretto di Gibilterra e la conquista di Tunisi.
Ma certamente la sua impresa più rilevante è quella durante la battaglia di Lepanto del 1571: quel 7 ottobre, la flotta ottomana esce dalla baia di Lepanto con galee, galeotte e altre imbarcazioni più piccole per un totale di 300 navi. Uluç Alì è al comando dell’ala sinistra forte di 67 galee e di 27 galeotte, i cui equipaggi sono composti quasi esclusivamente da corsari.

Si muove per primo per mettersi di fronte alle navi di Giovanni Andrea Doria e quando vede lo schieramento avversario, avvia una falsa ritirata per attirare la flotta nemica dove il golfo si restringe in modo da sconvolgere lo schieramento di battaglia. Finge di voler aggirare le navi del Doria il quale, inferiore numericamente, si sposta incautamente verso la costa aprendo in tal modo un varco tra le sue linee ed il centro.
Uluç si avvia a tutta velocità verso l’apertura larga un miglio, subito seguito da una formazione di galee corsare. Prima che le navi della lega possano chiudere il varco, i turchi riescono ad attraversarlo e ad assalire le galee ritardatarie. In tal modo, Uluç riesce a sorprendere alle spalle la flotta di don Giovanni d’Austria e a conquistare la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta, impadronendosi del vessillo dei cavalieri. Il comandante della nave, catturato e imprigionato, viene sgozzato sul ponte dell’imbarcazione insieme a tutti i cavalieri e gli ufficiali.
Con circa trenta galere turche e dodici navi nemiche conquistate, la divisione di Uluç vira alle spalle degli alleati e si ritira a Costantinopoli, lasciandosi dietro una scia di sangue, con più di mille morti, anche se l’esito della battaglia è ormai deciso in favore della flotta cristiana. Ad accoglierlo nel porto della capitale trova una folla festante e il Sultano Selim riconoscente per avere salvato parte della flotta.
La sua squadra navale, infatti, rimane l’unica forza turca ancora in grado di battere il mare. Viene allora nominato ammiraglio della flotta, riceve il comando delle isole dell’Arcipelago e l’appellativo di “Alì la sciabola”, superando perfino quel temuto “Barbarossa” che lo aveva rapito anni prima.
Ormai nella corte e nell’harem del Sultano, Uluç è così benvoluto da vedersi affidare anche il compito di ricostruire la flotta dopo la disastrosa sconfitta di Lepanto. È proprio in questi anni, infatti, che sotto i suoi ordini, viene rinnovato l’arsenale di Costantinopoli e avviata una riforma della flotta equipaggiata all’occidentale: tutti i materiali più pregiati, dagli alberi ai remi alle sartie vengono trasportati nella capitale dal resto dell’impero per essere ulteriormente armati con artiglierie, munizioni ed equipaggi dotati di archibugi.
Dopo pochi mesi, 250 legni sono pronti a salpare da Costantinopoli sotto il suo comando: con la flotta messa a nuovo, Uluç riesce a riconquistare Tunisi, invasa nel 1572 dagli spagnoli e a diventare bey di Algeri, di Tripoli e della stessa Tunisi.
A ben vedere, l’islam permette a Uluç una carriera che nella cristianità difficilmente avrebbe potuto fare; una carriera di pirata assassino, sì, ma pur sempre una carriera che trae beneficio dal contesto internazionale di quegli anni: quando, infatti, la pace tra Filippo II di Spagna ed Enrico II di Francia mette fine “all’empia alleanza” stipulata da Solimano il Magnifico e Francesco I (in guerra contro Carlo V)[1], il defilarsi dei turchi nel Mediterraneo dà il sostanziale via libera ai barbareschi di continuare ad assalire convogli e città costiere.

Pentimento in punto di morte?
Negli anni Ottanta del secolo, Uluç Alì è ormai anziano e compare sempre più di rado nel Mediterraneo. Pone così la sua ultima residenza a Costantinopoli, dove fa costruire un grandioso villaggio chiamato Calabria Nuova. Con gli schiavi cristiani si dimostra magnanimo e tollerante, consentendogli di mantenere i propri costumi, la lingua e di svolgere le funzioni religiose in latino.
Alla sua morte, nel 1587, disporrà che essi possano continuare ad abitare gratuitamente nel villaggio e che tale privilegio sia tramandato di padre in figlio. Inviati e ambasciatori veneziani ne riportano, con invidia, la brillante carriera: da schiavo semianalfabeta a grande ammiraglio, ricco e potente, capace di vivere la sua fortuna con grande generosità e appagamento.
Negli ultimi anni della sua vita Uluç concentra la sua attenzione anche sulla costruzione di moschee: a Istanbul, nel quartiere di Galata, ancora oggi sopravvive quella da lui voluta, finanziata e commissionata al più famoso architetto dell’impero ottomano, Mimar Sinan. Si tratta della moschea Uluç Alì Pasa Camii, comprendente la sua tomba, la scuola coranica e l’hammam (bagno).
Alì Pascià e Le Castella
Diversamente, nel mondo cristiano Uluç è stato quasi del tutto dimenticato: a Le Castella, solo un busto in bronzo ricorda l’ennesimo meridionale che ha avuto successo lontano dalla propria terra. Rimane avvolta nel mistero la possibilità di una sua riconversione al cristianesimo in punto di morte forse sollecitato dalla maledizione espressa dalla madre in quel misterioso e segretissimo incontro avvenuto sulle coste calabresi anni dopo il rapimento.

Nel 1562, infatti, il Sultano lo nomina capo della guardia di Alessandria e comandante della nave ammiraglia, con l’ordine di scortare ad Algeri il figlio del “Barbarossa” Hassan Agà. Durante la navigazione nelle acque della Calabria, Uluç getta l’ancora di fronte al villaggio che gli aveva dato i natali e promette salva la vita a quei pescatori che gli permettano di riabbracciare la madre. Mentre si trova in prigione ad Algeri, Miguel de Cervantes viene a conoscenza di questo episodio e scrive:
“Fu in una di quelle notti, dopo aver saccheggiato le coste vicine a dove era nato, che volle far visita a sua madre: le presentò grandi tesori e superbi arredi, dicendole che non conveniva quello stato sì misero alla madre di un Pascià de’ turchi, di un genero di Selim, e di un re di tre corone. Ma la donna, ormai vecchia, disse che si considerava, nella sua povertà, più ricca di lui per la fede di Cristo. “Va via, maledetto per sempre da Dio, e da me!”. Pare che così disse, ma a questa storia credono solo gli spagnoli. Tranne me. Ci credettero pure i comandanti cristiani, perché si consolavano al pensiero di quel dolore: gli stessi comandanti che, a sentir pronunciare il suo nome, tuttora gli cedono il campo sul mare, e si ritirano impauriti nei porti”.
Nota:
[1] L’alleanza anti-imperiale aveva visto non poche volte navi francesi partecipare agli attacchi ottomani contro le coste cristiane. Il patto tra Francia e Sublime Porta era scattato quando, eletto Carlo V imperatore del Sacro Romano Impero, la Francia si era trovata di fatto circondata dagli Asburgo. E fu guerra senza quartiere. Francesco I, fatto prigioniero a Pavia, chiese aiuto al Sultano affinché attaccasse da Oriente l’impero. Solimano non se la sentì, però i barbareschi accettarono l’offerta di usare Tolone come base di rifornimento. E al saccheggio islamico di Nizza prese parte una squadra francese. Ovviamente, a Lepanto nel 1571 i francesi non parteciparono, così come i protestanti. Chi vi si arruolò in nome della religione lo fece su base volontaria.
I libri consigliati da Fatti per la Storia per approfondire la figura di Alì Pascià!
- Alessandro Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Bari, Editori Laterza, 2010.
- Bono S., Corsari nel Mediterraneo: cristiani e musulmani fra guerre, schiavitù e commercio, Milano, Mondadori, 1993.
- Ciconte E., Il grande ammiraglio. Storia e leggende del calabrese Occhialì, cristiano e rinnegato che divenne re, Rubbettino, 2018.