CONTENUTO
Tumulti popolari e Stati d’assedio nell’Italia liberale (1864-1922) un limite ed una potenzialità per la difesa della democrazia
In premessa, va ricordato che nei primi decenni dall’Unità d’Italia – 1861/1922 – una delle norme più frequenti dello Statuto Albertino, esteso dal Regno di Piemonte al nuovo Regno di Italia, concerne la proclamazione e l’attuazione di un regime particolarissimo per uno Stato liberale di metà ‘800 europeo, il cd. Stato d’assedio. Se detta forma di Stato moderno ha per carattere essenziale il passaggio da suddito a cittadino per effetto del conseguimento giuridico di diritti e doveri garantiti dalla Pubblica Amministrazione e dal Potere Giudiziario di fronte al Re, ridotto a supremo arbitro e non più a sovrano assoluto, rimanendo soltanto tale in nome del popolo a rappresentare l’unità della Nazione; rimane però al Re la prerogativa di proclamare lo stato eccezionale di sospensione delle leggi poste a garanzia della Costituzione dello Stato stesso, qualora intervengano peculiari pericoli per l’ordine pubblico.
Potestà regia che lo Statuto Albertino dal 1848 gli conferisce anche nell’includere il passaggio di tutti i poteri civili alla Autorità Militare. Cioè per calamità naturali – per esempio, il terremoto a Messina nel 1908 – od epidemie altamente pestilenziali – come fu per esempio, quella di colera del 1884 a Napoli – e sopratutto guerre con altri Stati ed anche guerre civili, ritenute probabili dopo le diverse guerre di indipendenza nella prima metà dell’800, ma anche a seguito di moti e rivolte popolari legate a resistenze di classi subalterne favorevoli ai vecchi Stati preunitari. Ora, uno Stato liberale come può sospendere le libertà amministrative, politiche e giudiziarie visto che solo una legge parlamentare consente al Governo – di cui il Re rimane formalmente al vertice – di subentrare nella soppressione di tali diritti concessi al popolo?
Non solo necessiterebbe una legge dietro fiducia parlamentare nel caso della sospensione delle garanzie processuali; non solo occorrerebbe una legge analoga per l’estensione dei poteri di polizia nella fase di scioglimento di partiti, gruppi e riunioni politiche; ma anche lo sarebbe in caso di attività preparatorie al riguardo. Cosa che il Codice penale militare prevede esplicitamente, visto che gli artt. 246 e 247 parlano di truppe nemiche invasive di territorio nazionale. Questo è il primo grosso tema costituzionale che il governo di Torino dovette affrontare e che i giuristi liberali risolvono in modo brillante per salvare da rischi notevoli ed imprevedibili la faticosa unità nazionale appena ottenuta.
A ben vedere, la destra storica – ed il suo giurista di punta Silvio Spaventa – si pone il tema dei comportamenti sociali devianti dell’epoca, dove il liberalismo accentua la domanda di democrazia parlamentare, che va limitata dalla necessità di salvaguardare l’ordine pubblico. All’interno, il nuovo Stato da una parte teme la crescita dei democratici mazziniani che premono per completare l’unità, con Roma e Venezia gli obiettivi territoriali della Sinistra parlamentare, con Crispi in testa. Ma dall’estero incombe la Francia imperialista di Napoleone terzo e l’Austria di Francesco Giuseppe, che prima o poi avrebbero riaperto la partita con i capi del nuovo Governo, vale a dire Ricasoli, Rattazzi, Minghetti, Lanza, La Marmora, Sella e Visconti Venosta (1861-1876).
Spaventa introduce un limite implicito allo Statuto, un interesse nazionale di sicurezza collettiva a favore della classe industriale ed agraria che intende ricostituire una borghesia imprenditrice al passo con le Nazioni occidentali e quindi una nuova Nazione sul modello sociale francese ed inglese. Di qui, un ritorno all’ordine, con una magistratura giudicante e requirente che rispetti la giurisdizione, le guarentigie parlamentari e civili, pur nella superiorità formale del Re. Questi ha in mano la giustizia requirente e l’esercito, ma anche l’Arma dei carabinieri, per mantenere lo Stato liberale al riparo da variazioni dell’assetto sociale. Spaventa – e poi a fine secolo Gaetano Mosca costituiscono allora una Costituzione flessibile, priva di garanzie assolute, soggetta a leggi eccezionali che consentano la difesa dall’ordine pubblico così stabilizzato, vale dire a tutela di una classe imprenditrice e proprietaria, di censo elevato e di nobiltà terriera laica, difesa da garanzie processuali di parte, soggetta a limitazioni processuali in caso di minaccia popolare alla proprietà privata ed al diritto di impresa.
Insomma, l’adozione dello Stato d’assedio, che conceda alle forze armate ed alla polizia militare i pieni poteri in caso di crisi sociale. Un soluzione che da ipotesi eccezionale, diventa un leit motiv per i primi 60 anni dall’unità, dai moti di Torino del 1864 fino alla settimana rossa del 1914. Chiunque verifichi la dottrina pubblicistica italiana di fine secolo sull’istituto dello Stato d’assedio – un ibrido regime di norme particolari derivate ed instaurate di volta in volta l’ordinamento militare – rileva la ripetizione della seguente sequenza: eventi eccezionali, spesso moti di piazza – dichiarazione dello stato d’assedio – azioni militari di repressione e pari limitazioni di garanzie parlamentari e processuali e ritorno all’ordine borghese.
Poi però di fronte ad una probabile fase di stallo della crescita economica e sociale ed il conseguente aumento dello scontro per la ripresa dal movimento critico popolare ed insurrezionale, scatterà la riorganizzazione di gruppi politici e sindacali e quindi nuovi moti di piazza, con la ripresa della predetta sequenza. Infine con l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra si avrà bisogno ancora dello Stato d’assedio, che diverrà ora però una medicina non più assunta per salvare lo Stato liberale; e non più lo strumento che reprime la partecipazione di nuove classi alla guida dello Stato stesso. Un mezzo politico scappato di mano alle classi dei Notabili, che nel 1922 si vedrà sostituita da una una classe dirigente più autoritaria destinata a trasformare la realtà del Paese.
I moti di Torino (21-22/91864) ed i due tentativi democratici di annessione dello Stato Pontificio e di Roma (1862 e 1867): dall’Aspromonte a Mentana. Dal moto di piazza allo scontro armato, fra istanze democratiche ed interessi conservatori
Ragioni di spazio ci inducono ad essere sobri nell’esaminare il punto di partenza delle situazioni storiche che hanno generato l’adozione dello Stato d’assedio nel nuovo Stato (18.2-17.3.1861), dove le predette date simboleggiano la proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia e la pedissequa estensione a tutto il Regno dello Statuto di Carlo Alberto Re di Piemonte, emanato il 4. 3.1848. Punto di partenza e prima frizione dello Stato liberale, è la nota Questione Romana, che non solo dilania la classe liberal-democratica che ha voluto il processo di unificazione, ma che ha un forte effetto internazionale, visto che la domanda di quella classe per Roma capitale del Regno cozza con l’interesse imperialista di Napoleone III, che da fervido alleato del Piemonte nella seconda guerra di indipendenza fra il 1859 ed il 1860; ora è molto più tiepido con l’Italia degli eredi dell’amico Cavour, ormai prossimo a morire, lasciando il Paese a liberali più vicini alle correnti mazziniane ed anticlericali, fortemente avversati dal clero francese, elettorato privilegiato nelle campagne maggioritario nel consenso all’Imperatore, classe spesso in concorrenza con quella italiana sul mercato del vino, dei profumi e del vestiario.
Sia come sia, Torino (21-22.9.1864), l’Aspromonte (1862, 29 agosto) e Mentana (3.11.1867), rappresentano le tappe dello scontro interno ed internazionale che silenziosamente vede il giovane Regno d’Italia cedere diplomaticamente all’Impero Francese. All’interno è adottato per decreto reale, promosso dal Governo, lo Stato d’assedio in deroga allo Statuto Albertino, con l’esercito in piazza a Torino e nelle province del Nuovo Regno e che funge da valvola di sicurezza per la stabilità del Govern A Torino scoppiano violenti tumulti il 21 ed il 22 settembre del 1864, perché il governo Minghetti avalla il Patto con la Francia di Napoleone III, i cui termini prevedono l’abbandono di Roma da parte della Francia e la parallela investitura di Firenze nuova capitale del Regno, dietro la solenne promessa di escludere ogni pretesa italiana di Roma come Capitale.
Costantino Nigra e Édouard Drouyn de Lhuys, Ministri degli Esteri dei due Stati, concordano questa soluzione che fa contenti i francesi difensori di Pio IX ed i deputati della Destra storica che invocano una città più centrale e meno decentrata della lontana Torino. In particolare, in un contesto di antipiemontesismo causato dallo scontro ad Aspromonte in Calabria fra Garibaldini ed esercito regolare inviato dal Governo Rattazzi al fine di evitare che la città Eterna venga occupata da bande democratiche, si ripete una crisi internazionale analoga a quella della spedizione dei Mille, quando la copertura francese ed inglese impedisce la discesa in campo dell’Austria-Ungheria. In particolare, il nuovo governo unitario proclama in tutta la Sicilia lo Stato d’assedio per reprimere la spedizione garibaldina su Roma ed il 29 di agosto del 1862 si ha il famoso scontro fratricida di Aspromonte, dove i bersaglieri del generale Pallavicini fanno fuoco su Garibaldi e su i suoi volontari.
Si è così bloccata una seconda spedizione dei Mille ed è così evitata una guerra pericolosissima con la Francia e l’Austria; ma il risentimento popolare montò furiosamente quando la clausola di trasferimento a Firenze dalla capitale Torino è resa nota dal Governo, al fine di smorzare ulteriormente le polemiche sollevate dai deputati democratici della Sinistra. Di qui le manifestazioni pacifiche del 17 settembre del 1864 a Torino, dove la notizia della nuova capitale a Firenze si somma alla perdita di Roma patteggiata con Napoleone III. In cinque atti si consuma la prima tragedia della giovanissima Nazione.
Torino 17.9.1864, primo atto: la citata Convenzione di Settembre, cioè uno scambio di impegni che come si è visto con la Francia imperialista che getta la maschera di sorella latina ed ottiene un sorte di Protettorato che limita la naturale capitale del Regno e che raggiunge perfino l’obiettivo di trasferire la capitale risorgimentale in una Firenze non molto convinta al riguardo. Secondo atto: il 20 settembre e nei giorni seguenti, una pacifica manifestazione di piazza convocata solo per protestare pacificamente di fronte a tale governativa azione di obbedienza alla Francia, peraltro creditrice di un altissimo prestito economico per le spese militari della guerra del 1859, circostanza che non si è esposta in Parlamento. Situazione che si trasforma però in vari episodi di violenza militare che provoca 55 morti e 133 feriti fra piccoli borghesi ed operai immigrati – come ci dicono le cronache – causata da una inaspettata estensione Decreto Reale di indizione dello Stato d’assedio già emesso per reprimere il Brigantaggio.
Terzo atto: il Comune di Torino, intraprende un indagine amministrativa condotta dall’onorevole Casimiro Ara, dalle cui notazioni traiamo quanto riferiamo e che raccoglie ben 63 testimonianze a carico della polizia e degli allievi carabinieri che hanno sparato sulla gente inerme, o per inettitudine o per ferocia. Quarto atto: fra il 5 gennaio ed il 23 gennaio 1865, inchiesta parlamentare susseguente promossa dalla sinistra storica, che si conclude però con un nulla di fatto, poiché l’accertata responsabilità dal governo La Marmora cade per l’accoglimento della classica scusa dall’interesse nazionale giustificativo del tragico evento. Bettino Ricasoli, capo del gruppo di maggioranza della Destra, riesce ad impedire la condanna di tutti i Parlamentari e Militari coinvolti. Quinto atto: il tradizionale ballo in maschera a Palazzo reale del 30 gennaio è disertato dalla borghesia e dalla nobiltà cittadina. Il divorzio fra le classi risorgimentali diventa così operativo quando il Re il 7 febbraio abbandona Torino per Firenze. Ma la rottura col popolo si era già consumata nella questione sociale sottesa al fenomeno meridionale del Brigantaggio, come ora vedremo.
Il problema del Brigantaggio nelle aree meridionali (1863-1866). Lo Stato d’assedio come unica soluzione dei Notabili. Come fu ritardata un guerra civile inevitabile
La vicenda del trasferimento da Torino a Firenze svela l’adozione disinvolta della decretazione sullo Stato d’assedio, legittimata perché in armonia implicita con lo Statuto, stante la sua natura flessibile. Infatti, l’odierna dottrina e giurisprudenza costituzionale nota che proprio l’ideologia liberale non pone nella scala gerarchica delle fonti del diritto la Costituzione dei diritti civili e politici al di sopra della legge di fonte parlamentare. Sarà la dottrina democratica di Hans Kelsen (1881-1973) ad introdurre fin dalla costituzione austriaca del 1919 la nozione di Costituzione rigida, quella che prevede una peculiare procedura aggravata per la modifica delle norme presenti nella Carta Costituzionale, come avviene oggi nella vigente Costituzione Repubblicana italiana del 1948, dove ancora gli elementi politici tendenzialmente innovativi potrebbero confliggere con la domanda di stabilità e di coesione sociale.
Circostanza che lo Statuto flessibile di Carlo Alberto rende appunto legittimo in caso di minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale, valori assoluti che continuano ad insidiare l’operatività delle garanzie processuali e delle libertà civili e politiche quando emergono nella società civile interessi di minoranze conflittuali all’assetto politico sociale di maggioranza. Infatti spesso le relazioni internazionali impediscono il libero dibattito parlamentare e l’adozione di riforme sociali od economiche, proprio per le restrizioni finanziarie legate alle spese militari già accese che permesso l’unificazione dello Stato stesso. Di qui, il protezionismo doganale del vecchio Piemonte a danno delle economie degli annessi Stati regionali.
Nondimeno, l’ordine pubblico risulta altamente in pericolo, perché l’armonia delle classi dirigenti degli ex Stati della penisola non può essere raggiunta se non si supera l’ondata di risentimenti e vendette di chi non accetta sia la tecnica annessiva piemontese accampando la legittimità delle formazioni statali fagocitate e la presunta monopolizzazione dell’economia nordista su quella sudista. Inoltre, la reazione delle correnti democratiche non ritrova nella politica post-cavouriana alcuna prospettiva di ampio dibattito parlamentare sui diritti civili codificati genericamente nella vigente carta piemontese. I Nazionalisti pretendono Roma e Venezia; i Democratici ed i Mazziniani invocano nuove libertà politiche, mentre Minghetti, Rattazzi Ricasoli e Sella insistono nel prima costruire l’Amministrazione e pagare i debiti, poi riformare e legiferare sulla forma di Stato.
La grande paura di passi indietro – come poi avvenuto nel 1848 in occasione della prima Guerra di Indipendenza – prevale e lo strumento che consente di resistere al pericolo di un analogo revirement è la scelta dello Stato d’assedio. Questo sembra invero l’unica via d’uscita, fino a sospendere le garanzie politiche, amministrative e giudiziarie per il parallelo timore di una rivoluzione popolare modulata dall’estero, dove revanscismo conservatore e risentimento contadino, accompagnato da una certa inerzia della classe borghese produttiva, può organizzare quel processo restauratore è avvenuto a Napoli nel 1799 e che si ripete nell’ultima fase della Seconda Repubblica francese fra il 1849 e il 1852, quando Napoleone III abbatte la Repubblica e fonda il Secondo Impero.
Del resto, l’assenza delle classi popolari fin dal 1848, pur spezzata da una sporadica azione popolare nell’impresa dei Mille; e la povertà intellettuale ed atavica dei contadini e dei ceti medi meridionali, fecero il resto. La politica piemontese repressiva dello Stato d’assedio è l’uscita di sicurezza più opportuna per consentire una navigazione a vista, alquanto realista nel resistere alle intemperie della politica internazionale europea,dove l’astro nascente Prussiano prossimo alla unificazione della Germania; le aspirazioni imperialiste francesi di Napoleone III, il Panslavismo espansionista russo e la superiorità nei mari del colosso anglosassone, facevano ben pensare ad un futuro conflitto generalizzato in Europa, appena tamponato a Parigi dopo il segnale bellico in Crimea del 1853-1856, quando le grandi Potenze europee cominciano a spartirsi con tattica predatoria l’Impero Ottomano ormai in evidente disfacimento.
E’ noto che la politica delle Grandi Potenze ha nella storiografia dell’epoca un maestro non ancora superato: Leopold von Ranke (1795-1886). Sulle orme di Hegel, formula un carattere fisiologico della conoscenza storica, vale a dire la selettività dei fatti storici, cioè che lo storico si definisce ormai tale quando opera delle scelte sui fatti storici che la cronaca – cioè le fonti scritte e non scritte, ma reali fotografie di quei fatti per esempio le arti e le vestigia archeologiche – gli offre. E ciò al fine di discernere la obiettiva preminenza di un fatto sull’altro, interagendo dal passato al presente e riflettendo sul futuro probabile che quel fatto può generare. Operazione che lo induce a credere in un progresso storico lineare a favore della politica di potenza alternativa al dialogo pacifico fra le Nazioni, cosa che si allinea alla nuova politica degli Stati nazionali. Dunque a parere della Sua scuola storicista è la forza a regolare i rapporti sia all’estero che all’interno dei medesimi.
In altre parole, a giustificare o criticare la scelta di un evento da commentare è il contesto storico in cui avviene e sul quale si focalizza la critica o l’apprezzamento dei Governanti. Sicuramente la Questione Romana fra Italia e Francia vincola l’azione del Ministro della Guerra Alessandro Della Rovere, come del pari è vincolata la scelta militarista e autoritaria rispetto al Brigantaggio dopo la repressione di Torino prima e suo necessario segnale anticipativo. Così accade la clamorosa violazione dei diritti civili e politici del cittadino, pur se esecrabili per il numeroso elenco di stragi ed incarcerazione dal Nord a Sud nel decennio di prima costituzione del Regno d’Italia. Si adotta la legislazione speciale di Stato d’assedio – denominata ora legge Pica-Peruzzi del 1863 n. 1409 – che non va decontestualizzata dalla grave situazione che si è detta a livello internazionale, senza contare gli evidenti contraccolpi connessi all’annessione per certi versi avventurosi del Regno delle due Sicilie nel 1860.
Il fatto che lo Stato d’assedio limiti grandemente le garanzie processuali, sostituendo alla pene ordinarie, la pena di morte, la ricerca delle prove d’accusa riservata all’imputato, un costante ricorso all’incarcerazione, la requisizione di merci, la restrizione immotivata di persone, senza contare un uso spropositato all’uso delle armi da pare del potere militare, fino alla diffusa dell’eccesso di legittima difesa autorizzata dal comandante del singolo reparto operativo; sono scelte che aprono un forte dibattito fra gli intellettuali democratici, senza però produrre alcun ripensamento del Governo conservatore che, al pari di come avverrà a Torino troverà sponda a Matera, a Napoli, a Palermo, a Bari e a Cosenza nella coscienza politica della classe borghese, terrorizzata dal brigantaggio politico e criminale animato da Francesco II di Borbone esule a Roma e poi in Francia, dove Napoleone III con affanno continua a governare pressato dai cattolici papalini delle provincie interne e dai partiti socialdemocratici delle città, che guardano di buon occhio il nuovo vicino italiano, a condizione di essere a sua volta motivato da ideologie conservatrici e non molto anticlericali.
La crisi economica d’oltralpe impone all’Imperatore di esigere al più presto i crediti scoperti dopo la guerra alleata contro l’Austria del 1859 e l’invasione commerciale francese in Italia produrrà una caduta della produzione nazionale. Fatto che Quintino Sella dovrà fronteggiare fino all’osso, con una politica fiscale esosa che esaspera la realtà agraria e commerciale del sud, cioè una ulteriore linfa del fenomeno Brigantaggio, passato presto dalla corrente politica revanscista borbonica a quella puramente delinquenziale, anche se la convivenza fra queste due anime non è ancora ben distinta dagli storici. Le fonti ci dicono che l’esercito piemontese raggiunge il numero di 116.000 uomini nel 1964, più della maggioranza degli effettivi. Minghetti, Lanza, La Marmora e Sella, i quadrumviri della Destra storica, imputano. attraverso la stampa di regime, la responsabilità di quella guerra civile alla classe filoborbonica in esilio a Roma ed a Parigi.
Ma la selezione degli eventi contestuali europei fa riflettere però anche sulla contingenza dello scontro fra Grandi di cui si disse, considerato che il nuovo Regime è un vaso di coccio fra vasi di ferro, uno dei quali era quella Prussia che fra poco primeggerà. Certo si è che le statistiche dell’epoca parlano, a decorrere dal 1863 al 1866, di 3600 processi a maggioranza dinanzi alla giustizia militare; 10.000 imputati e migliaia di fucilati ancora senza indicazioni più precise. Spicca in quelle storie – non lontane da fiction letterarie e cinematografiche, per esempio Bacchelli a Germi per il film Il brigante di Tacca del lupo (1953) – il triste confronto spesso agiografico fra buoni e cattivi.
Sono Eroi il brigante Crocco, il generale spagnolo Borjes, il colonnello Pallavicini ed il siciliano democratico Giuseppe Cangelosi, il più famoso brigante siciliano, quasi il solo in quel momento in una Sicilia sul punto ormai di cadere nella rete futura della mafia? Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e la Sardegna – dove rimane quella situazione addirittura fino agli anni ’70 del ‘900 – sono le regioni nel cui territorio albergano quegli scontri, scanditi dalle trombe dei bersaglieri; dalle chitarre dei banditi e dei rintocchi di campane per la morte dei poveri contadini, vittime o delle stragi delle bande armate o degli eserciti regolari a volte più odiati malgrado la loro veste di liberatori.
La tecnica interpretativa storica di quegli eventi, che investono pure Palermo nel 1866 nell’episodio della rivolta del c.d. sette e mezzo; impone oggi allo Storico di selezionare e distinguere quando i fatti singoli o collettivi furono frutto di errori ed inefficienze, di mancanze organizzative o di pura ferocia. Né appare sufficiente deviare l’attenzione sul classico dilemma pro e contro la presunta invasione piemontese del sud, giacché l’esigenza di protezione dell’Unità nazionale non va dimenticata né svalutata. Comunque, fra il 1865 e il 1866, la guerra contro le bande fu spietata fino ad eliminare almeno nelle forme il consenso sociale faticosamente ottenuto da Garibaldi pochi anni prima.
Purtroppo, la repressione favorisce le classi agrarie semifeudali e la situazione dei contadini non migliora. E chi volesse leggere la realtà delle compagnie di mercenari – che l’art. 7 della legge Pica consente al Governo di istituzione per affiancare il Regio Esercito – ne potrà verificare le tristi gesta nell’appendice al Codice della Guardia Nazionale di Edoardo Bellomo, dove la tragedia del sud Italia è dipinta egregiamente al punto da fare invidia e pari sgomento a quanto sappiamo sugli eccidi in Ucraina ed a Gaza. Lo Stato ha salvato per ora l’Unità Nazionale con lo stato d’assedio, ma ha allontanato la speranza di maggiore partecipazione delle masse contadine alla politica del nuovo Stato.
I Fasci Siciliani e le rivolte popolari nel Centro-Nord (1873-1894): insurrezioni anarchiche e rivolte polari agrarie represse con la forza. Come curare un corpo malato con bagni freddi. L’eterno ricorso allo Stato d’assedio. Come incentivare le tensioni sociali
Nei primi anni del secondo decennio dell’Unità manca l’occasione di ritrovare la necessità politica di riattivare il braccio armato, non tanto per mantenere l’ordine precostituito contro la minaccia esterna restauratrice, quanto e piuttosto perché un’altra nube interna sembra destabilizzare la società civile post unitaria, avviata dal Minghetti su nuovi interessi economici connessi all’acquisizione del Veneto e soprattutto di Roma (1866 e 1870), che diventano il motore immobile della ripresa dopo gli anni della crisi finanziaria e della politica del risparmio assoluto di Sella. E’ un fatto che nel 1873 cade il Governo Lanza e ritorna Minghetti che, mantiene una politica fiscale che persegue il pareggio del bilancio e la tassa sul macinato, ma dal 1868 produce ulteriori danni ai consumi popolari e forti manifestazioni di protesta.
Si motivano così le prime società di lavoratori e le rivendicazioni popolari rivolte all’anarchismo, represse dal Governo del generale Menabrea che rinforza la polizia politica. Tuttavia si abbattono le barriere protezioniste per favorire gli appalti pubblici verso Roma Capitale ed anche si introducono forme cooperativiste nelle imprese agrarie del Nord e nelle aree agricole toscoemiliane, favorendo possibili aggregazioni di lavoratori agricoli. In questa fase di moderata politica sindacale si inserisce l’anarchico più famoso dell’epoca, Michail Bakunin, che sente l’odore di rivoluzione proletaria proprio nelle aree agrarie padane e comincia colà a predicare il verbo marxista di rito massimalista.
Conosciuto l’anarchico napoletano Cafiero ed il giovane Enrico Malatesta, Bakunin e la sua cellula intessono trame eversive meditate a Locarno nella sua villa La Baronata e poi propagandate fra Marche ed Emilia. Molti sanno che le sezioni anarchiche pullulano fra Ancona e Rimini (ricordiamo ora quest’area rurale, dove scoppierà nel 1914 la famosa settimana Rossa di Nenni e Mussolini e che 30.000 contadini e da operai entrano alla corte di questi cospiratori). Ma quando nel 1874 parte la sommossa, già i Carabinieri sono pronti. Li arrestano a Bologna, mentre solo Bakunin sfugge vestito da prete. Vicenda che Riccardo Bacchelli narra nel romanzo Il diavolo al Pontelungo del 1927, alquanto ironico nell’impostazione, ma qui essenziale per capire come la prassi dello Stato d’assedio ha natura prettamente preventiva, anche quando si è ancora lontani da tentativi insurrezionali di massa.
Una buona polizia di sicurezza sembra sufficiente alla Destra politica per reprimere deviazioni ideologiche non molto ferree se connesse ad associazioni territoriali di lavoratori che chiedono soltanto pane, lavoro e migliori salari. La seconda metà degli anni ’70 e gli anni ’80, almeno fino alla morte del nuovo astro nascente fra i notabili parlamentari, l’ex mazziniano Agostino Depretis – spesso assistito dal Benedetto Cairoli, la coppia di più al potere di parte della prima Sinistra storica – non presenta più violazioni incisive delle garanzie processuali e politiche dello Statuto penetrate attraverso la formula dello Stato d’assedio, salvo qualche raro intervento sulle frazioni anarchiche più violente. Mentre nelle campagne meridionali non cessano carestie ed epidemie che scuotono la base contadina e già si prelude alla forte spinta migrativa verso le Americhe.
Il Nord ed il Centro del Paese, anche per effetto del citato nascere di sindacati e di associazioni di piccoli proprietari e mezzadri, ottengono un maggiore credito dalle banche e riescono ad incrementare gli investimenti, formando i necessari presupposti per lo sviluppo industriale dell’inizio del ‘900. Il Depretis, ormai da solo al Governo, finalmente consolida il pareggio del bilancio; allarga il suffragio elettorale; abolisce la tassa sul macinato; fa maggiori investimenti sanitari ed estende l’istruzione elementare. Un programma di miglioramento che consente una diversa accumulazione dei profitti e l’apertura al commercio estero, approfittando della fine del protezionismo economico di cui si è detto. Fra il 1877 ed il 1887, Depretis, Cairoli, Iacini, Coppino, con l’aiuto di molti deputati della Destra – che di volta in volta saltano da un gruppo all’altro per approvare timide riforme nel senso anticipato (il c.d trasformismo) – governano un paese lacerato comunque, giacché il decollo dell’economia italiana ed il processo di industrializzazione del Nord nasce per effetto del proficuo scambio di capitali agrari e commerciali fra il Centro e Nord con il sud sempre più assente.
Pur dando per scontato un forzato fallimento di qualche complesso industriale del Meridione, l’inchiesta di Iacini del 1884 dimostra l’estrema povertà delle masse contadine delle isole maggiori, nella cui terre abbonda il latifondo ed il sottoconsumo. Circostanza che spiega come nel 1893, si avrà la più cospicua esperienza organizzativa riformatrice del Regno. Morto Depretis e divenuto nel 1887 Crispi capo del Governo; la politica moderata trova sponda favorevole nella Germania imperiale di Bismarck. E’ noto l’avventurismo politico del personaggio, il suo spiccato nazionalismo e la sua politica autoritaria ed accentratrice, con un protezionismo economico soltanto aperto all’investimento di banche tedesche in Italia. Orbene, nell’intero Meridione a Sud di Napoli, la Sicilia Orientale spicca il volo urbanistico, insieme a pochi Comuni dell’Occidentale e del Centro, quali Caltanissetta, Castrogiovanni – oggi Enna – ma anche Alcamo, Marsala e Trapani diventano città con più di 50.000 abitanti. La geografia urbana dell’isola si allarga. Le nuove figure di Pubblica Amministrazione create dal Crispi – per esempio, le Unioni di Comuni, le cc.dd. Provincie – alimentano i trasporti ferroviari e la politica locale commerciale come pure le cc.dd. Camere di Commercio.
Crescono così gli scambi locali a detrimento di quelli internazionali. Zolfo, vigneti e l’ortofrutticolo subiscono infatti uno stallo per la politica protezionista riavviata a favore della Germania contro la Francia repubblicana, che ci priva della colonia tunisina e che l’amica Germania si premura di riparare con qualche porto in Mar Rosso concesso dalla Gran Bretagna. In sostanza, mentre la politica di Crispi e Bismarck continua a privilegiare il Nord attraverso le banche di investimento a capitale tedesco, immesso con tassi di interesse molto basso proprio per attivare quelle aree; invece il ritorno protezionista all’interno penalizza il flusso di scambi con la Francia per il grano, il vino, gli agrumi e lo zolfo. Poi, lo sviluppo ferroviario delle zone dal Nord dà a questo ulteriori privilegi perché i prodotti ortofrutticoli giungano in Europa con navi a carbone più veloci e sbarcano a a Genova e Livorno molto più attrezzati al riguardo.
Sicilia e Puglia subiscono proprio per il vino verso la Francia il crollo verticale dei prezzi. Cosicché non resta che il grido di aiuto e di rivolta di Napoleone Colajanni e di Giustino Fortunato, profeti socialisti meridionali che appunto invocano riforme politiche e sociali per rallentare un decorso catastrofico delle rispettive economie locali. Nascono così mobilitazioni sindacali di imprenditori e di lavoratori dalle Madonie ai Nebrodi, fino ai Peloritani ed alla Sicilia centrale. Nel 1893 si contano 175 fasci di coltivatori e produttori e 300.00 iscritti. Neppure a Milano ed in Emilia si ha un fenomeno sindacale analogo. Gli storici attuali notano che proprio lo strumento giuridico adottato è il diritto di associazione valido dalla politica al mondo del lavoro. Salari, orari di lavoro, contratti agrari, ecc. preludono ad azioni politiche e perfino a Partiti di Massa. Sturzo e De Felice – un cattolico ed un socialista – ne traggono le conseguenze.
Bernardino Verro a Corleone nel 1893 stipula i famosi Patti di Corleone che rompono l’egemonia nobiliare nelle classi medie e lavoratrici che oggi dominano i poveri braccianti di colore extracomunitari, come avviene all’epoca anche a mezzo di campieri primi alfieri della Mafia. Perché quest’imponente partecipazione collettiva ed interclassista viene brutalmente repressa dal Crispi che adopera lo strumento dello Stato d’assedio, richiamando le rigidi sospensioni delle regole statutarie già perfezionati dalle legge Pica, In primo luogo, non manca la reazione degli agrari locali, che ai Fasci dei lavoratori oppone le squadre private raggruppate di braccianti disoccupati privi di copertura sindacale. Poi mancherà l’appoggio del nascente Partito Socialista che nel Congresso di Reggio Emilia del settembre del 1893 nega ogni alleanza a Fasci composti di piccoli proprietari borghesi e di braccianti agricoli.
La classe operaia non vuole immischiarsi all’epoca con i piccoli borghesi… La scelta univoca di classe e l’ostilità degli agrari porta l’esclusione di Bernardino Verro e di Nicolò Barbato. A Piana degli Albanesi movimenti di piazza radicalizzano la questione delle riforme dei contratti agrari ed addirittura le plebi rurali parteggiano per i padroni. Tanto che nel novembre e dicembre del 1893 scoppiano tumulti e disordini, in buona parte come effetto dello scontro coi braccianti sobillati dagli agrari. Nel frattempo, a Roma, per effetto della crisi della Banca Romana, il duello politico fra Crispi e Giolitti vede la caduta del secondo ed il ritorno del primo al Governo, con l’ulteriore effetto di una più dura conflittualità fra capitali e lavoro per la mancata alleanza con la piccola classe agraria. Cosicché il 3 gennaio 1894 scatta l’ennesimo Stato d’assedio.
Il generale Umberto Morra di Laviano riapplica la vecchia legge Pica e vengono arrestati e condannati da Palermo a Catania, da Siracusa a Caltanissetta, tutti i Capi del movimento e vengono chiuse le relative centrali sindacali. E’ una lezione che Turati e Treves, diversamente da Costa e Labriola, imparano per il futuro, dove non sarà un caso che fra il 1903 ed il 1913 il Partito Socialista accetterà una visione meno classista e più conciliativa con i liberali democratici di Giolitti e Zanardelli, mentre proprio dal 1902 al 1920 l’esponente del Movimento fascista siciliano De Felice diverrà sindaco di Catania e padre del socialismo riformatore e precursore della crescita economica di quella città nel primo e nel secondo dopoguerra (la ridefinì la Milano del sud). Purtroppo, il massimalismo socialista del 1919-1921 e la scelta autoritaria del 1922 col Fascismo al potere, interruppe tale cammino democratico.
Scioperi per fame e colpi di cannone. Milano, 1898. La soluzione di Giolitti: laisser faire, laisser passer e la politica della mano tesa (1900-1911)
La sequenza di fatti che notiamo si ripete già qualche anno dopo, quando nel 1898, fra la fine dei aprile e maggio, Milano fu fortemente turbata dalla più esecranda strage di lavoratori. In occasione di una di quelle cicliche crisi economiche che periodicamente si abbattono nei paesi a forte traino agrario come è l’Italia al passaggio di secolo; il cattivo raccolto del 1897 causa l’aumento, ma oggi potremmo del pari citare l’attuale crisi ambientale per effetto della siccità. Sale il prezzo del grano divenuto proibitivo per le masse operaie. Romagna, Puglia, Toscana e Sicilia tornano a ribollire. Il vento anarchico e socialista risoffia.
Scioperi e manifestazioni di piazza si riaccendono, una situazione analoga alle marce degli studenti di oggi per i fatti della Palestina. Il Governo liberaldemocratico della Sinistra storica è presieduto da Antonio di Rudinì che ricopre anche la carica di Ministro degli Interni. Non si riesce a soddisfare le esigenze dei lavoratori per un maggiore salario. La mancanza di pane e gli agrari che non vogliono ribassare i profitti, sono i nodi della questione. I socialisti proclamano per il 1 maggio una marcia del pane a Milano, simile a quella che avverrà a S. Pietroburgo nel 1905, prodromica alla successiva Rivoluzione. Dopo di che a Molfetta, a Piacenza ed in altre zone ancora le forze dell’ordine causano decine di morti. Il 6 maggio è già operativo il classico stato d’assedio per Milano. A Corso Porta Ticinese già si registrano agitazioni e marce. Scioperi anche alla Pirelli. Cariche di cavalleria e cannonate sui morti di fame che domandano pane, lavoro e più salario.
Un’ondata di arresti, 80 morti e 450 feriti secondo i dati ufficiali. Piazza Duomo diventa un bivacco di soldati. Il comandante militare Bava Beccaris si vanta di aver soffocato la Rivoluzione rossa. Seguiranno un elevato numero di processi militari che coinvolgono esponenti socialisti e gente inerme. Re Umberto I di Savoia si congratula con quel generale e non mancano gli storici che vedono in quel tragico evento la causa della altrettanto tragica uccisione per mano anarchica di Umberto I nel 1900. Vista da tale ulteriore angolazione lo Stato d’assedio rappresenterebbe un rimedio peggiore dal male che pretenderebbe di evitare. Il quinto decennio dall’Unità, festeggiato con una certa virulenza dal gruppo parlamentare nazionalista, è non a caso poco dopo seguito dalla dichiarazione di guerra alla Turchia per la conquista della Libia (29 maggio 1911).
E’ l’apoteosi dei governi presieduti da Giovanni Giolitti, frutto anche del decreto 14.11.1901, con cui il sodale Zanardelli riduce le prerogative del Re ed afferma del pari una funzione di Primazia al Presidente del Consiglio dei Ministri nel nominare e revocare i ministri e le massime cariche dello Stato, ma non comprende la tradizionale potestà di indire lo Stato d’assedio. La questione è sempre se il Re sia nella titolarità assoluta di tale potere. Certamente la riforma di Zanardelli concede unità di indirizzo al Capo del Governo nella politica ministeriali, ma non sembra incidere sulla scelta attributiva dell’istituto in esame.
Il buco dell’iniziativa – per altro ancora non concessa esplicitamente al Parlamento sia per la dichiarazione di guerra esterna che interna – rimarrà sospeso e diverrà drammaticamente evidente fra poco. Giolitti intanto proprio in quel quinto decennio non cessa di rimanere al potere direttamente o per interposta persona, suscitando le ire e l’ironia di uno storico già noto, Gaetano Salvemini che lo taccia di Ministro della Malavita per la prassi di manipolare attraverso i Prefetti locali gli esiti delle elezioni spesso anticipate. Fra il 1900 ed il 1914, sarà sempre il suo gruppo parlamentare a mantenere il Governo.
Con piglio governativo più o meno diretto, le Prefetture diventano la sua longa manus, anche perché la riforma delle prerogative del Governo citata dal 1901 consente al Presidente del Consiglio di sciogliere la Camera dei deputati quando la maggioranza parlamentare gli potrebbe sfuggire. A poco a poco socialisti, cattolici e repubblicani si affiancano ai liberali democratici nella questione della gestione del Potere. Naturalmente, la nota politica della mano tesa al gruppo socialista ed a quello repubblicano lo salvano da ulteriori scossoni dal suo alto scanno. Fin dal 1904 e malgrado le crisi siderurgiche e cotoniere del 1907, il sistema bancario regge perché si interviene direttamente con mutui erogati dallo Stato alle imprese e quindi la domanda di beni e servizi non crolla rapidamente.
Inoltre, gli effetti delle rimesse degli emigranti e la minore spesa per servizi dovuta ad un rallentamento della popolazione per la stessa ragione migratoria, consentono anche una pace sociale più duratura. La tolleranza del Governo per gli scioperi o delle serrate degli imprenditori dipende dalla intelligente mediazione prefettizia comandata dallo stesso Giolitti. Anche il colpo di mano in Libia tacita la pressione nazionalista e la fame di colonie che si invoca a destra, come l’estensione del voto a tutti i cittadini maschi a favore delle Sinistre, approvata nel 1912; sono provvedimenti che tentano di salvare da crisi notevoli la classe liberale, di nuovo nel mirino della popolazione tornata a livelli di sottoconsumo analoghi ai tempi del 1898.
La ripresa degli scioperi generali produce un fermento sindacale che sfocia nel 1914, poco prima di Sarajevo, nei disordini della cd. settimana rossa (giugno 1914). Benché l’impresa libica (1911-1912) sia più popolare rispetto all’esperienza dell’Etiopia, anche per un maggiore consenso della Francia tacitata da pretese dopo l’acquisizione del protettorato sul Marocco; il quarto mandato di Capo di Governo (30.3.1911-21.3.1914), iniziato con la citata guerra di Libia, contenta i nazionalisti per la nuova politica di potenza nel Mediterraneo, affiancati da cattolici invasati di plauso per la guerra antislamica e trova del pari un cauto consenso dei socialisti e moderati che credono nella quarta sponda del Paese dove scaricare i tanti contadini del sud disoccupati che continuano ad emigrare nelle Americhe e che prima di tale scelta rumoreggiano nelle piazze italiane, o sobillate dal Mussolini e dal citato Salvemini, che rileva come le terre libiche non siano così fertili come le vicine terre di Tunisia andate perdute a favore della Francia.
Od aizzate dagli anarchici rivoluzionari di Errico Malatesta e dai pacifisti di Ernesto Moneta, tutti antimilitaristi e spesso accusatori di intrighi del Giolitti coi finanziatori internazionali, favoriti dal Vaticano, e che avrebbe iniziato a fornire fondi occulti al Governo in cambio di attaccare il debole Impero Ottomano, ormai sull’orlo del crollo nei Balcani, un ventre molle pronto da essere addentato dagli Inglesi e dai Francesi ghiotti di annettersi vari porti nel Mediterraneo orientale e nell’Adriatico, lasciando sperare all’Italia qualche base nelle isole greche. Un groviglio di interessi contrapposti che ha per contrappeso decine di milioni per spese di guerra che si accompagna ad un’ondata di radicalismo politico, che a Giolitti ed alla sua cerchia romana moderata non promette un futuro tranquillo.
La settimana Rossa (7-14 giugno 1914). Il fuoco della Rivoluzione dalle Marche alla Toscana. Il ritorno alla soluzione dello Stato d’assedio
Il colpo da maestro della politica che Giolitti scaglia contro gli opposti estremismi consiste nel Patto politico elettorale che contrae col movimento cattolico moderato di Vincenzo Gentiloni: cioè l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, che l’alta borghesia, legata alle banche vaticane, gli propone a nome di quella maggioranza silenziosa di centro piccolo borghese finalmente liberatasi dal non expedit di Pio IX ed ora sciolto da Pio X. In altre parole, la classe media e le classi vicine impiegatizie, di professionisti e di piccoli proprietari, entrano al Governo del Paese e nelle elezioni del 1913, aperte al voto universale maschile voluto da Giolitti con la legge nr. 666 del 1912, non rafforzano il Partito liberale e la sua maggioranza parlamentare. Il rischio di nuove sommosse sociali non è dunque affatto superato.
La propaganda antimilitarista e popolare in economia è altrettanto notevole, proprio per effetto della riforma elettorale. La Camera vede un forte aumento anche del Partito socialista e di quello repubblicano, senza contare di fatto la crescita dell’anarchismo sindacalista e del cattolicesimo popolare e democratico. Il 9.5 del 1914, al congresso socialista e repubblicano di Ancona, nasce un altro Patto non solo elettorale, fra i socialisti massimalisti di Mussolini – già critico della dirigenza del PSI troppo moderata e troppo vicina a Giolitti di Turati e Treves – i Repubblicani di Pietro Nenni e dell’anarchico Malatesta e perfino del sindacato dei ferrovieri, divenuto il gruppo sindacale più numeroso.
Al canto dell’Internazionale, i delegati che chiedono a gran voce la fine della guerra in Libia, pane e lavoro, come a Milano nel 1898. Scoppia il prevedibile tumulto, parte una scarica di fucileria dai Carabinieri che uccide tre dimostranti. Il solito Governo filo giolittiano, retto da un Salandra delfino del leader liberale, ma di idee più conservatrici, di fronte alla folla in tumulto, è aizzata sullle colonne del giornale socialista Avanti, diretto proprio da Mussolini. Si dichiara il solito Stato d’assedio per Ancona, Rimini, Bologna, Fano, Livorno, che sono in mano alla rabbia popolare che assale caserme, palazzi pubblici, disarma militari e carabinieri ed issa bandiere con falce e martello ovunque. La rivoluzione è alle porte? La Confederazione del lavoro, e la dirigenza del P.S.I. però frenano.
La settimana rossa (7-14 giugno del 1914) si blocca sulla considerazione di buon senso che Turati e Treves lanciano nello stesso giornale diretto da Benito Mussolini: perché spaccare il Paese con la violenza, quando la presenza socialista, repubblicana e radicale democratica alla Camera rasenta la maggioranza? Intanto, il governo Salandra, in virtù dello Stato d’assedio appena approvato, spedisce in Romagna 100.000 militari che riportano quelle aree all’ordine e reprimono ogni velleità repubblicana. Malatesta scappa in Svizzera; Mussolini e Nenni passano alcuni mesi in carcere e la Confederazione Generale del lavoro diffida il sindacato dei Ferrovieri sull’impegno politico e sociale. La borghesia conservatrice esige pace sociale e moderazione nelle richieste dei lavoratori.
Lo Stato d’assedio ha prodotto ancora una volta i suoi effetti di blocco dello sviluppo sociale e politico. Ma la settimana rossa sarà per Mussolini la prova generale della sua conquista del Potere di quasi 10 anni dopo, con la variante dell’assenza di quello Stato d’assedio che proprio in quel momento, ove varato, gli avrebbe ancora negato la coronazione delle sue aspettative politiche.
Quando lo Stato d’assedio non fu dichiarato: maggio 1915 ed ottobre 1922. La fine dello Stato liberale e la Dittatura Fascista
Qualche mese dopo quei fatti rivoluzionari – o meglio dei tumulti popolari che come nella Russia dal 1905 preludono alla successiva grande rivoluzione del 1917 – scoppia la Prima Guerra Mondiale fra la Triplice Intesa occidentale – Francia, Inghilterra col terzo incomodo, la Russia, i cui interessi prescindono dalle istanze neocapitaliste di Parigi e Londra, perché piuttosto orientata ad influenzare i popoli di lingua slava presenti nei Balcani austriaci e nella Polonia Prussiana – e la Triplice Alleanza – Austria, Ungheria e Germania, senza l’Italia neutrale, interessata ad ottenere parecchio con le trattative – come disse Giolitti e come il Ministro degli Esteri Sangiuliano auspica facendo leva sulla diplomazia.
E’ un conflitto di cui la previsione di brevità è smentita da lunghi mesi di guerra di movimento (3/8-6/12) e da un periodo che si allunga terribilmente perché diventa una guerra di attrito – o di posizione – perché l’avanzata tedesca verso Parigi è bloccata sulla Marna dalle forze franco – britanniche (6.12.1914). Dopo mesi di trattative segrete coi Paesi dell’Intesa e malgrado le voci moderate di mantenimento della neutralità dell’Italia – Giolitti, Turati, il nuovo Papa Benedetto XV e la stragrande maggioranza della popolazione – un protocollo di entrata in guerra a favore delle Potenze dell’Intesa è firmato a Londra, col tacito assenso di Francia e Russia assenti alla stipula, circostanza che peserà negativamente nel 1918 a Versailles.
E’ il 26 aprile del 1915, quando la Germania è inchiodata sulla Marna, i Russi ottengono qualche successo al confine Rumeno e la Grecia è pronta ad attaccare l’Impero Ottomano alleato dell’Impero Centrale, anche se l’opinione pubblica turca è piuttosto perplessa. Neppure il nostro Paese concorda, salvo chi plaude alla promessa solenne di ottenere il Trentino, il Tirolo Meridionale, Fiume e la Dalmazia, nonché varie colonie ex tedesche in cambio dal terzo fronte più a sud. Solo che tale Patto – conosciuto e criticato da Giolitti, respinto dal generale Cadorna che ritiene l’esercito impreparato ed aborrito dal nuovo Papa Benedetto e dalla parte cattolica schiettamente pacifista – è fortemente ignorato dalla stampa, sconosciuto dai Sindacati, non apprezzato dalle Banche spesso indebitate con le omologhe tedesche, temuto dai socialisti che si vedono traditori delle analoghe associazioni politiche tedesche, tutte orientate alla guerra.
Gioiscono i nazionalisti guidati da D’annunzio e Corridoni, che a Quarto il 14.5 del 1915 chiamano alle armi i giovani ed i disoccupati; al grido di Morte al mestatore di Dronero, cioè Giolitti. Esultano alcuni anche a Sinistra, dove il redivivo Mussolini, reduce dalla sconfitta della settimana rossa, non solo abbandona il PSI e passa all’interventismo più acceso; ma anche i socialisti moderati come Salvemini e Bissolati, che accettano la scelta militarista, inneggiando alla futura quarta guerra di indipendenza. Scemate le speranze di accordo diplomatico, il mediatore tedesco von Bülow, di fronte alla freddezza del ministro degli esteri Sonnino ed al silenzio negativo dl Salandra, capo di Governo contrario a Giolitti, si dichiara impotente a concludere con l’Austria, sempre più chiusa alla trattativa, anche perché non è chiaro come ci si sarebbe dovuti comportare con la Serbia per la Dalmazia e Fiume, che i Russi non vogliono mollare alla dominazione occidentale, chiaramente invasiva dell’Adriatico e del Mediterraneo Orientale.
Giolitti il 9 maggio, all’apertura della sessione parlamentare della Camera, incontra il Re cui esprime la sua volontà di Pace e di revoca del Patto di Londra, la cui validità scade il 26 maggio. E mentre D’annunzio e Mussolini, ma anche Salvemini e l’irridentista Battisti aizzano le masse alla guerra, il Consiglio dei Ministri del 12 maggio decide di chiedere alla Camera di accettare o revocare il patto di Londra. Il Re dal canto suo è perplesso: che figura può fare dinanzi a Francia ed Inghilterra dopo aver loro telegrafato la sua piena accettazione? E l’Austria e la Germania, che in Galizia hanno intanto positivamente battuto i Russi, come possono non attaccare in massa la debole Italia ed addirittura riconquistare Venezia?
Giolitti tuona: se Salandra e Sonnino non revocano, il pericolo dell’invasione del territorio nazionale è reale e la Casa Savoia stia attenta. E poi la minaccia fisica di D’annunzio: il ritiro da Londra avrebbe scatenato la reazione nazionalista, che già bivacca attorno a Montecitorio e Giolitti deve temere per la sua stessa persona…. I Prefetti intanto esprimono timori e perplessità. Se la Camera di fatto sembra essere dalla parte di Giolitti e sembra favorire le dimissioni di Salandra e Sonnino – trecento deputati depongono a casa del Leader il loro biglietto da visita – nelle altre città squadre e cortei di nazionalisti guerrafondai tumultano senza sosta ed il pericolo di un altra settimana rossa è in vista.
Vero è che la Riforma del Governo del 1901 di Zanardelli aveva lasciato il potere del Re e del Governo di dichiarare lo Stato d’assedio e la dichiarazione di guerra, ma è anche vero che ha delegato al Parlamento la definizione del bilancio di guerra e dunque alla fine è il Potere legislativo ad avere acquisito almeno la corresponsabilità della materia. Giolitti ed il fido ministro dell’economia Carcano a questo sono aggrappati per impedire il ritorno di Salandra dopo le dimissioni date al Re nel consiglio dei Ministri del 12 maggio. Intanto la piazza nazionalista preme, la provincia neutralista tace ed il Prefetto di Roma, in assenza di un Governo operativo che il Re ancora non vara, ordina alla polizia di circondare la residenza di Giolitti con filo spinato e dispone una robusta scorta armata per proteggere l’incolumità dell’anziano leader.
Milano è in mano ai nazionalisti di Corridoni, le Romagne ed il resto del Nord sono aizzate da Mussolini. Il Paese cattolico e socialista pretende dal Re proprio quello Stato d’assedio che più volte i suoi hanno ordinato e che egli stesso in Romagna ha firmato qualche mese prima. Basterebbe quel classico provvedimento e l’incarico al Carcano di succedere al Salandra per riguadagnare una certa credibilità nell’istituzione monarchica, pur perdendo il favore apparente della piazza nazionalista e degli eventuali alleati occidentali. Forse il Re ha paura che in quelle giornate si ripeta proprio a Roma la settimana Rossa stavolta in veste grigio verde, come pure emerge l’inerzia della Camera che non prosegue nel favore neutralista. Il 20 maggio Vittorio Emanuele lII respinge le dimissioni di Salandra e del suo Governo.
Londra è accettata. La guerra all’Austria – ma non subito stranamente alla Germania, che sarà dichiarata poi il 27 agosto 1916 – verrà subito dopo un voto alla Camera di pieni poteri di guerra all’ex Governo, votata da 407 deputati contro 74 di voti contrari, capeggiati dal Turati che si dimostra coerente sia col sodale Giolitti, ma soprattutto con le masse popolari, su cui cade tale scelta da Colpo di Stato senza alcuna loro partecipazione. Si passerà dalla radiose giornate di maggio del 1915, alle tristi giornate dell’ottobre del 1922, quando dopo pochi anni di una dolorosa guerra (24.6.1915 – 4.11.1918) ed altri di guerra civile fra lo Stato liberale democratico e la prepotente violenza Fascista; nell’ottobre (26-28) del 1922 tale Partito prenderà il Potere dopo la c.d Marcia su Roma.
Anzi nel biennio 1925-1926 si trasformerà lo Stato in dittatura totalitaria. Anche qui suona stonata la mancanza di quello Stato d’assedio, che la consuetudine politica Sabauda ha attuato nel sessantennio precedente come ricetta per curare i mali del Regno d’Italia. In realtà come si è visto nel caso dalla entrata dell’Italia nella Grande Guerra, uno dei fattori determinanti della fine dello Stato liberale resta la realtà statutaria che non chiarisce fino in fondo la titolarità nel dichiararlo. Se cioè sia del Re, come recita la stesura originale dello Statuto Albertino del 1848; oppure la riforma Zanardelli del 1901, che lo mantiene fra le prerogative del Re in coabitazione col Governo, ma affida al Parlamento l’attribuzione dei fondi per le spese militari e per l’ordine pubblico.
Eppure la sera del 21 ottobre, lo stesso Re Vittorio Emanuele, di fronte alla marcia dei Fascisti su Roma e con le truppe e pronte a fermarli; dapprima lo redige e lo consegna al Capo di Governo Facta che lo controfirma e lo consegna ai militari a Roma pronti a sparare sui militi alle porte di Roma. Ma poi ripete la condotta paurosa di quasi sette anni prima: di notte a notte lo revoca e convoca a Roma il capo dei Fascisti Mussolini conferendogli l’incarico di formare un Governo, dopo lunghi anni di guerra esterna ed interna. Un altro caso di mancato Stato d’assedio che non premia la difesa delle istituzioni democratiche, ma che ora le avrebbe meglio tutelato come nel passato.
Basterà a Mussolini nel 1922-1925 addomesticarlo con elezioni illegittime e con intimidazioni fisiche ai parlamentari ed agli oppositori, fino alla uccisione del deputato Giacomo Matteotti, per ottenere i pieni poteri ed annullare Partiti, sindacati e Magistratura, concentrando per legge totalmente il suo potere di Governo. Oggi, la Costituzione del 1948 ha risolta il problema: l’art. 78 invero recita che le Camere deliberano lo Stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari.
Una netta distinzione fra i poteri dello Stato che all’interno dell’attuale Costituzione rigida, estranea agli influssi temporanei elettorali, garantisce la volontà popolare e le istituzioni democratiche, tanto più che spetterà al Presidente della Repubblica, Capo dello Stato, di rappresentare l’Unità Nazionale di cui il Parlamento resta il motore centrale e del quale il Governo deve conservare la fiducia della maggioranza in esso rappresentata (art. 87 Cost.), pur nei limiti politici già esaminati e non ancora però definiti negli strumenti legislativi adottati dal Governo proprio durante la recentissima emergenza Covid. Una carenza legislativa che dovrebbe essere ricucita nel solco del controllo parlamentare sul Governo, a pena di non incorrere in pericolose ripetizioni del passato.
Bibliografia
- Per quel che riguarda il mutamento dello stato liberale europeo fra l’età delle Nazioni e l’età degli Imperi, vd. ERIC HOBSBAWM, Il trionfo della borghesia,1848-1875 ed. italiana, Laterza, 1976 e dello Stesso, L’età degli Imperi, 1875-1914, ed. italiana, Laterza, 1987.
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- Sui moti di Torino del 21-22 settembre 1864 e sulla parallela questione romana, cfr. GIULIANO PROCACCI, Storia degli italiani, vol. 2° Laterza, 1998, pagg. 389 e ss.
- Sulle imprese di Garibaldi alla Conquista di Roma, cfr. INDRO MONTANELLI E MARCO NOZZA, Garibaldi, Rizzoli, 1962, pagg. 433 e ss.
- Sulla Convenzione di settembre, Napoleone III e la fine dell’Impero Francese, vd. FRANCO CARDINI, Napoleone III, ed. Sellerio, Palermo, 2010.
- Sulla soluzione dello stato d’assedio come soluzioni per reprimere i moti posteriori all’Unità, vd. RAFFAELE ROMANELLI, op. cit., pagg. 3 e ss . (saggio di Stefano Merlini) e pagg. 13 e ss.
- Sulla tecnica della selezione nella conoscenza storica, cfr. LEOPOLD VON RANKE, Storia, storiografia e politica, Signori, 2015, nonché MAX WEBER, Saggi sulla dottrina della scienza, ed. De Donato, Bari, 1980.
- Sulla legge Pica-Peruzzi, cfr. ROBERTO MARTUCCI, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia Liberale, Il Mulino, Bologna,1980.
- Sulla novella di Bacchelli, pubblicata su L’illustrazione italiana, 1936 nr. 11 e 14 e sul film di Pietro Germi, cfr. ENRICO GIACOVELLI, Pietro Germi, ed. Il Castoro cinema, pagg. 45-50, Milano,1991.
- Sul Brigantaggio, vd. LUCIO VILLARI, Bella e perduta, ed. Laterza Bari, 2009, pagg. 310 ss. e per la controstoria del fenomeno, vd. CARLO ALIANELLO, La conquista del sud, Rusconi, 1972.
- Sull’episodio insurrezionale anarchico che vide per protagonista Bakunin e Cafierio, narrato da RICCARDO BACCHELLI, vd. Il diavolo al Pontelungo, Milano, Mondadori, 1959 e da lato storico, cfr. MAX NETTLAU, Geschichte der Anarchie, Storia dell’anarchia, Cesena, 1964, ed. Antistato. In lingua inglese, vd. su https://archive.org, MAX NETTLAU, Short history of Anarchism.
- Sulla Sinistra storica al Governo, vd. RAFFAELE ROMANELLI, op. cit., all’interno del quale cfr. il saggio di STEFANO RODOTA’, La cittadinanza della borghesia,,301 e ss.
- Sui Fasci siciliani, cfr. VINCENZO BARNABA’, Il meglio tempo. 1893, la rivolta dei Fasci nella Sicilia interna, Infinito, 2022. Su Crispi, vd. GIUSEPPE ASTUTO, Io sono Crispi, Il Mulino, Bologna, 2005.
- Sui fatti del 1898 a Milano, vd. GIULIANO PROCACCI , op. cit., vol. 2°, pagg. 444 e ss.
- Sull’età giolittiana, vd. INDRO MONTANELLI, L’Italia di Giolitti, Rizzoli, Milano, 1974.
- Per la settimana Rossa, cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario: 1883-1920, Einaudi, 1965, pagg. 177 e ss.
- Sulle problematiche dell’interventismo e del neutralismo durante i mesi antecedenti l’entrata in guerra, cfr. fra i tanti, ALBERTO DE BERNARDI – LUIGI GANAPINI, Storia d’Italia 1860-1995, pagg. 177 e ss.
- In merito all’art. 78 della Costituzione del 1948, vd. sub. art. cit. VEZIO CRISAFULLI – LIVIO PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, Cedam, Padova, 1990, nonché COSTANTINO MORTATI, La Costituzione in senso materiale, 1940.
- Per le discussioni sullo stato di emergenza del Covid ’19 vd. il D.L. n. 6 del 23.2.2020 e la relativa critica sullo stato d’emergenza, su diritto.it, 2021, del prof. PAOLO GENTILUCCI.