CONTENUTO
“Sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato in pace dopo morto”, Benito Mussolini (Vita di Arnaldo, a cura di Gian Guglielmo Rebora, Edizioni FPE, Milano, 1966)
Il cimitero del Musocco
Dove fosse stato sepolto il cadavere di Mussolini era un po’ il segreto di Pulcinella. In quella Milano di fine aprile-inizio maggio 1945, straripante di gioia per la liberazione ed insieme di pianti per i lutti subiti e rancori per una guerra e gli stenti che nessuno avrebbe voluto, erano in parecchi che passando in bicicletta da Viale Certosa buttavano lo sguardo verso il Cimitero del Musocco dove sapevano era conservato il Duce del Fascismo, lanciando una maledizione al momento in cui aveva decretato che un’ora segnata dal destino batteva nel cielo della nostra patria.
Qualche ragazzino più coraggioso eludendo il controllo dei partigiani che stazionavano da quelle parti proprio per tenere lontano i curiosi ed i parenti dei tanti fascisti i cui corpi giacevano ammonticchiati, si spingeva verso il Campo numero 16, per curiosare tra le tombe sperando di trovare una traccia, chessò, un segno su una croce, terra mossa in una certa particolare maniera, così che il giorno successivo si sarebbe potuto far bello con gli amici fingendo la massima complicità: “è la quarta della terza fila, ti giuro, l’ho vista”. Altri, adulti, quando la vigilanza si allentò, non mancarono di gesti di vero e proprio vilipendio su quella parte di camposanto che custodiva i corpi di quello che era stato il Duce del fascismo e dei suoi ultimi fedelissimi in fuga, Claretta Petacci compresa.
Il Duce era interrato in una fossa anonima, individuabile solo dalla numerazione “384”, in quel campo isolato, destinato alle sepolture comuni, fuori dalle mura del cimitero, che nel tempo aveva preso ad ospitare prima caduti nazisti e poi i fascisti della Repubblica Sociale Italiana (RSI).
Mussolini vi era giunto tra numerosi cadaveri nella serata del 30 aprile, a seguito del compimento dell’autopsia, dopo il bieco spettacolo della mattinata precedente in Piazzale Loreto. Qui una folla inferocita si era radunata, insultando e oltraggiando il cadavere di lui, quello di Claretta Petacci, del fratello di lei Marcello e di altri quindici gerarchi fascisti che cercavano la fuga, incluso quello che era stato il “braccio destro” nella gestione della Repubblica Sociale, Francesco Maria Barracu, e chi lo era stato in precedenza, Achille Starace.
Strano destino quello di quest’ultimo: una figura nota e controversa, celebre e dileggiato per il suo fanatismo e per la sua dedizione alla propaganda del regime. Marginalizzato nel 1939 e sostituito alla segreteria del Partito, non aveva avuto alcun ruolo nella RSI. Non si era però allontanato dall’Italia, viveva a Milano e forse sperava di essere stato dimenticato. Ma così non era: catturato un paio di giorni prima e sommariamente processato, venne accompagnato al Piazzale e lì, non senza aver salutato romanamente il corpo di Mussolini già penzolante a testa in giù, si trovò immediatamente dopo fucilato ed affiancato a lui nella macabra esposizione su un traliccio di un distributore di benzina.
Ricomposti alla bene e meglio, e trasferiti da Piazzale Loreto all’Istituto di Medicina Legale di Via Ponzio nel pomeriggio di domenica 29 aprile 1945 da una squadra di partigiani del distaccamento “Canevari” della brigata “Crespi”, si doveva decidere dove traslare in via definitiva i corpi. Le autorità del nuovo governo repubblicano si trovarono a dover gestire la sepoltura del fu dittatore in un clima di forte tensione sociale e politica, come i fatti di Piazzale Loreto avevano indicato. Volevano chiudere rapidamente la vicenda e la scelta di un luogo defilato e anonimo rispondeva da una parte all’esigenza di evitare assembramenti di nostalgici e dall’altra possibili disordini.
Domenico Leccisi ed il Partito Fascista Democratico

Domenico Leccisi era nato a Molfetta, in provincia di Bari, il 20 maggio 1920. Si può dire quindi che sia diventato grande con il Fascismo. Cresciuto a Milano, fu un fervente seguace fin dalla giovane età. Il Duce in vita, ebbe modo di incontrarlo in due occasioni: nel 1933 come avanguardista a Forlì e nel 1944 come collaboratore del giornale della Federazione Fascista Milanese, quando riuscì con soddisfazione a stringergli la mano. La terza occasione risultò tristemente macabra, e si presentò nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946, al momento di aprire la bara in legno e di trafugare dal cimitero di Musocco il corpo di Mussolini.
Con la caduta definitiva del regime era sorta una galassia di gruppuscoli di “nostalgici”, che si rifacevano in vario modo all’ideologia e all’esperienza del ventennio mussoliniano, vuoi per il fascino che continuava ad esercitare la figura del Capo, soprattutto tra coloro che avevano vissuto gli anni del regime come un periodo di benessere e di orgoglio nazionale, sia per il timore dell’avanzata del Partito Comunista Italiano (PCI). La forte presenza dei comunisti all’interno del movimento partigiano rendeva ipoteticamente possibile in Italia una decisa “sterzata a sinistra” politica, spingendo molti a cercare una risposta nell’estrema destra.
Leccisi aveva a sua volta creato un suo “partito” (se così può definirsi l’incontro iniziale di una squadra di attaccati ai fati del Ventennio – oltre a lui Mauro Rana e Antonio Parozzi -), chiamandolo con un ossimoro, vista l’evoluzione della ideologia dal ’19 al periodo successivo: Partito Fascista Democratico. Aveva anche un organo di informazione clandestino: “Lotta Fascista”. Il pensiero si ispirava al concetto elaborato nella RSI di “democrazia organica” (o anche democrazia corporativa), basata sull’archetipo di una società organizzata in “organi” o “corporazioni” che esprimono i diversi interessi economici e sociali, tanto che i rappresentanti delle diverse corporazioni eleggono essi (e non i cittadini votanti) i vari organi deliberativi e legislativi statali. D’altronde Leccisi era stato attivo nella Repubblica Sociale, cui aveva aderito convintamente, scrivendo per i giornali di Salò e ricoprendo l’incarico di responsabile dei servizi di vigilanza per l’Unione Provinciale dei Lavoratori di Milano.

Non è che nel periodo tra la Liberazione ed il singolare trafugamento della salma il gruppo avesse preoccupato più di tanto la Questura meneghina: modeste azioni dimostrative, come l’incendio dei cartelloni del film Roma città aperta nel 1945 o l’inno fascista Giovinezza in Piazza del Duomo emesso da altoparlanti temporaneamente sottratti da altri scopi per i quali erano lì disposti.
Il furto della salma di Mussolini
L’azione del Musocco fu quindi l’operazione più clamorosa che il PFD pose in atto, e lo scopo era innanzitutto proprio quello di esaltare il primo anniversario della morte di Mussolini (il 23 aprile era la vigilia dell’anniversario della fine, avvenuta a Giulino di Mezzegra); poi, secondo quanto racconterà lo stesso Leccisi: “sottrarre la salma agli oltraggi degli antifascisti”, ma soprattutto riaffermare la presenza fascista nell’Italia del dopoguerra. Il trafugamento della salma, avvenuto a poche settimane dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946, fu un modo per dimostrare che l’autoritarismo non era scomparso e che la battaglia politica continuava.
Va pure aggiunto che, come lo stesso Leccisi racconterà, l’intenzione sarebbe stata quella di agire il 28 di aprile, ma avendo avuto notizia che dal giorno 24 la guardia al cimitero sarebbe stata raddoppiata, egli scelse di anticipare l’azione. Rimane il fatto che l’evento ebbe una forte risonanza mediatica e contribuì ad alimentare il mito; inoltre, mise in imbarazzo il governo italiano, che si trovò a dover gestire una situazione delicata in un momento cruciale della transizione politica del paese.
Bisogna dire che è pur vero che tal volta la fortuna aiuta. Nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946 Leccisi ed i suoi due complici, Rana e Parozzi, ebbero l’impresa facilitata da diversi fattori: una rivolta nel carcere di San Vittore che impegnò e distrasse le forze di polizia; la disattenzione dei due guardiani posti a vigilanza del cimitero (uno pare dormisse sereno nel suo letto di casa, mentre l’altro sonnecchiava nella stanza delle riunioni) e naturalmente il fatto che la cassa era stata interrata, anziché posta in un loculo di cemento.
Parcheggiata una Aprilia di colore nero (che servirà poi per il trasporto) a fianco del muro di recinzione nei pressi dell’ingresso principale, scavalcata la cinta, i tre si diressero verso il campo 16, individuando il terreno interessato ed iniziando le operazioni di scavo, dopo essersi attrezzati con arnesi di sterro trovati in un ripostiglio. Un paio di colpi di vanga e la cassa di legno si sfaldò senza opporre resistenza. Riconosciuto il Duce (chissà se anche loro al pari di Starace lo avranno omaggiato con il saluto romano), la salma venne posta su di un telo da tenda e quindi, adocchiata nei pressi una carriola adatta alla bisogna, lì adagiata. Si trattò poi di dirigersi velocemente verso l’uscita, scavalcare il muto trascinando il corpo e sistemarlo nel bagagliaio della Aprilia, mettere in moto ed allontanarsi verso il luogo prescelto per l’occultamento del cadavere.
Il giorno successivo la sorpresa. Nel cratere scavato, i guardiani trovarono i resti della cassa divelta ed una copia di “Lotta Fascista”, il giornale utile a dichiarare che la paternità doveva essere ascritta al Partito Fascista Democratico. I segni del percorso effettuato per il trasporto all’interno del cimitero erano evidenti: nel tragitto, il cadavere, in stato di decomposizione, lasciò tracce di materia organica e due ossa delle falangi. “Sorpresa grossa stamane all’alba al cimitero di Musocco” scrisse la Stampa di Torino. Il Corriere della Sera, che è “il” quotidiano di Milano, non poté essere da meno: “LA SALMA DI MUSSOLINI TRAFUGATA” titolò con i più classici dei caratteri cubitali, riportando nell’articolo anche un raccapricciante dettaglio che poi risulterà non veritiero: “non tutti i resti (…) sono stati asportati. Il fondo della cassa (…) contiene uno stivalone con dentro la relativa gamba”.
Le indagini per scoprire i colpevoli e recuperare il corpo
Le indagini iniziarono immediatamente. Furono affidate al Questore di Milano, Vincenzo Agnesina, che – come vuole uno dei numerosi paradossi di quel periodo di transizione e di mancate epurazioni nella macchina burocratica statale – era stato il responsabile della sicurezza personale del Duce a Villa Savoia il 25 luglio del 1943, giorno in cui questi fu arrestato dai carabinieri.
Fu affiancato dal capo della Squadra di Polizia Politica, Niola, ma anche da quello della Mobile di Roma, Marocco, appositamente inviato dal socialista Romita, ministro dell’Interno nel governo De Gasperi, che da parte sua pensò bene di lanciare chiari messaggi ai trafugatori: “saranno applicate le disposizioni del luglio 1945, che prevedono una procedura rapida per l’applicazione di sanzioni severissime, fino alla pena capitale”, ma nel contempo, in caso di un auspicato pentimento:” la mia politica è di indulgenza per gli ex-fascisti ravveduti che non ostacolano la ripresa democratica del Paese”. Presto giunsero a Milano il Vicecapo della Polizia in persona, De Cesare, ed il capo della “Scientifica” del tempo, Sorrentino.
Già, ma su quali ipotesi lavoravano gli investigatori? Non mancò chi pensava ad una iniziativa dei familiari, che proprio un paio di mesi prima avevano richiesto di riunire nel cimitero di Predappio, cittadina di origine di Mussolini, la salma a quelle dei suoi genitori. Maggior credito venne dato però ad un colpo realizzato da fascisti, valorizzando la “firma” (il giornale clandestino) lasciata in loco. Naturalmente vennero effettuati arresti e fermi “a strascico”, per muovere le acque e condurre qualcuno a parlare o a rilasciare confidenze, e non mancò lo “scaricabarile”, allorquando il Capo della Polizia Ferrari indicò che la vigilanza cimiteriale rientrava nella competenza della Polizia Municipale milanese, che non si era dimostrata particolarmente collaborativa. Il primo a cedere nella rete fu Rana, il che indusse Leccisi a valersi dell’aiuto di un altro simpatizzante, Fausto Gasparini, già appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana, prontamente arruolato quale collaboratore.
“Lotta fascista”, il giornale di Leccisi, venne indicato come uno dei tre organi di informazione clandestini conosciuti alla Polizia (assieme a “Il covo” ed “Il Popolo d’Italia”), ma al momento nessun collegamento con il suo fondatore fu apparentemente realizzato. Si dovrà attendere la fine di luglio (e far passare senza eccessivi scossoni il referendum del 2 giugno precedente, nel quale quel corpo introvabile di Mussolini fungeva da convitato di pietra) per avere qualche pista investigativa più concreta, che portasse chiarezza in una ridda di voci ed ipotesi.
A fornire uno squarcio di luce fu Gasparini, il quale iniziò a fare qualche dichiarazione alla Polizia, facendo rinvenire la chiave di una cassetta di sicurezza ove erano stati occultati alcuni tranci di vestiti con il quale era originariamente abbigliato il cadavere di Mussolini. Di seguito anche Domenico Leccisi, sua moglie ed Antonio Parozzi furono arrestati. Ad essi seguì un altro complice nell’impresa, Giorgio Muggiani. Sarà quest’ultimo a fare il nome di un frate francescano coinvolto nella vicenda. Si trattava di padre Enrico Zucca, priore del convento di Sant’Angelo a Milano. E naturalmente la presenza di un prelato aggiunse ulteriore sale alla vicenda. E questi non sarà l’unico a vestire il saio coinvolto nella vicenda.
Muggiani e Gasparini furono un fiume in piena: gli inquirenti scoprirono che il corpo del Duce, dopo il trafugamento, era stato inizialmente trasportato nella casa di montagna di Rana, a Madesimo in Valtellina, per essere dopo pochi giorni collocato nel convento francescano di Sant’Angelo in via Moscova a Milano. Al nome di padre Zucca si aggiunse quello di frate Alberto Parini, che era il fratello dell’ex podestà di Milano, Piero. A quel punto i due frati vennero messi “sotto torchio” dai poliziotti, e finalmente il 12 agosto condussero gli investigatori alla Certosa di Pavia, dove alla fine il corpo del Duce aveva trovato sistemazione, lì trasportato dai due frati, preoccupati dalla responsabilità di averlo “in casa” dopo che il cerchio si era stretto su Leccisi e compagni.
Così – nel complesso edificato sul Naviglio Pavese per volontà di Caterina Visconti, moglie di Galeazzo signore di Milano, per un voto fatto alla Madonna l’8 gennaio 1390 e progettato attorno al XIV secolo da Bernardo da Venezia – occultato in un armadio a muro di una cella, gli investigatori rinvennero infine un baule, avvolto in due sacchi gommati, all’interno del quale erano custoditi i resti di quello che era stato il Capo del Governo italiano per più di venti anni ed un proclama del Partito Fascista Democratico, inneggiante al giorno in cui “gli augusti resti” sarebbero “ascesi alla gloria del Campidoglio”.
E qui di seguito si pose l’ennesimo problema: che farne di questo corpo? Lungi l’idea di consegnarlo alla famiglia, l’accordo tra il Governo ed il Cardinale di Milano Alfredo Ildefonso Schuster (che pure qualche imbarazzo lo avrà provato per il coinvolgimento dei due frati) fu di nasconderlo in una cappella del convento dei padri Cappuccini di Cerro Maggiore, un paese vicino a Milano, ove rimarrà conservato per undici anni, al pari del segreto sulla collocazione.
Le condanne per il trafugamento del corpo di Mussolini
La vicenda giudiziaria non lasciò molti strascichi. Domenico Leccisi fu condannato a sei anni di reclusione, ma poco dopo beneficiò dell’amnistia “pacificatrice” di Togliatti. Dopo 21 mesi di prigionia fu liberato e, grazie alla notorietà ottenuta, venne eletto in Parlamento nel 1953 nelle liste del Movimento Sociale Italiano ottenendo 12mila voti, ricoprendo la carica di Onorevole per dieci anni complessivi. È morto il 2 novembre 2008 a Milano, all’età di 88 anni.
I due religiosi furono accusati di complicità, ma vennero poi scagionati. Degli altri simpatizzanti del Partito Fascista Democratico si persero le tracce. Per quanto riguarda il corpo di Mussolini, come noto, dopo il “purgatorio” di undici anni a Cerro Maggiore fu consegnato alla famiglia nel 1957 durante il governo di Adone Zoli e traslato definitivamente nel cimitero di San Cassiano a Predappio, così ponendo la parola fine alla sua profezia su quanto gli sarebbe accaduto dopo morto.
BIBLIOGRAFIA
- Pasquale Scarpa, Cronistoria di una salma famosa e diario di 42 giorni di carcere, Seti, 1946.
- Fabrizio Bernini, Il baule del Duce, Edizioni Guardamagna, 2003.
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- Domenico Leccisi, Con Mussolini prima e dopo piazzale Loreto. Così trafugammo la salma del Duce, Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed., 1991.