CONTENUTO
Tommaso Moro: origini e formazione culturale
I primi decenni del XVI secolo sono cruciali per la nascita dell’Europa moderna. Il rinnovamento promosso dall’Umanesimo italiano si diffonde in tutto il continente e una nuova generazione di intellettuali si adopera per demolire definitivamente quel che resta della cultura medievale, con il suo ascetismo e le sue ristrettezze, iniziando a guardare il mondo da una prospettiva diversa. Ad animare gli intellettuali di questo secolo vi è da una parte la fiducia nella bontà naturale dell’uomo e dall’altra il bisogno di ritornare ad una religiosità più semplice e meno asfissiante.
Tra questi emerge la figura di Tommaso Moro, nome italianizzato di Thomas More, che nasce a Londra il 7 febbraio del 1478. Gli anni che vanno dal 1490 al 1500 rappresentano il periodo cruciale per la sua formazione culturale. Appena tredicenne diventa paggio presso la dimora di John Morton, Cancelliere d’Inghilterra, dove sfrutta l’opportunità di imparare i primi rudimenti dell’arte di destreggiarsi abilmente nel mondo politico e nobiliare del tempo.
Il giovane studia poi le discipline umanistiche ad Oxford; lì compone i suoi primi versi e inizia la sua lunga amicizia con Erasmo da Rotterdam, con il quale condivide i programmi di riforma politica e religiosa, ispirati al Vangelo e ai valori umanistici.
Vita pubblica e privata di Tommaso Moro
Nel 1501, incerto sulla strada da intraprendere, prende dimora presso la Certosa di Londra per testare la sua vocazione religiosa e contemporaneamente inizia la sua carriera di professore di diritto e di avvocato. A partire dal 1504 diventa membro della Camera dei Comuni e sposa la diciassettenne Jane Colt, figlia di un gentiluomo di campagna, abbandonando definitivamente ogni prospettiva di una possibile vita consacrata interamente a Dio.
Nel corso degli anni Jane gli da quattro figli ma muore precocemente all’età di ventitré anni. Un mese dopo la sua morte Moro prende in sposa la quarantenne Alice Middleton, anche per la necessità della cura dei quattro figli ancora molto piccoli.
Negli anni successivi Moro prosegue brillantemente la sua carriera forense e diplomatica, tanto che tra il 1515 e il 1516 soggiorna alcuni mesi nei Paesi Bassi come membro di una missione diplomatica. Proprio nel corso di questo viaggio compone il trattato Utopia che viene pubblicato a Lovanio nel mese di dicembre.
La carriera politica e diplomatica di Moro si avvia verso i più alti vertici del potere politico, a diretto contatto con il sovrano e con i suoi più stretti collaboratori, tanto che nel 1521 assume la carica di Cancelliere dello Scacchiere e vicetesoriere d’Inghilterra, svolgendo in tali vesti importanti missioni diplomatiche[1].
Tommaso Moro al servizio di Enrico VIII Tudor
Come consigliere e segretario di Enrico VIII Tudor, Moro contribuisce alla redazione de “La difesa dei sette sacramenti“, una polemica contro il riformatore Martin Lutero e la dottrina protestante, in difesa dell’istituzione del Papato, che fa guadagnare al sovrano inglese il titolo di “Difensore della fede”.
Tommaso Moro offre sempre pieno supporto alla Chiesa romana e giudica come un’eresia la Riforma Protestante, vista come una minaccia all’unità sia della cristianità, sia della società civile. Confidando “nelle possibilità della teologia, nella capacità di confronto e nelle leggi ecclesiastiche della Chiesa, egli leggeva l’appello di Lutero contro la Chiesa cattolico-romana come una vera e propria chiamata alle armi”[2].
Le prime azioni di Moro contro la Riforma si concretizzano nell’aiuto che egli offre al Lord Cancelliere e arcivescovo di York, il cardinale Thomas Wolsey, nel prevenire l’importazione in Inghilterra dei libri di Martin Lutero, facendo spiare sospetti protestanti, specialmente editori, e arrestando chiunque possedesse, trasportasse o commerciasse testi che riguardavano la Riforma. Egli, inoltre, ostacola vigorosamente tutti i ministri di culto che operano nel Paese e che usano la traduzione in inglese del Nuovo Testamento.
Tommaso Moro Cancelliere d’Inghilterra
Quando il cardinale Wolsey non riesce a ottenere per Enrico VIII l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona ed è costretto a dimettersi nel 1529, il suo posto viene preso proprio da Moro. Esperto di diritto canonico, oltre che fervente cattolico, l’umanista considera l’annullamento del matrimonio come una questione che ricadeva completamente nella giurisdizione del papa Clemente VII.
Dal rifiuto del pontefice riguardo la concessione dell’annullamento deriva tutta una serie di reazioni da parte di Enrico VIII, che portano all’audace decisione del re di considerarsi l’unico capo della Chiesa d’Inghilterra. Il clero è obbligato a pronunciare un giuramento di Supremazia con il quale il sovrano viene dichiarato unico capo della Chiesa.
Non appoggiando la politica matrimoniale del sovrano, Moro, il 16 maggio 1532, preferisce dimettersi dalla carica di Cancelliere del Regno, piuttosto che continuare a prestare i suoi servigi ad un re ormai dichiaratamente anti-papale.
Arresto e morte per decapitazione di Tommaso Moro
Nonostante ciò Moro viene chiamato a prestare giuramento nell’aprile del 1534 e a causa del suo rifiuto è accusato di tradimento ed imprigionato nella torre di Londra. Nei mesi di prigionia continua a scrivere, così come aveva sempre fatto nel corso della sua vita, e resta fermo sulla sua posizione, resistendo alle insidie degli interrogatori e alle pressioni strazianti dei familiari che lo esortano innumerevoli volte a salvarsi la vita con un facile compromesso.
In una lettera scritta in carcere e inviata alla figlia Margaret traspare molto bene quella che è l’integrità morale del personaggio:
“Sapessi, Margaret, quante e quante notti insonni ho trascorse, mentre mia moglie dormiva o credeva che fossi anch’io addormentato, a passare in rassegna tutti i pericoli cui potevo andare incontro: spingendomi così lontano con l’immaginazione che ti assicuro che non può accadermi niente di più grave. E mentre ci pensavo, figlia mia, sentivo l’animo oppresso dall’angoscia. E tuttavia ringrazio Dio che, nonostante tutto, non ho mai pensato di venire meno al mio proposito, anche se fosse dovuto accadermi il peggio che andava raffigurandomi la mia paura”[3].
Rimasto irremovibile fino alla fine, Tommaso Moro con stoica serenità sale sul patibolo il 6 luglio 1535, “conscio di morire suddito fedele del re, ma innanzi tutto di Dio”[4].
“Utopia”, la società perfetta sognata da Tommaso Moro
La fama di Tommaso Moro è legata, oltre che al suo grande spessore umano e intellettuale, soprattutto alla sua opera Utopia, pubblicata nel 1516, con la quale conia un nuovo termine nato dall’unione di due parole del greco antico ou-topos, ovvero “luogo che non esiste”. Il trattato viene composto ad Anversa, durante una pausa nel corso di un’estate densa di impegni politici e diplomatici, e di incontri con gli amici umanisti. Il vocabolo utopia si è diffuso da allora e nella nostra epoca se ne fa uso quando si vuole indicare un’idea o un progetto buono in sé, ma irrealizzabile.
Utopia è un trattato molto singolare poiché ha l’aspetto, specialmente nel secondo libro, di un romanzo filosofico, mentre nel primo prevale l’aspetto dialogico. Le credenze filosofiche e politiche di Moro sono enunciate da un filosofo di nome Raffaele, il quale riferisce ciò che avrebbe visto nell’isola Utopia, durante uno dei viaggi compiuti dall’esploratore Amerigo Vespucci.
Il punto di partenza dell’autore inglese per la sua opera è la critica delle condizioni sociali nell’Inghilterra del suo tempo. L’aristocrazia terriera, infatti, ha sostituito alla coltura dei cereali i pascoli di montoni, dalla cui lana ricava un reddito maggiore. I contadini vengono cacciati dalle case e dai poderi e non li resta altra scelta se non l’accattonaggio ed il furto. Moro parte proprio dall’analisi di questa situazione per vagheggiare una riforma radicale dell’ordinamento sociale.
Nell’isola di Utopia dunque: la proprietà privata non esiste; “la terra è coltivata a turno dagli abitanti che sono tutti addestrati nell’agricoltura e si danno il cambio nelle campagne ogni due anni; l’oro e l’argento non ricoprono molta importanza all’interno dell’economia; ognuno ha un proprio mestiere e appositi magistrati vigilano affinché nessuno viva nell’ozio; i cittadini lavorano soltanto sei ore al giorno e dedicano il resto del tempo alla cultura o al divertimento; la vita umana è considerata sacra, ragion per cui non esiste la pena di morte e la cultura del popolo è tutta rivolta all’utilità sociale”[5].
Tutti gli abitanti coltivano principalmente le scienze positive e la filosofia, e inoltre integrano le proprie conoscenze razionali con i principi della religione, riconoscendo che la ragione non può da sola condurre l’uomo alla sua vera felicità. Per questa gente i principi veri e propri della religione sono l’immortalità dell’anima e il premio o il castigo dopo la morte a seconda della propria condotta nella vita terrena. Gli utopi ritengono poi che la sola guida naturale per l’uomo sia il piacere e che su tale guida si fondi lo stesso sentimento di solidarietà umana.
Tuttavia ciò che realmente caratterizza l’isola di Utopia è la tolleranza religiosa. Tutti riconoscono “l’esistenza di un Dio creatore dell’universo e autore del suo ordine provvidenziale, e ognuno lo concepisce e lo venera a modo proprio”[6]. La fede cristiana coesiste dunque con tutte le altre, e nessuno può violare la libertà religiosa di un’altra persona. Nell’isola è vietata soltanto la dottrina degli atei che nega l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina; nonostante ciò chi la professa non è punito, ma gli viene soltanto impedito di diffondere la propria credenza.
La morale attribuita da Tommaso Moro a questa popolazione incarna l’ideale umanistico di una piena conciliazione fra valori mondani e religiosi. In contrapposizione alla morale rinunciataria di epoca medievale, che intravede nel disprezzo dei beni del mondo terreno la virtù massima, queste persone seguono una “morale voluttuosa” che considera una virtù il “vivere secondo natura”[7] e che pone come fine primario per ogni uomo la ricerca del massimo piacere per sé e per gli altri.
Questa nuova morale del piacere è ancora fondata essenzialmente sulla religione, ma si tratta di una religione ridotta a pochi principi che hanno una funzione morale: assicurare nell’aldilà i “premi per le virtù e i castighi per le colpe”[8].
Infine la morale del piacere non solo assicura la felicità individuale, ma la concilia anche con le esigenze del bene collettivo: la solidarietà fra gli uomini si basa quindi su un sentimento naturale e razionale di piacere che si prova nel momento in cui si aiutano gli altri individui.
L’idea di un’utopia, cioè di una società perfetta ed immaginaria usata come termine di paragone ideale per criticare la società reale in cui si vive, viene ripresa alla fine del secolo dal filosofo calabrese Tommaso Campanella nella sua “Città del sole”, mentre il richiamo ad una religione ridotta a pochi principi essenziali ha un seguito nel deismo del seicento e in quello di alcuni illuministi come Voltaire.
Note:
[1] T. Moro, Utopia, Editore Demetra, Prato, 2010, p. 11.
[2] Tommaso Moro, in Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Tommaso_Moro.
[3] Ibidem.
[4] Utopia, cit., p. 12.
[5] N. Abbagnano, G. Fornero; Protagonisti e testi della filosofia, Volume B, Tomo 1; Mondadori; Milano, 2000, p. 69.
[6] Ibidem, p. 70.
[7] Letteratura. Letterature Volume B, cit., p. 166.
[8] Ibidem.
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- Tommaso Moro, Utopia, Feltrinelli Editore, 2016.