CONTENUTO
Il contesto storico e sociale nel quale crescono Tiberio e Gaio Gracco
Per poter affrontare il periodo che vede protagonisti i due fratelli Tiberio e Caio Gracco occorre innanzitutto riassumere le trasformazioni economiche e politiche avvenute nel mondo romano prima del loro avvento, confrontandosi peraltro con un non indifferente problema relativo alle fonti poiché tra esse quelle contemporanee o di poco posteriori sono avare di informazioni e in particolar modo di informazioni non inquinate da una certa faziosità dovuta all’appartenenza di ceto, mentre le fonti maggiori, come Appiano e Plutarco, sono ben posteriori e anch’esse si prestano a ricostruzioni spesso viziate nella forma e nella sostanza (Appiano ad esempio è ricco di anacronismi).
Il conflitto tra patrizi e plebei iniziato già pochi anni dopo il passaggio dalla monarchia alla repubblica, aveva condotto ad una parificazione giuridica tra queste due classi in seguito alla quale si era forgiata una nuova classe aristocratica all’interno dello Stato romano. Il culmine si era avuto forse con la lex Hortensia del 287 a.C., promulgata dal dittatore Quinto Ortensio, la quale disponeva che il concilium plebis presieduto dai tribuni, avesse facoltà di decretare leggi valide per l’intera cittadinanza. Ulteriori conflitti tra i due ordini, avevano poi spinto il dittatore, ad equiparare i plebiscita alle leges rogatae del senato.
Una volta ottenuto ciò, i plebei più ricchi ridussero il conflitto di classe e le richieste in favore dei diritti della porzione di plebei più povera ma non mancò tuttavia una politica democratica favorevole alla plebe rurale. Infatti nel 232 a.C., Caio Flaminio, tribuno della plebe, attraverso un plebiscito assegna l’agro pubblico gallico piceno ai piccoli contadini senza l’autorizzazione del Senato mentre nel 218 a.C., la Lex Claudia de senatoribus obbliga i senatori a non possedere navi con una capacità maggiore di 300 anfore, estromettendo di fatto i senatori dai commerci e privilegiando i ceti dei commercianti nel tentativo di definire in maniera netta i due ordini dei senatori e degli equites.
Nonostante ciò, come si è detto pocanzi, gli spazi di lotta della plebe si riducono fortemente e un sintomo importante di questo lo abbiamo nel fatto che il tribunato della plebe perde molto del suo carattere rivoluzionario, trasformandosi in una tappa della carriera politica dei giovani nobili, una sorta di trampolino di lancio per ottenere una iniziale visibilità nell’agone politico e raccogliere gruppi di sostenitori. Il senato, inoltre, controlla di fatto l’operato di diversi tribuni, utilizzando il loro potere di veto per paralizzare proposte politiche scomode.
La Roma che esce dalle guerre puniche nella prima metà del II secolo è profondamente diversa da quella di circa un secolo prima per i frutti dell’egemonia ottenuta sul Mediterraneo anche se a goderne sono soprattutto i ceti sociali elevati, l’aristocrazia e il ceto equestre, a discapito delle classi sociali più deboli e in particolar modo dei piccoli contadini, che costituiscono ancora il nerbo dell’esercito romano.
Innanzitutto il tributum ovvero l’imposta straordinaria gravitante sulle proprietà viene abolita favorendo gli aristocratici che tradizionalmente vedono nell’investimento agrario lo sbocco privilegiato dei loro patrimoni. Gli equites iniziano ad arricchirsi con le loro societas publicanorum per la riscossione delle imposte nelle province, riscossione che spesso sfocia in vessazioni ai danni dei provinciali, in connivenza con i governatori di rango senatorio.
Il ceto economicamente benestante composto appunto dagli equites oltre che da ricchi plebei accresce la propria ricchezza anche con le attività commerciali, per le quali un territorio così vasto e variegato offre enormi possibilità e ciò porta ad un’ulteriore saldatura di interessi con i membri delle classe dirigente romana che nell’amministrazione dei loro patrimoni fruiscono dei servizi di schiavi e liberti orientali con competenze commerciali e finanziarie e attraverso di loro, cooperando con banchieri e finanzieri appartenenti al ceto equestre, investono grandi patrimoni in attività mercantili.
Oltre a ciò i patrimoni vengono investiti anche nel settore immobiliare tramite l’acquisto soprattutto di edifici urbani a scopo abitativo (le insulae, dove dimorava la maggior parte dei cittadini appartenenti agli strati medio-bassi della popolazione cittadina).
Paradossalmente i semplici legionari, i contadini-soldato, rappresentanti della grande tradizione bellica (e non solo) del popolo romano, sono coloro i quali non solo rimangono esclusi dai grandi vantaggi dell’imperialismo mediterraneo ma anzi spesso perdono le loro modeste proprietà finendo per proletarizzarsi, andando ad ingrossare le fila della plebe urbana, serbatoio di clientes per gli aristocratici.
Tuttavia occorre precisare che nonostante le disparità appena elencate e il fatto che i generali aristocratici sono spesso restii a condividere il bottino con i soldati, le campagne militari di conquista condotte fuori dai confini italici rappresentano comunque occasioni di arricchimento per i soldati e sicuramente l’immagine dello scontento contadino italico trascinato forzatamente lontano dalle sue terre per combattere in nome di Roma è frutto anche di una strumentalizzazione utilizzata a scopo politico da una parte dei tribuni della plebe per far pressione sul senato.
L’impoverimento dei contadini va nel lungo periodo a danno della stabilità e del buon funzionamento dell’esercito, fulcro del potere romano, poiché il reclutamento avviene su base censitaria e sempre più si sta accrescendo la classe che non ha un censo sufficiente all’arruolamento (i cosiddetti capite censi o nullatenenti) ma a questo si aggiungono altri fattori, ad esempio durante le campagne annibaliche in Italia, il problema della carenza di effettivi è propriamente numerico a causa del massacro dei romani nelle disfatte subite dal generale cartaginese.
Nel corso dei decenni si è quindi dovuto ricorrere all’abbassamento delle soglie minime di patrimonio necessarie per l’arruolamento (coloro che vi rientravano erano detti adsidui), che passano da 11 mila a 4 mila assi e fino a soli 1500 assi nel periodo dei Gracchi, aprendo infine, almeno nei periodi di maggiore necessità, all’arruolamento dei nullatenenti ai quali gli armamenti vengono forniti dallo Stato stesso (oltre che nei casi più gravi, come quello della calata di Annibale in Italia, addirittura all’arruolamento degli schiavi “volontari” detti appunto volones).
Ciò a conferma del fatto che la progressiva proletarizzazione della milizia cittadina si presenta come un fenomeno complesso e dovuto a diversi fattori attraverso i decenni, non esclusivamente connesso con l’impoverimento dei piccoli proprietari terrieri.
Lo stesso Tiberio strumentalizzerà queste problematiche nel duplice intento di ingraziarsi i favori della plebe, spostando la questione su tematiche economiche, e di porre la questione nei termini corretti verso i membri dell’aristocrazia, paventando un indebolimento della macchina bellica romana a causa del loro comportamento predatorio.
Per quanto riguarda la questione agraria se seguiamo le fonti possiamo notare che probabilmente il definitivo affermarsi del grande latifondo non avverrà prima dell’epoca sillana, consolidandosi poi sotto Cesare e Augusto: Appiano infatti sembra riportare all’epoca graccana dati riguardanti questi periodi successivi e lo stesso Catone nel De Agri Cultura propone una media proprietà di 100 iugeri da coltivare per la vite e 250 iugeri per l’olivo, con la cerealicoltura al solo scopo di sussistenza.
Con questo non si può comunque escludere il fatto che in quel periodo la piccola proprietà inizia effettivamente a intaccarsi e, problema ancora più grave, le nuove grandi sezioni che si vengono via via ad aggiungere all’agro pubblico grazie alle conquiste sono occupate indebitamente dai grandi proprietari terrieri ma anche dai soci italici; terreno pubblico che dopo anni di occupazione viene a volte alienato divenendo di fatto terreno privato.
A ciò si va ad aggiungere secondariamente il fatto che, in particolar modo dopo gli anni di guerra sul territorio italico durante la seconda guerra punica, il suolo coltivabile è stato depauperato e rovinato e il recupero di esso, che comporta spesso grandi costi, può essere condotto unicamente da proprietari abbienti.
Infine i ricchi latifondisti sono avvantaggiati dall’immensa quantità di manodopera servile apportata dai numerosi schiavi catturati che rende inutilmente costoso il reimpiego dei contadini espropriati nei latifondi. Questi ultimi quindi oltre a perdere la proprietà della terra trovano difficoltoso reimpiegarsi come lavoratori e braccianti (anche se pure questo punto va ridimensionato se si considera che i braccianti agricoli liberi sono ancora ben presenti, insieme alla piccola proprietà, e infatti saranno tra i maggiori beneficiari dell’opera dei Gracchi).
In ultima analisi, gli sviluppi imperialistici della società romana senza dubbio allargano la forbice sociale e i piccoli proprietari subiscono una profonda contrazione della propria economia, senza peraltro dimenticare il processo di emigrazione e inurbamento verso Roma; d’altro canto non siamo ancora nel momento del picco di tali problematiche che si avrà a partire da Augusto, affliggendo la società romana fino al periodo tardo antico.
La situazione politica a Roma: ottimati e populares
Da ultimo è necessaria anche una breve disamina della situazione politica che si è andata delineando nella repubblica, la quale innanzitutto ha visto le fazioni e i gruppi politici presenti nell’agone politico romano coagularsi nelle due tendenze degli Ottimati e dei Populares.
In secondo luogo le pratiche di governo e di scontro politico si sono irrigidite ed esacerbate e paradigmatico, da questo punto di vista, è il nuovo valore che assume lo strumento del senatus consultus, tradizionalmente utilizzato per indirizzare l’azione politica dei magistrati maggiori, che diventa nella forma del senatus consultum ultimum un delicato metodo tramite il quale, sul presupposto di un pericolo eccezionale per la repubblica, si permette solo sulla base del giudizio del magistrato e della connessa delibera senatoria di sospendere le garanzie di libertà e di tutela giuridica per i cittadini e, in particolar modo, di esonerare i magistrati dal rispetto della provocatio, garanzia fondamentale per il cittadino romano.
Esso viene sperimentato alla fine del III sec. a.C. durante un complotto, peraltro con tutta probabilità inventato ad arte, ordito in seno ai gruppi aderenti ai culti dionisiaci provenienti dalla Grecia e ormai ampiamente diffusi sul territorio italico. E’ però in occasione delle vicende relative ai Gracchi che questo tipo di provvedimento mostra tutti i pericoli che portava con sé.
Nel contesto descritto già il console Gaio Lelio nel 140 a.C. aveva lanciato la proposta di distribuire agro pubblico alla plebe rurale per risollevarne le sorti economiche, ritirandola prontamente di fronte ai malumori degli aristocratici.
Ma la grande rottura di Tiberio Gracco (e ancora più incisivamente di suo fratello) è rappresentata dal fatto che la sua politica viene condotta come un attacco graffiante alle strutture costituzionali di Roma in una maniera che un cittadino romano difficilmente avrebbe potuto tollerare (ad esempio la deposizione dell’altro tribuno Ottavio, di cui parleremo a breve, rappresentò qualcosa di profondamente turpe ed empio nella mentalità romana).
Tiberio Sempronio Gracco: adolescenza e inizio della carriera
Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 163 a.C., è membro di una delle gens più eminenti della nobiltà romana ed è stato educato in giovinezza dal noto retore Diofane di Mitilene. Il padre omonimo ha svolto un’importante carriera politica, mentre la madre Cornelia è nipote di Scipione l’Africano, il grande condottiero che aveva trionfato su Annibale durante la seconda guerra punica, nonché di Emilio Paolo, vincitore dei macedoni a Pidna (egli era fratello di Emilia, la madre di Cornelia).
Il padre di Tiberio muore nel 154 a.C. e non appena il giovane ha raggiunto l’età consentita entra nel collegio degli auguri, carica ricoperta prima della morte dall’illustre genitore. In seguito approda alla questura in Spagna nel 137 a.C., dove intraprende una serie di sfortunate campagne contro i numantini al seguito del console Ostilio Mancino il quale, a causa delle sconfitte riportate, è consegnato dagli stessi romani come prigioniero ai vincitori.
Tiberio diventa tribuno della plebe nel 133 a.C. e secondo Plutarco alla notizia dell’elezione la città di Roma si riempe di scritte che incitano Tiberio alla riforma agraria.
La riforma agraria di Tiberio Gracco
Tiberio tenta subito di far passare una lex agraria, che ha l’obiettivo di redistribuire le terre ai piccoli proprietari, con l’appoggio del suocero Appio Claudio, del console Publio Muzio Scevola, del pontefice massimo Publio Licinio Crasso Dive Muciano. Tale riforma stabilisce che non si possono occupare più di 500 iugeri di ager publicus (1 iugero equivale all’incirca a 5 ettari), che possono essere estesi, per un totale massimo di 1000 iugeri, di altri 250 iugeri per ogni figlio del proprietario; inoltre questo possesso viene trasformato in effettiva proprietà privata (Plutarco menziona anche un indennizzo da corrispondere agli espropriati ma questa ipotesi è ritenuta dagli storici poco probabile).
L’agro pubblico eccedente, sarebbe stato distribuito ai cittadini richiedenti, da una commissione di tre uomini, i triumviri agris dandis, rinnovabile ogni anno e con poteri esecutivi: gli assegnatari avrebbero goduto del possesso del suolo, corrispondendo un vectigal (un tributo sotto forma di canone annuo) e non avrebbero potuto rivenderlo perché inalienabile (ciò per impedire che i latifondisti potessero far pressione sui piccoli proprietari per tornare in possesso delle terre appena riassegnate).
La legge, oltre ad intaccare gli interessi dei latifondisti, è sostanzialmente invisa anche agli italici che non essendo cittadini vengono esclusi dalle ridistribuzioni e li sono confiscate le terre che appartengono al suolo pubblico delle quali hanno mantenuto il possesso i proprietari dei fondi italici preesistenti; la riforma d’altro canto ottiene il forte appoggio del ceto rurale e anche di una parte consistente dell’aristocrazia romana.
Il vero ideatore di questa riforma, a quanto riportato da Cicerone nel De Amicitia sembra sia stato l’italico Blossio di Cuma, grande amico e consigliere di Gracco, che è stato discepolo ad Atene del filosofo stoico Antipatro di Tarso, e ad essa contribuisce probabilmente anche il già citato Publio Mucio Scevola ricordato come uno dei più eminenti e citati giuristi di epoca repubblicana (anche se probabilmente l’apporto di Blossio fu sopravvalutato da Cicerone, nell’ottica di esporre la tesi che l’influenza greca, in questo caso dello stoicismo, permeasse eccessivamente la condotta degli aristocratici romani, eccessivamente ellenizzatisi nel corso del II secolo a.C.).
Bisogna subito sottolineare come la legge di per sé non sia così rivoluzionaria: ricalcando alcune normative precedenti come ad esempio la Lex Licinia del 145 a.C. essa mira più che altro a prevenire le occupazioni abusive di suolo pubblico, offrendo peraltro ai grandi possessori di trasformare in proprietà privata le terre pubbliche; nonostante ciò si deve tenere presente che Tiberio assume, come vedremo, diversi comportamenti al confine delle possibilità concesse dall’assetto costituzionale romano.
Innanzitutto egli presenta la sua legge agraria senza sottoporla al senato (fatto invero che non suscitò eccessivo scalpore poiché vi erano alcuni precedenti come ad esempio la legge agraria riguardante la Gallia Cisalpina di Gaio Flaminio Nepote oppure il plebiscito del tribuno Valerio Tappone del 188 a.C. che concedeva la cittadinanza piena alle comunità italiche di Fondi, Formia ed Arpino), la Lex Hortensia come già sottolineato ha infatti riconosciuto ai plebisciti la piena validità legale per tutta la cittadinanza anche senza approvazione del senato.
Il senato del resto utilizza come “arma” per limitare questa legge uno o più degli stessi tribuni (che all’epoca erano ormai in numero di 10), spinti ad utilizzare l’intercessio (cioè il loro potere di veto) per bloccare le proposte dei loro colleghi.
In questo caso gli oppositori si rivolgono al tribuno della plebe Marco Ottavio e il fatto che si rivolgano solamente a lui tra tutti i tribuni conduce subito alla riflessione che la legge agraria venga sottovaluta oppure che abbia un ampio consenso anche nel ceto aristocratico.
Dopo un accorato discorso pubblico di Tiberio Gracco (che Appiano e Plutarco riportano ma in maniera estremamente idealizzata sia nella forma che nei contenuti), trascorrono diversi giorni di aspri dibattiti che comportano un ritardo nel momento della votazione della legge; ciò dà modo a molti cittadini romani rurali o comunque provenienti dai territori esterni all’Urbe di giungere in città per le votazioni (fatto insolito poiché il viaggio per le votazioni aveva dei costi e dei tempi oltre a togliere giorni di lavoro cruciali agli abitanti delle campagne e dei piccoli villaggi e normalmente veniva compiuto solo nel caso di votazioni estremamente importanti).
Quindi stabilito il giorno della votazione della legge, Ottavio pone il veto scatenando una dura invettiva nei suoi confronti da parte di Gracco che lo accusa di avere interessi personali nel bloccare la votazione della legge. Quest’ultimo rinvia poi la votazione al primo giorno disponibile secondo il calendario romano e proclama lo iustitium, un istituto che prevede la sospensione di tutte le attività pubbliche di tutti i magistrati, ad esclusione dei tribuni della plebe, minacciando di ritirarlo solo se Ottavio avesse a sua volta ritirato il veto: stavolta Tiberio agisce in maniera più netta e inusuale rispetto alle consuetudini costituzionali, ponendosi con un’ostilità che può essere fatta risalire ai primi scontri dei tribuni a difesa della plebe nel pieno del conflitto con i patrizi (l’ultimo iustitium infatti si era avuto nel 296 a.C.).
La fazione aristocratica non si lascia però intimidire e si arriva al giorno della nuova assemblea in un condizione di forte tensione, con Ottavio che pone nuovamente il veto e rende necessario rimandare nuovamente la seduta. Questa volta però Tiberio mette in atto il primo vero strappo significativo rispetto alle possibilità costituzionali, mettendo ai voti l’ulteriore proposta di deporre dalla carica Ottavio con la motivazione, piuttosto speciosa, che non può essere tribuno della plebe chi durante la sua carica agisce contro gli interessi del popolo.
Questa decisione risulta non solo figlia di un’accusa molto grave ma è anche illegale e contraria alle leggi oltre che alle norme di condotta del mos maiorum, svilendo l’elemento divino e religioso che accompagna l’investitura dei magistrati (il tribuno della plebe era sacro e inviolabile e la sua carica era sancita da una lex sacrata, cioè giurata dalla plebe con un particolare tipo di giuramento detto sacramentum), che viene soverchiato, fatto ancor più grave agli occhi dei senatori, dalla sovranità popolare; non c’è quindi alcuna valida motivazione per cui Tiberio possa dichiarare decaduto il collega mentre il veto di Ottavio, seppur discutibile, rientra totalmente nelle sue prerogative.
Gracco riesce comunque a far approvare questa disposizione e a far eleggere un suo alleato come nuovo tribuno (poiché il collegio tribunizio doveva sempre essere a pieno organico, ricorrendo se necessario anche alla cooptazione dei membri mancanti), dopodiché vennero eletti i triumviri deputati all’esecuzione della lex agraria, anch’essa approvata: gli eletti sono lo stesso Tiberio, il fratello Caio e Appio Claudio, suocero di Tiberio.
Il senato tenta subito di ostacolare la legge già quando si rende necessaria l’approvazione di fondi e altre condizioni materiali necessarie ai triumviri per svolgere il loro lavoro (ad esempio una sede), che vengono negati su proposta del pontefice massimo Scipione Nasica, cugino di Tiberio ma suo profondo oppositore.
Lo scontro si inasprisce quando al Senato vengono comunicate le disposizioni testamentarie del re di Pergamo Attalo III che ha lasciato il suo regno in eredità del popolo romano. Tiberio, venuto a sapere con anticipo del fatto grazie ai buoni rapporti che suo padre aveva avuto con la dinastia attalide in passato, anticipa il senato presentando una legge secondo la quale il denaro di Attalo III deve essere destinato al finanziamento della riforma agraria e le nuove terre entrate a far parte del patrimonio del popolo romano comprese in quelle da ridistribuire con la legge agraria.
Nell’opinione di Tito Livio sembrerebbe che Tiberio avesse solo avanzato una proposta, non fatto votare una legge al popolo, il che fa un’enorme differenza poiché in questo secondo caso avrebbe definitivamente fatto sconfinare la sovranità popolare nel campo della politica finanziaria ed estera di Roma, da sempre appannaggio del senato, rompendo gli equilibri su cui si regge la repubblica da tre secoli.
La tentata rielezione e la morte di Tiberio Gracco
Dopo questo ulteriore affronto si moltiplicano gli attacchi a Tiberio da parte dei senatori e non solo. Tale clima induce Tiberio a tentare di essere rieletto come tribuno della plebe, per assicurarsi l’inviolabilità fisica e legale, prerogative del tribunato.
La reiterazione della carica di tribuno nell’anno successivo a quello in cui ha ricoperto la carica è però l’ennesimo atto sconfinante nell’incostituzionalità di cui si macchia, incostituzionalità ribadita nel 180 a.C. dalla Lex Villia annalis che regola l’età di accesso alle magistrature integrando la Lex Genucia del 342 a.C. che impone un intervallo di dieci anni per poter ricoprire la stessa magistratura (seppur nei fatti queste norme erano state disattese già più volte).
Tiberio per assicurarsi la rielezione comincia a propagandare un nuovo programma per accattivarsi ulteriormente il popolo (proposte come ad esempio la limitazione della durata del servizio militare e la riforma delle corti giudicanti con un’equa ridistribuzione tra senatori e cavalieri) visto che essendo giunta l’estate molti dei cittadini appartenenti alla plebe rurale, che lo avevano sostenuto votando la legge agraria, sono rientrati nei loro luoghi di origine, rendendo molto incerta la sua rielezione.
Tumulti imputati ai sostenitori di Tiberio scoppiano nel corso dell’assemblea tenutesi per l’elezione del nuovo tribuno delle plebe, sospesa e rimandata più volte, nel frattempo al senato, di fronte all’indecisione dei consoli nel far emettere un senatus consultus ultimum contro Tiberio, Scipione Nasica si prende la responsabilità di compiere una spedizione punitiva con i suoi sostenitori invocando il diritto di difendere Roma dalla violazione sacrilega dei sostenitori di Tiberio di non portare armi all’interno del pomerio (eventualità su cui le fonti non sono attendibili perché probabilmente viziate da faziosità, sia da parte di Appiano che di Cicerone che giustifica le azioni di Nasica ritenendole un’azione patriottica). Gli scontri terminano con circa 300 vittime, tra cui lo stesso Tiberio, i corpi delle quali sono gettati nel Tevere.
Durante l’anno successivo un tribunale straordinario emette diverse condanne per i graccani, avvalendosi dell’istituto del senatus consultus ultimum, ma nonostante ciò la legge agraria rimane in vigore, seppur sostanzialmente disapplicata, complice anche la difficoltà tecnica non indifferente nell’esecuzione della riforma stessa, in particolar modo a causa dei confini incerti delle terre pubbliche.
Le riforme promosse da Gaio Gracco
Nel 123 a.C. e successivamente nel 122 Gaio Sempronio Gracco, fratello minore di Tiberio, viene eletto a sua volta tribuno della plebe, riprendendo l’attività di riforma del fratello ma all’interno di una cornice molto più ambiziosa e di rottura rispetto a quella di Tiberio e che avrebbe investito i principi stessi su cui si basava l’assetto sociale, economico e istituzionale della Repubblica.
Innanzitutto Gaio Gracco recupera la legislazione agraria tiberiana con la Lex Sempronia agraria, rivitalizzando il lavoro dei triumviri agris dandis e forse diminuendo il tetto dei 500 iugeri per i grandi possessori, oltre a prevedere con la Lex Sempronia viaria una serie di infrastrutture stradali nei territori rurali italici per sostenere il ripopolamento delle campagne.
Con una serie di leggi sono poi riprese tutte le linee del programma dei populares inerenti una forte ripresa della creazione di colonie romane (legislazioni nel complesso nota come Lex de coloniis deducendis), tra cui quella di Taranto, per sostenere il ripopolamento del territorio agricolo pugliese, e a Capua per fare lo stesso nei territori campani.
Con la Lex Rubria de colonia Carthagine deducenda si stabilisce la fondazione di una nuova colonia anche a Cartagine mentre con la Lex Sempronia de provincia Asia si toglie il controllo al senato degli appalti per le imposte nelle ricchissime province d’Asia. Infine, sullo stesso solco, si inserisce la Lex Sempronia de provinciis consularibus che obbliga il senato a sorteggiare quali province fossero assegnate ai futuri consoli prima delle elezioni, eliminando un possibile veicolo di clientelismi.
Tutti questi provvedimenti si inseriscono in un disegno più ampio che sottrae al senato la sua tradizionale competenza nella gestione delle province romane e della politica estera tout court, configurandosi come un attacco diretto al potere di quest’organo.
Ancora più pericoloso per esso è l’approvazione della legge (ma forse furono due successive) chiamata Lex Sempronia iudiciaria che comporta l’estromissione dal controllo della questio de repetundis, tribunali competenti per i reati di corruzione e concussione, reati di cui si macchiano spesso i governatori provinciali di rango senatorio abusando del loro potere e trovando una sponda nel fatto di essere giudicati da loro pari; con questa legge i tribunali sono composti non più da senatori ma da membri del ceto equestre (o forse da metà e metà), questo anche nel tentativo di creare una saldatura di intenti fra i popolari e il ceto equestre a cui viene assegnato un controllo sul ceto senatorio stesso.
Da un altro punto di vista ma sempre sullo stesso piano, si pongono una serie di leggi che mirano a riaffermare i principi di legittimità e libertà dei cittadini, clamorosamente violati nel corso degli ultimi decenni e in particolar modo in occasione del tribunato di Tiberio Gracco.
Perciò innanzitutto si esclude la repressione di reati non definiti tramite leggi comiziali, poi con la Lex Sempronia de capite civis Romani si riafferma il ruolo di controllo dei comizi per i casi di applicazione della pena capitale, con la Lex de tribunis reficiendis si rende legale la rielezione di un tribuno in carica per l’anno successivo (misura di cui beneficiò immediatamente Gaio stesso) e si interviene sui comizi centuriati prevedendo il sorteggio dell’ordine di voto delle centurie per metterle, seppur solo formalmente, su un piano di parità.
Con tutte queste norme si mette in discussione, con ancora più vigore di quanto è stato fatto da Tiberio, il fondamento aristocratico dello stato romano promuovendo il ruolo degli equites, la parte benestante ma non aristocratica della società, ma soprattutto una più radicale forma di partecipazione popolare, assimilabile in qualche modo all’esperienza delle poleis greche, veicolata sia dal maggiore protagonismo legislativo dei comizi tributi e dei più equilibrati comizi centuriati sia dalla figura sempre più determinante del tribuno della plebe che cessa di essere una figura prevalentemente di controllo dell’altrui governo in funzione negativa e di tutela degli interessi della plebe per divenire attivamente il promotore di un progetto politico.
Alle leggi appena citate ne vanno aggiunte diverse altre, globalmente conosciute come Leges Semproniae, tra cui:
– Lex Sempronia militaris per mettere ufficialmente a carico dello stato le spese per l’equipaggiamento dei soldati (in passato era accaduto in occasioni straordinarie per fornire il necessario ai nullatenenti), introducendo anche un limite di età per l’arruolamento;
– Lex Sempronia de Popilio Lenate per giudicare appunto il console Popilio Lenate che aveva istituito i processi contro i seguaci di Tiberio Gracco senza l’autorizzazione dei comizi;
– Lex Sempronia de sicariis et veneficiis e Lex Papiria de tresviris capitalibus con cui si estendevano le fattispecie per la repressione criminale e si interveniva sul processo penale;
– Lex Sempronia de novis portoris relativa alla politica doganale e al controllo dei conti dei pubblicani, per evitare abusi di chi riscuoteva le imposte;
– Lex Acilia repetundarum relativa alla composizione dei comizi centuriati e ad alcuni aspetti del diritto processuale.
Infine una menzione a parte merita la Lex Sempronia frumentaria con cui si sarebbe approvvigionato il popolo romano a basso costo, assegnando a ciascun cittadino romano una certa quantità di grano ad un prezzo politico o addirittura gratuitamente (la base di quella che sarà l’annona durante l’impero). E qui è interessante aggiungere una piccola digressione poiché proprio fino al II secolo a.C. Roma non aveva dei fornai di professione e il pane si cuoceva nei forni di casa.
Gradualmente i piccoli forni domestici vengono sostituiti da forni professionali, gestiti da artigiani specializzati chiamati pistores, soprattutto liberti o cittadini di bassa condizione sociale. La svolta importante si ha proprio in seguito al provvedimento graccano, che cambia per sempre la professione del fornaio, dato che come conseguenza di questa legge i pistores ottengono dallo Stato sgravi fiscali, contributi economici per avviare la loro attività e il diritto di cittadinanza romana in cambio della fornitura di una certa quantità prestabilita di grano, per tre anni consecutivi (tutto questo per la necessità di disporre della quantità di grano stabilita dalla legge frumentaria).
Ciò comporta che i fornai si riuniscono in una corporazione professionale, il collegium pistorum, che assume un ruolo sempre maggiore arrivando a stipulare con le autorità contratti di fornitura sempre più redditizi, dal momento che il numero dei destinatari della legge andrà sempre aumentando nel corso della storia romana.
Infine Gaio propone di dare anche la cittadinanza agli italici ma l’opposizione è fortissima e Gaio non viene rieletto; anzi è costretto a difendersi dall’accusa di aver dato nuovamente una colonia a Cartagine, atto ritenuto infausto se non addirittura empio.
Il giorno in cui si presenta per difendersi scoppiano dei tumulti; il console Opimio reprime la sedizione e Scipione Nasica, l’assassino di Tiberio Gracco, viene messo in fuga. Gaio si rifugia sull’Aventino per una resistenza armata ma Opimio promette l’immunità ai suoi seguaci che quindi decidono di abbandonarlo al suo destino.
Gaio Gracco decide dunque di farsi uccidere dal suo schiavo Filocrate e al suo funerale a sua madre viene vietato persino di vestirsi a lutto.
Ragioni del fallimento di riforma ed eredità di Tiberio e Gaio Gracco
La sconfitta di Gaio Gracco e il fallimento del suo progetto politico sembrano legati innanzitutto alla precarietà del blocco politico e sociale da lui costruito in funzione antisenatoria e fondato sull’alleanza con il ceto equestre. La convergenza di interessi fra gli equites e l’aristocrazia senatoria, legata alla politica imperialistica e di conseguenza allo sfruttamento delle province, alle possibilità commerciali e alla riscossione delle imposte, è destinata a prevalere sui vantaggi a breve termine dell’alleanza dei primi con Gracco.
Inoltre si possono cogliere anche le contraddizioni insite nel disegno politico graccano il quale se da un lato favorisce la politica di risanamento sociale e i ceti rurali tramite la fondazione di colonie e la distribuzione di terre ai piccoli agricoltori dall’altro approva la legge frumentaria con cui si foraggia una plebe urbana parassitaria e subalterna che compone le grandi clientele degli aristocratici imponendo inoltre inevitabili oneri sui provinciali per mantenere le distribuzioni gratuite e aggravandone così la situazione sulla falsariga dell’atteggiamento tenuto dai ceti dirigenti.
Sicuramente la lungimiranza di Gaio traspare dal successivo problema che aveva intenzione di affrontare e cioè quello della cittadinanza agli italici, sulla cui fedeltà e sulle cui risorse si era basata una gran parte del successo di Roma, specialmente nei momenti di difficoltà, e che ora volevano beneficiare dell’ingresso nella vita pubblica e politica romana per svariate ragioni tra cui la partecipazione economica al grande benessere scaturito dallo sfruttamento delle province in vari ambiti, ambiti in cui la cittadinanza romana diveniva un fatto cruciale.
Inoltre si rendeva odiosa psicologicamente agli alleati italici la situazione di essere posti sullo stesso piano dei provinciali dopo aver sostenuto Roma nella sua espansione a danno di questi ultimi.
Da questo punto di vista il progetto graccano non era peraltro eccessivamente audace, si prevedeva di concedere la cittadinanza romana ai Latini che già godevano del conubium e del commercium con Roma e di assimilare invece gli italici ai Latini, garantendo ad essi i privilegi ora appannaggio di questi ultimi. La proposta si infranse però contro il veto posto da Livio Druso, sostenuto per altro anche da quella parte di popolo minuto che aveva sostenuto i Gracchi, rendendo evidente come la questione della cittadinanza spaventava e stimolava gli egoismi del popolo romano in generale.
La questione della cittadinanza esploderà in tutta la sua centralità di lì a pochi a decenni con le guerre sociali mentre le politiche graccane vennero cancellate quasi totalmente in pochi anni, già con la Lex agraria epigraphica del 111 a.C. che riorganizzò il demanio pubblico, favorendo il consolidamento degli antichi possessi già trasformati in piena proprietà, cancellando inoltre il divieto di alienazione.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Luigi Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere. La formazione di un ordinamento giuridico, Il Mulino, 2009.
- Plutarco, Vite parallele. Agide e Cleomene-Tiberio e Caio Gracco, BUR, 1991.
- Luciano Perelli, I Gracchi, Salerno Editrice, 1993.