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Le fonti storiche sulla terza guerra punica
Prima di addentrarci nella narrazione delle vicende della terza guerra punica occorre fare una piccola digressione sulle fonti che ce ne conservano il ricordo. Per il periodo che copre interamente la parabola dei tre conflitti romano-cartaginesi, possediamo un’opera storica di un valore a dir poco inestimabile: le Storie di Polibio, autore greco che non solo visse in epoca contemporanea agli avvenimenti ma che fu anche intimamente legato alla famiglia degli Scipioni e, in particolare, alla figura di Scipione Emiliano che seguì nell’assedio di Cartagine proprio durante la terza guerra punica.
Polibio, dunque, godeva di un accesso privilegiato ad informazioni di prima mano su ciò che avvenne in Africa; tuttavia, la sua opera, se ci permette di ricostruire dettagliatamente le prime due fasi del conflitto romano-punico, al contrario ci è giunta molto frammentaria per gli anni 149-146 a.C.
Anche i libri dell’Ab urbe condita di Tito Livio sulla terza guerra punica sono sopravvissuti solo sotto forma di sintetico riassunto. Al contrario, completa è per noi la testimonianza dello storico greco Appiano di Alessandria che, nel II secolo d.C., dedicò un intero libro della sua opera sulla storia di Roma alle guerre puniche, il cosiddetto Libiké, “guerre d’Africa”; questo resoconto ci permette di ricostruire alcune parti mancanti di quello polibiano, di cui l’opera di Appiano è in larga parte dipendente.
Le origini della terza guerra punica
La terza e ultima fase del conflitto romano-cartaginese ha origine in alcune clausole del trattato di pace che aveva sancito la fine del secondo.
Dopo la vittoria su Annibale a Zama (202 a.C.) da parte di Publio Cornelio Scipione, da quel momento chiamato Africano, Cartagine si vede costretta ad accettare le seguenti condizioni di pace:
- la consegna di tutta la flotta (ad eccezione di 10 navi) e degli elefanti, il pagamento di una fortissima indennità (10.000 talenti) e la restituzione dei prigionieri;
- la cessione a Roma di tutti i possedimenti fuori dall’Africa;
- la restituzione a Massinissa, re dei Numidi e alleato dei Romani, dei territori che erano appartenuti ai suoi antenati;
- l’impossibilità di dichiarare guerra in Africa senza il previo consenso di Roma.
Negli anni successivi, nonostante la pesantezza di tale trattato, Cartagine riesce a riacquisire con notevole rapidità una floridezza economica tale da dirsi pronta a saldare, con largo anticipo sui termini previsti, l’indennità di guerra di 10.000 talenti. La rinascita cartaginese trova, tuttavia, un ostacolo ingombrante nella figura di Massinissa, il quale, approfittando del sostegno di cui gode da parte dei Romani, inizia ad espandere i confini del proprio regno ai danni dei Cartaginesi.
A suo favore giocano due fattori: da un lato, la vaghezza della clausola che stabiliva per lui la restituzione dei territori che erano stati dei suoi avi, senza però che i limiti di tali territori venissero definiti con chiarezza; dall’altro, lo stato di “impotenza bellica” in cui si trovava Cartagine, che, di conseguenza, non avrebbe potuto reagire ai suoi attacchi senza incorrere in una violazione del trattato di pace con Roma.
La terza guerra punica: “Carhago delenda est”
I Cartaginesi si rivolgono più volte ai Romani per chiedere il permesso ad intervenire contro i soprusi di Massinissa: nel 174 a.C., dopo che il re numida si è impossessato di un’ampia regione cartaginese, Roma invia un’ambasceria in Africa per dirimere la questione. Tra i legati romani figura anche Marco Porcio Catone, il famoso censore noto a tutti per il suo tradizionale conservatorismo: è proprio Catone che, rientrato a Roma, esprime in Senato la propria preoccupazione per la rapida ripresa della città nemica.
Carthago delenda est (“Cartagine deve essere distrutta”) è lo slogan che, da quel momento in avanti, Catone sosterrà con forza: solo così Roma potrà essere finalmente libera e al sicuro da una minaccia che, altrimenti, non cesserà mai di esistere.
Appiano scrive:
“Informato della situazione, il Senato prese la decisione di entrare in guerra, ma aveva ancora bisogno di pretesti e tenne segreta la sua decisione. Si dice che Catone, da quel momento, espresse continuamente in Senato l’opinione che Cartagine dovesse essere distrutta. Scipione Nasica era dell’opinione contraria che Cartagine dovesse essere risparmiata affinché la disciplina romana, che già si stava rilassando, fosse conservata per paura di lei”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 69)
La classe dirigente romana, dunque, sta prendendo consapevolezza della necessità di un nuovo e definitivo conflitto con Cartagine. Serve solo il pretesto per intervenire.
Lo scoppio della terza guerra punica
Nel 151 a.C. l’attesa di Roma viene finalmente ripagata. Dopo che Massinissa ha inglobato la ricchissima regione degli Empori, Cartagine, stanca delle continue prepotenze del Numida e dell’indifferenza romana, decide di prendere le armi: un esercito guidato dal generale Asdrubale viene inviato contro Massinissa, ma la spedizione ha un esito disastroso. In ogni caso, il trattato di pace del 201 a.C. è stato violato: Roma può dichiarare guerra a Cartagine.
Nel 149 a.C. il Senato invia in Africa un esercito imponente al comando dei consoli dell’anno, Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio, con l’ordine di non desistere dalla guerra fino a che Cartagine non sia stata rasa al suolo. Sbarcati in Africa, i Romani possono contare sulla base di Utica, la seconda città più importante del regno cartaginese, che si è spontaneamente consegnata a Roma. Anche Cartagine, dopo aver condannato a morte Asdrubale e coloro che erano a favore della guerra, cerca di venire a patti con i Romani: in un primo momento, i consoli chiedono la consegna di tutti gli armamenti.
I Cartaginesi acconsentono: secondo Appiano, i Romani ricevono armamenti completi per 200.000 uomini, oltre ad innumerevoli giavellotti e dardi e 2000 catapulte. Ma i consoli non si accontentano: se vogliono evitare la guerra e stipulare un accordo, i Cartaginesi devono abbandonare la città e trasferirsi a una distanza di almeno 10 miglia dalla costa. La richiesta è inaccettabile: per una potenza marittima quale è Cartagine, tale condizione comporterebbe la rovina della città.
Così Appiano descrive la reazione dei Cartaginesi:
“I Cartaginesi alzarono le braccia al cielo, con grida, e presero gli dei come testimoni dell’inganno di cui erano vittime, riversando sui Romani mille odiose maledizioni, sia che desiderassero la morte, sia che avessero perso il senno, sia che cercassero, provocando i Romani, di far loro commettere un abominevole attacco agli ambasciatori. E si gettarono a terra, battendosi le vesti e infliggendosi pene corporali, come se fossero in preda alla demenza. Quando finalmente la loro frenesia cessò, rimasero in un profondo silenzio, abbattuti: sembravano cadaveri distesi”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 81)
Allora Bannone, il più eminente dei notabili cartaginesi lì presenti, prende la parola e supplica i Romani di avere pietà di loro:
“Noi, che eravamo i padroni dell’Africa e di quasi tutti i mari, ci siamo impegnati contro di voi in una guerra per la supremazia. Abbiamo rinunciato a questo al tempo di Scipione, quando vi abbiamo consegnato la nostra flotta da guerra e tutti gli elefanti che avevamo a disposizione, e quando ci è stato richiesto di pagare un tributo che paghiamo puntualmente. Se è così, in nome degli dei per i quali fu allora giurata la pace, risparmiateci, risparmiate i giuramenti di Scipione, che giurò che i Romani sarebbero stati gli alleati e gli amici dei Cartaginesi! Non c’è nessuna violazione di questo trattato da parte nostra. Non abbiamo né navi né elefanti, e non si può dire che siamo in ritardo nel pagamento del tributo. […] Se avete pietà di noi, risparmiate il fuoco sacro della nostra città, risparmiate la sua piazza, risparmiate la dea protettrice del Consiglio, e tutti gli altri edifici, preziosi per coloro che sono ancora vivi e fonte di gioia per loro. Vediamo, quale timore vi può ancora ispirare Cartagine, quando possedete le nostre navi, le nostre armi e i nostri elefanti di cui eravate gelosi? In cambio, vi offriamo una soluzione migliore per noi e più gloriosa per voi. Lasciate in pace la nostra città, che non vi ha fatto niente; quanto a noi, che cercate di eliminare, sterminateci, se volete! Perché così facendo, il mondo penserà che state sfogando la vostra rabbia sugli uomini, non sui santuari, sugli dei, sulle tombe e su una città che non ha fatto nulla di male”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 83-84)
I consoli romani sono irremovibili, ma i Cartaginesi non possono accettare la loro richiesta: è guerra.
L’assedio di Cartagine: il primo anno di guerra (149 a.C.)
I Cartaginesi si preparano a resistere ad oltranza: ad Asdrubale viene revocata la condanna a morte e gli viene affidato il comando dell’esercito cittadino. Quella che per i Romani doveva essere un’azione militare facile e veloce si trasforma in un lungo e difficile assedio: a complicare la distruzione delle già forti linee difensive di Cartagine si aggiunge l’inadeguatezza dei comandanti romani.
Entrambi i consoli del 149 a.C. vanno incontro ad una disfatta: Lucio Marcio Censorino, che ha il comando della flotta, viene sconfitto mentre attacca la città dal lato del golfo di Tunisi; Manio Manilio, che è alla guida delle forze di terra, ha la peggio sia nell’assalto di Cartagine che nelle operazioni condotte sul territorio circostante.
L’ascesa di Scipione Emiliano
Nell’esercito romano milita come tribuno il giovane Scipione Emiliano, che era figlio naturale di Lucio Emilio Paolo, il vincitore del re macedone Perseo a Pidna, ma che era stato adottato dalla famiglia degli Scipioni; in entrambe le occasioni egli si distingue per la sua saggezza e la sua abilità militare, venendo in aiuto dei consoli. La fama di Scipione inizia a crescere sia in Africa che a Roma al punto che “sulla bocca di tutti fu proclamato come l’unico degno successore di suo padre, Paolo, il conquistatore della Macedonia, e degli Scipioni nella cui famiglia era stato accolto per adozione”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 101)
In Africa, l’Emiliano gode della simpatia e della fiducia di Massinissa: agli occhi del sovrano numida, infatti, l’alleanza stipulata ai tempi della seconda guerra punica con Scipione Africano trova un garante nella figura del giovane nipote adottivo. A lui Massinissa, ormai anziano e prossimo alla morte, si rivolge per avere un consiglio circa la spartizione del proprio regno tra gli eredi, ma Scipione arriva troppo tardi.
Giunto in Numidia, egli scopre che, in punto di morte, Massinissa ha dato ordine ai propri figli di obbedire alle decisioni di Scipione: così, il giovane Emiliano procede autonomamente a suddividere il regno tra i figli di Massinissa. Di lì a poco, Scipione riesce anche a guadagnarsi l’alleanza di Famea, il capo della cavalleria cartaginese.
Il secondo anno di guerra (148 a.C.) e l’elezione al consolato di Scipione Emiliano
Il console del 148, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, si dimostra ancora più incapace dei suoi predecessori: nel tentativo di prendere alcune roccaforti cartaginesi, fallisce miseramente. I Cartaginesi, forti dell’inefficienza romana, riacquistano sicurezza e confidano nella vittoria.
Nel frattempo, a Roma, Scipione Emiliano è pronto a presentare la propria candidatura per l’edilità: per l’età che ha, è questa la magistratura che può ricoprire secondo le regole del cursus honorum. Ma c’è un colpo di scena: i comizi, preoccupati dell’andamento della guerra in Africa, votano all’unanimità per Scipione l’elezione al consolato dell’anno successivo, il 147, senza che egli abbia l’età minima prevista dalla legge.
Inoltre, gli viene affidato il comando della guerra in Africa senza sorteggio; la norma, al contrario, prevedeva che le operazioni militari in corso venissero assegnate ai due consoli entranti mediante un’estrazione. In un attimo, il popolo romano ha aggirato due leggi fondamentali che regolavano l’accesso alle magistrature: prima di lui, anche Scipione Africano era stato acclamato console senza che avesse né raggiunto l’età minima necessaria né completato il regolare cursus honorum.
Così scrive Appiano:
“Tuttavia, quando si ricordarono [i comizi] i risultati ottenuti recentemente da Scipione, mentre era ancora tribuno militare in Africa, e li confrontarono con la situazione, e quando tornarono alla mente le lettere inviate loro dall’esercito da parenti e amici, tornarono in sé e si sentirono inclini a inviare Scipione a Cartagine come console. Poiché la cosa era illegale, i consoli produssero davanti a lui il testo della legge; ma il popolo insisteva e premeva, gridando che, secondo le leggi di Tullio [Tullio Ostilio, secondo la tradizione quarto re di Roma] e di Romolo, erano loro a decidere in modo indiscutibile sulla scelta dei magistrati e che in materia di leggi elettorali convalidavano o invalidavano ciò che volevano. Infine, uno dei tribuni disse che avrebbe ritirato l’organizzazione dell’elezione ai consoli se non fossero stati d’accordo con il popolo. E il Senato affidò ai tribuni il compito di abrogare la legge in questione e di reintrodurla dopo un anno […]. Fu così che Scipione, che era in corsa per l’edilità, fu eletto console, e il suo collega Druso gli ingiunse di tirare a sorte con lui per l’assegnazione dell’Africa. Infine, uno dei tribuni fece adottare un testo secondo il quale la scelta di questo comando sarebbe appartenuta al popolo. E il popolo scelse Scipione”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 112).
Scipione è rivestito di un imperium straordinario: infatti, ha il potere di arruolare, tra i Romani, tanti soldati quanti ne ha persi in guerra negli anni precedenti, tra gli alleati, quanti volontariamente si offrano; a tale scopo, ha anche il permesso di inviare lettere ai re e agli stati alleati in nome del popolo romano, secondo la propria discrezione.
Il terzo anno della guerra (147 a.C.): la svolta di Scipione
Arrivato in Africa, Scipione trova un esercito privo di qualsiasi ordine e disciplina. Consapevole del fatto che non potrebbe mai vincere i nemici senza avere una posizione autorevole sui propri soldati, li raduna e rivolge loro un duro discorso:
“[…]Quanto a voi, soldati, non avete che una parola d’ordine, comune a tutti in qualsiasi tipo di azione: la mia condotta e i miei sforzi. Con questa luce guida, il vostro zelo non andrà perduto, né la ricompensa vi sfuggirà. Per il momento, dobbiamo faticare mentre siamo in pericolo, e rimandare i profitti e le dolcezze dell’esistenza al momento giusto. Questo è ciò che il vostro generale e la legge vi ordinano di fare, e a coloro che sono obbedienti, essi concederanno in cambio molti vantaggi, mentre coloro che sono ribelli dovranno pentirsi”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 116).
In venti giorni e venti notti, l’esercito romano costruisce una roccaforte sull’istmo che congiunge Cartagine alla terraferma: da lì, i Romani riescono a bloccare tutti i rifornimenti che arrivano dall’entroterra. La città, però, continua ad avere un accesso facile al mare: Scipione, allora, fa realizzare un argine per chiudere l’entrata al porto dal lato ovest. La resistenza cartaginese inizia così ad essere fiaccata. In breve tempo, dunque, Scipione è riuscito là dove i suoi predecessori hanno fallito per due anni consecutivi: l’assedio di Cartagine è ad un punto decisivo.
Durante la primavera e l’estate del 147 a.C., lo scontro tra le due potenze continua a fasi alterne: per ogni colpo inflitto dai Romani, i Cartaginesi sono pronti a rispondere. Sul finire dell’estate, un’azione congiunta dei due consoli, Scipione e Gaio Livio Druso, permette all’esercito romano di prendere e devastare la città di Nepheris, dalla quale a Cartagine continuavano ad arrivare i rifornimenti. Al sopraggiungere dell’inverno le operazioni militari si interrompono, ma la fine di Nepheris ha inevitabilmente segnato la rovina di Cartagine.
L’ultimo anno della terza guerra punica (146 a.C.): la caduta di Cartagine
Nella primavera del 146 a.C. Scipione, a cui è stato rinnovato il comando della campagna in qualità di proconsole, torna all’attacco: questa è la volta definitiva.
Così Appiano descrive la caduta di Cartagine:
“Tutta la città era piena di gemiti, grida, urla e ogni sorta di agonia. Alcuni venivano pugnalati, altri venivano scagliati vivi dai tetti e cadevano a terra, alcuni addirittura si infilzavano sul ferro delle lance o altre armi appuntite o sulle punte delle spade. […] Altri furono visti ancora vivi, specialmente vecchi, donne e bambini piccoli che si erano nascosti negli angoli più interni delle case, alcuni feriti, altri più o meno bruciati, ed emettevano grida pietose. Altri ancora, spinti fuori e caduti da una tale altezza con le pietre, le travi e il fuoco, furono gettati in mille orribili sofferenze, schiacciati e maciullati. Né questa era la fine delle loro miserie, perché gli spazzini, che stavano rimuovendo la spazzatura con asce, zappe e forche, e rendendo le strade percorribili, gettavano con questi strumenti i morti e i vivi insieme in buche nel terreno, trascinandoli come bastoni e pietre e girandoli con i loro attrezzi di ferro. Le fosse erano piene di uomini. Alcuni che furono gettati a testa in giù, con le gambe che sporgevano dal terreno, si contorsero a lungo. Altri caddero con i piedi verso il basso e la testa sopra la terra. I cavalli li travolsero, schiacciando le loro facce e i loro crani, non di proposito da parte dei cavalieri, ma nella loro fretta e furia”.(Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 128-129)
Questa carneficina si protrae per sei giorni e sei notti, fino a quando alcuni Cartaginesi si presentano a Scipione cinti con le bende sacre di Esculapio, il cui tempio era il più ricco e il più famoso della città: essi supplicano il comandante romano affinché interrompa il massacro e risparmi i sopravvissuti. Anche Asdrubale, ormai consapevole dell’imminente rovina della città, si reca in segreto da Scipione in atto di supplica. Allora l’Emiliano gli si rivolge con queste parole:
“Guardate, soldati, com’è abile la sorte a fare degli uomini più irragionevoli un caso esemplare. Costui è quell’Asdrubale che poco fa sdegnava molte e generose offerte, dicendo che il più bel sudario è la patria e il fuoco che l’avvolge: ora è qui, con la ghirlanda del supplice, che ci prega di aver salva la vita e ripone in noi tutte le sue speranze. Chi non capirebbe, alla vista di questo spettacolo, che da esseri umani non si deve mai né dire né fare nulla di superbo?”. (Polibio, Storie XXXVIII, 20)
La moglie di Asdrubale, venuta a conoscenza dell’azione del marito, lo maledice come traditore della patria e delle divinità, poi uccide i figli gettandoli nel fuoco che stava consumando il tempio di Esculapio e vi si tuffa dopo di loro.
La sistemazione della provincia d’Africa e il trionfo di Scipione
Cartagine è così distrutta: Scipione concede ai soldati alcuni giorni per il saccheggio libero, ad eccezione dell’oro, dell’argento e degli oggetti consacrati, poi invia a Roma una nave veloce, abbellita con le spoglie nemiche, ad annunciare la vittoria.
A Roma, la notizia è accolta con un entusiasmo senza limiti:
“Quando il popolo di Roma vide la nave e seppe della vittoria, la sera presto, si riversò nelle strade e passò tutta la notte a congratularsi e ad abbracciarsi come persone appena liberate da una grande paura, appena confermate nella loro supremazia mondiale, appena assicurate della permanenza della propria città e vincitrici di una vittoria come mai prima. Avevano celebrato molte brillanti gesta proprie, molte altre dei loro antenati, in Macedonia e in Spagna e ultimamente contro Antioco il Grande, e nella stessa Italia; ma nessun’altra guerra li aveva così terrorizzati alle loro porte come le guerre puniche, che li avevano sempre messi in pericolo a causa della perseveranza, dell’abilità e del coraggio, oltre che della cattiva fede, di quei nemici. Ricordavano ciò che avevano subito dai Cartaginesi in Sicilia e in Spagna e nella stessa Italia per sedici anni, durante i quali Annibale aveva distrutto 400 città e ucciso 300.000 dei loro uomini solo in battaglia, marciando più di una volta fino alla città e mettendola in estremo pericolo. Riflettendo su queste cose, erano così eccitati per questa vittoria che stentavano a crederci, e si chiedevano continuamente se era proprio vero che Cartagine era stata distrutta […]”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 134)
Il Senato invia in Africa dieci legati affinché con Scipione procedano all’organizzazione della nuova provincia d’Africa. L’ordine è chiaro: tutto ciò che è rimasto di Cartagine deve essere distrutto, la città deve essere rasa al suolo. Così si compie la volontà di Catone.
Rientrato a Roma, Scipione celebra un trionfo senza precedenti: anche a lui viene concesso il soprannome di Africano; da quel momento, egli sarà l’Africano Minore, per distinguerlo dal nonno adottivo vincitore della seconda guerra punica, l’Africano Maggiore appunto.
La riflessione sulla translatio imperii
Di fronte alla rovina di Cartagine, il giovane Scipione prorompe in pianto, al pensiero che, prima o poi, la stessa sorte toccherà a Roma:
“Si dice che Scipione, vedendo la città finire allora nella rovina più completa, scoppiò in lacrime, e fu chiaro che piangeva per i nemici; rimase a lungo a meditare tra sé e sé e avendo compreso che città e popoli e tutti gli imperi devono mutare, come gli uomini, il loro destino – e questo destino patì Ilio, città un tempo felice, questo patirono i regni degli Assirii e dei Medi e dei Persiani, i più potenti del loro tempo, e l’impero macedone, che aveva da poco irradiato il suo più intenso fulgore [Alessandro Magno] –, o che parlasse per precisa volontà o che questi versi [appartenenti al VI libro dell’Iliade] gli siano sfuggiti, esclamò:
«giorno verrà che Ilio sacra perisca, e Priamo, e la gente di Priamo dalla buona lancia».
E quando Polibio chiese con franchezza – era stato, infatti, anche suo maestro [di Scipione Emiliano] – che cosa volesse dire con quelle parole, raccontano che Scipione, senza trattenersi, fece apertamente il nome della sua patria, per la quale tremava, se si fermava a guardare al destino delle cose umane. Questo riporta Polibio, per averlo udito di persona”. (Appiano, Storia romana. Le guerre d’Africa, 132)
Con queste parole Scipione si fa portavoce di quello che era il principio della translatio imperii: gli imperi non sono eterni, ma, come gli uomini, sono destinati a morire e la loro egemonia è destinata ad essere trasferita ad un nuovo impero, più giovane e più forte; così, il potere che ora è nelle mani di Roma un tempo era degli Assiri, poi dei Medi, poi dei Persiani e, da ultimo, dei Macedoni. Ma neppure Roma può sfuggire all’ineluttabilità di questo ciclo biologico: prima o poi si troverà a fare la stessa fine di Cartagine.
La fine del metus Punicus
In effetti, Scipione non aveva tutti i torti. Cent’anni dopo, lo storico Sallustio attribuirà proprio alla cessazione del metus hostilis, “la paura del nemico”, e nello specifico del metus Punicus, “la paura di Cartagine”, l’inizio della fine della repubblica romana: di questo parere, era già Scipione Nasica, il quale, nel dibattito in Senato, si era opposto vigorosamente alla posizione inflessibile di Catone il Censore a proposito della distruzione di Cartagine.
Secondo Sallustio era stata proprio la necessità di fronteggiare la minaccia cartaginese a rendere solida la concordia interna alla società romana. Eliminato il timore del nemico esterno, le divisioni interne si erano acuite al punto da sfociare in un secolo di guerre civili che, come sappiamo, causarono il definitivo declino della res publica.
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- Andrea Frediani, Le grandi guerre di Roma, Newton Compton Editori 2018.
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