CONTENUTO
Introduzione al libro: Tacuínum de’ hostaríe
Nella quarta di copertina di questo saggio dalle piccole dimensioni, Tacuínum de’ hostaríe, si legge quanto segue.
“Questo volume ripercorre la storia e le tradizioni gastronomiche dei viandanti di ogni tempo, dai commercianti dell’antica Roma ai pellegrini medievali, dai viaggiatori del Grand Tour ai gastronomadi contemporanei, proponendo cibi che rappresentano un baluardo della cucina semplice italiana: povera, fortemente diversificata, basata non sulla tecnica ma sulla conoscenza empirica e la trasmissione orale del sapere”.
Quanto appena sopracitato sintetizza l’argomento che si affronta all’interno del testo. La quarta di copertina del libro continua chiarendo meglio il punto nodale della sua argomentazione, come segue.
“Un tempo rifocillare viandanti, pellegrini e cavalieri in cammino provvedevano osterie e ospizi disseminati lungo le vie di comunicazione. Gli alimenti che venivano serviti in questi luoghi deputati all’ospitalità pubblica hanno sempre avuto le caratteristiche di essere economici, gustosi, di veloce preparazione e facile conservazione”.
Inoltre nell’ultima parte della quarta di copertina, che anticipa la parte finale del saggio, si legge quanto segue.
“Le oltre cento preparazioni qui raccolte, suddivise in base alle principali epoche (classica, medievale, moderna, contemporanea), sono presentate sia sotto l’aspetto storico tradizionale, sia con ricette tratte da fonti classiche o reinterpretate in chiave moderna”.
La trama e riassunto del libro: Tacuínum de’ hostaríe
Nelle culture primitive anche i gruppi che vivono isolati, che respingono o uccidono gli stranieri, possiedono una certa forma di ospitalità. In particolare nei confronti di coloro che credono abbiano forze magico-divine o che offrono messaggi o mercanzie di altri gruppi. Così si concede loro vitto, alloggio e protezione.
In seguito, con lo sviluppo della socializzazione, in Europa si affermano due tipologie di ospitalità privata. Nello specifico, l’ospitalità incondizionata che consiste nell’offerta a chiunque lo richieda di riparo e di cibo per gli animali, escluso il vitto. Mentre l’ospitalità amichevole offre al visitatore: cibo, bevande, un giaciglio ed altre comodità.
Con il tempo, per l’aumento del numero dei viandanti di tutti i ceti sociali, l’ospitalità privata si dimostra insufficiente, il che fa nascere le prime forme di ospitalità pubblica. In generale nell’Antichità europea il viandante, per qualsiasi ragione sia in viaggio, rappresenta una metafora di ricerca e scoperta della vita. Ad esempio nell’Antica Grecia il viaggiatore si considera come un messaggero degli dei.
I locali di pubblica ospitalità appaiono, dopo l’età omerica, presso i santuari e le città. Dal V secolo a. C. gli amministratori locali assegnano ai mercanti che giungono da lontano dei quartieri commerciali o portuali dotati di strutture per vitto, alloggio e magazzinaggio. Inoltre con lo sviluppo dell’economia monetaria si afferma in tutto il modo ellenico l’ospitalità professionale remunerata.
Questo mediante la diffusione nell’Antica Grecia di taverne e locande che offrono letti per la notte e ricoveri per gli animali. Verso il 400 a. C. queste strutture costituiscono un sistema affermato, diffuso nelle città portuali e commerciali, presso i santuari, le località termali e lungo le strade di grande comunicazione.
Nell’Antica Roma Repubblicana e poi con l’Impero vi sono molti locali d’ospitalità pubblica. Questi consistono in stanze dove si serve vino, edifici che offrono rifugio per la notte oppure rivendite di generi alimentari. Esistono nomi specifici che identificano i tipi di servizi che vi si offrono al loro interno. Questi locali non sono ben frequentati e ci va soprattutto gente di basso rango. All’interno di essi spesso si trovano anche delinquenti, malfattori, prostitute e per questa ragione non si trovano mai nei ricchi quartieri cittadini.
Inoltre i gestori di questi locali sono in massima parte liberti che pagano una pigione per il loro uso. Nel diritto dell’Antica Roma questa corporazione professionale si considera con ostilità. All’interno di questi locali malfamati si mangiano cibi cotti e caldi. Le pietanze sono semplici e a buon mercato. I clienti possono anche sorvegliare la cottura del proprio cibo oltre a consumarlo. Questo insieme al vino, focacce, uova, formaggi, frutta fresca, verdure e legumi. I più altolocati possono offrire anche zuppe di pesce o di carne. Il vino costa molto poco e si beve mescolato con acqua calda o fredda ed a volte insieme a miele e spezie.
Oltre alla funzione di ristoro questi locali ricoprono anche un ruolo sociale e contribuiscono ad accrescere l’economia dell’Antica Roma. Infatti dentro di essi si affermano le prime rivendite al dettaglio all’interno delle città. Quindi in queste strutture si offrono anche prodotti agricoli o artigianali (come frumento, pane, vino, gioielli e stoffe) ed i gestori ricoprono il ruolo di vigili custodi dei beni affidati dai loro clienti. In seguito con l’espansione dell’Impero Romano e del commercio il numero di questi locali cresce notevolmente.
Invece i membri delle classi elevate dell’Antica Roma difficilmente frequentano questi locali. Di solito essi si rivolgono ai loro pari dove ottengono ospitalità, vitto, alloggio e piacevole compagnia. Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente e del suo sistema economico e monetario, questi locali di ospitalità pubblica diventano molto rari. Così nei regni barbari e nel regno carolingio dei secoli VIII-IX si affermano nuovamente le forme primitive di ospitalità privata gratuita. Di conseguenza, ospitante e visitatore si ritrovano con un legame di mutuo e stretto rapporto.
L’ospitalità amichevole diviene però appannaggio soprattutto della nobiltà. Mentre l’ospitalità incondizionata, nella sua forma più semplice, che esclude l’offerta di cibo, si conserva tra i mercanti, i pellegrini e gli altri viaggiatori. Pertanto essi devono portare con sé le proprie provviste di cibo, oppure acquistarlo negli sporadici mercati o nelle ancora più rare taverne rimaste dall’epoca dell’Antica Roma.
Dal X secolo, però, con la lenta ripresa dei traffici commerciali, la mancanza di strutture adibite a nutrire i viaggiatori e i pellegrini si fa pressante. I grandi monasteri nonostante l’obbligo di ospitalità prescritto tra le loro regole, come in quella benedettina, devono limitare l’accoglienza per evitare problemi di sostentamento della propria comunità.
Così re ed abati tentano di creare luoghi di sosta, ospizi monastici e promuovono la riapertura delle taverne dell’epoca dell’Antica Roma. Se ne aprono nelle città, nei porti, nelle località meta di pellegrinaggi, o presso aree di sosta viaria. Così queste strutture divengono indispensabili per garantire l’offerta dei generi alimentari di prima necessità ed organizzare il mercato giornaliero dei piccoli centri. Questo fa sì che si acceleri il passaggio dall’ospitalità privata, fondata sul baratto, all’ospitalità pubblica strutturata sulla moneta. Nella fase di transizione i viandanti con poche disponibilità economiche in cambio del ristoro offrono servizi, come pulizie dei locali od aiuto nelle cucine.
Così facendo diventano luoghi che garantiscono notevoli guadagni ai proprietari. In particolare le taverne divengono oggetto di diritto signorile, pur rimanendo spazi malfamati, che frequentano gente di basso rango come contadini, piccoli mercanti e carrettieri frequenta. Questa tipologia di strutture, ch’è ancora molto simile a quella diffusa al tempo degli Antichi Romani, comincia però a cambiare tra l’XI e il XIV secolo, sotto la spinta del progresso economico e commerciale. Infatti attorno alle taverne si sviluppano sia interi villaggi che vere e proprie città.
Inoltre l’ospitalità amichevole e privata si allenta e diventano molto meno stretti i legami fra ospite e padrone di casa. Nelle città molte case private si trasformano progressivamente in strutture ricettive “professionali” destinate ad accogliere a pagamento ospiti. Pertanto si sviluppa un’offerta differenziata con strutture di buona, mediocre o pessima fama. Gli insediamenti più semplici si installano in case di legno o di pietra con un vano unico, nel quale accanto al fuoco trovano ricovero uomini e animali, assieme a mercanzie e oggetti vari. Di solito si tratta di dimore cittadine o rurali, più o meno confortevoli, ampliate con il passare del tempo. Nello specifico, solitamente, al piano terra ci sono magazzini di stallaggio ed un’ala interna, mentre al piano superiore ci sono stanze per il soggiorno ed il riposo.
Nel Trecento con l’incremento dei viaggi di commercio e di pellegrinaggio nascono le osterie. Queste ultime si ubicano nelle aree di passaggio o di commercio e ben presto diventano luoghi di incontro e di relazione sociale. Le strutture, generalmente dimesse e povere, acquistano importanza con l’incremento del giro d’affari. Il vino, che nei paesi del Nord Europa si sostituisce con la birra, è la loro principale fonte di guadagno intorno alla quale ruotano le altre, ovvero cibo e camere da letto.
In genere il menù è poco vario ed al viandante si concede anche di consumare gli alimenti contenuti nella propria bisaccia. Nelle osterie medievali i piatti proposti non sono certo raffinati ed elaborati, devono essere veloci da preparare e facili da conservare e molto salati per assetare gli avventori in maniera da spingerli ad ordinare più vino e di conseguenza far spendere loro più soldi. La qualità del cibo e delle vivande cambia di qualità a seconda del ceto sociale e delle disponibilità economiche dei clienti.
Nel Medioevo va tenuto conto che le tecniche di conservazione dei viveri e delle vivande non sono molte evolute. Ciò nondimeno spesso gli osti sono dei truffatori, ad esempio servono vino contraffatto. Inoltre in questi locali si afferma anche il gioco (spesso d’azzardo), come motivo di divertimento. Le osterie, pur non godendo di gran fama, si considerano però migliori delle taverne. Tant’è che anche secondo la legge beneficiano di maggiore libertà e sono sottoposte a disposizioni legislative meno rigide. Ciò nonostante tale diversificazione qualitativa tra le due attività si dissolve quando la domanda di alloggi è alta, come nei giubilei, nei pellegrinaggi o nei grandi mercati.
Le strutture delle osterie sono generalmente composte da diversi locali: una grande sala per consumare cibi e bevande, uno spazio all’aperto, un ambiente adibito a cucina, una cantina, un magazzino e stanze riservate ai posti letto. Quest’ultime spesso sono al piano superiore, dove la promiscuità tra uomini e donne è la regola. Di solito in ogni stanza, ch’è infestata d’insetti, dormono più ospiti insieme e spesso senza lenzuola o coperte. Le latrine si considerano un lusso che soltanto alcune rare strutture possiedono. Quindi la consuetudine è quella di lasciare uno spazio, dietro la stalla o nel cortile, di cui gli ospiti possono usufruire all’occorrenza.
Nel XIV e XV secolo in Italia e in Francia si trovano le migliori locande d’Europa (che si ritengono migliori delle taverne e delle osterie), spesso provviste di camere separate con letti e armadi. Anche se la loro capienza ovunque è relativamente modesta. Le più piccole potevano accogliere da dieci a venti clienti, le più grandi al massimo una sessantina.
Le osterie del XV e del XVI secolo non hanno ancora migliorato la propria offerta. Oltre alla pessima qualità degli ambienti bisogna evidenziare i pochi scrupoli che gli osti hanno nel truffare gli avventori. Addirittura, pur di specularvi sopra, alloggiano i clienti anche nella camera della propria famiglia.
Malgrado la cattiva fama però il giro economico di osterie e taverne, grazie al versamento dei diritti di gestione e vendita, rappresenta una fonte di profitto per le casse delle autorità. Così, nonostante la Chiesa tuoni loro contro definendole “tane della tentazione”, i potenti locali ne favoriscono la proliferazione. In genere i frequentatori abituali di osterie e taverne sono pellegrini, mercanti, viaggiatori, chierici, vagantes, soldati, giullari, donne di malaffare e nobili in cerca di avventure.
La vita in questi locali per secoli si identifica nell’immaginario popolare con: mangiare e bere a sazietà, godere dell’amore e giocare d’azzardo. Quest’ultimo, nelle osterie, rappresenta un’eccezione tra le attività pubbliche ma le autorità lo tollerano. A garantire l’onestà dei giochi ed a dirimere le liti è la figura dell’oste, che però per la sua poca credibilità etica spesso invece fa finire in rissa molte discussioni.
Tant’è che le figure degli osti e dei tavernieri, per secoli, rappresentano una vil razza. In generale occupano nella storia dell’umanità un posto particolare. Infatti sono sempre attenti a maledire ed a inveire contro il mondo intero, interpretando però a proprio vantaggio gli umori della società che li circonda. Le fonti letterarie medievali li denigrano abbondantemente, così come le testimonianze di viaggiatori, scene teatrali, canzoni o poesie. Nell’immaginario dell’epoca il loro malfamato ritratto fisico tipicamente li raffigura con: il berretto floscio sul capo, il grembiule arrotolato intorno all’enorme vita e le grosse mani piantate sul tavolo.
In generale comunque i gestori dell’ospitalità pubblica medievale sono compresi nell’elenco dei lavoratori da disprezzare e da ritenere inferiori ed è una delle corporazioni sempre sotto l’occhio delle autorità. Si cerca di mettere in guardia i pellegrini dall’avidità e dagli inganni degli osti. Ad esempio dalle cronache giubilari risulta che spesso i prelati attendono i forestieri in posti cruciali per indirizzarli verso centri di accoglienza più qualificati al fine di salvarli da offerte disoneste. Le osterie sono sempre malviste dalla Chiesa che addirittura ne vieta la frequentazione agli ecclesiastici.
L’autorità religiosa attribuisce ai santi Raffaele, Cristoforo e Martino la capacità di proteggere dai tranelli e dalle truffe i viaggiatori che giungono per la prima volta nelle grandi città. Gli osti e tavernieri avidi e truffatori sono così comuni, come testimoniano le carte degli archivi comunali, da costringere i legislatori a prevedere pesanti contravvenzioni. La maggior parte delle truffe riguarda i pesi e le misure, nonostante ci sia l’obbligo di utilizzare strumenti recanti il sigillo delle autorità (anziché quelle contraffatte). Molte frodi invece sono relative alla qualità del vino e ai prezzi da pagare.
Ad esempio durante occasioni particolari, come passaggi di truppe, tornei e pellegrinaggi, i tavernieri o gli osti si mettono all’entrata del locale per fare assaggiare un vino migliore di quello che poi servono all’interno. Infatti il termine popolare “infinocchiare”, nel senso di “imbrogliare, raggirare”, deriva dall’uso degli osti di offrire al cliente, prima di servire il vino, del finocchio per addolcire la bocca ed evitare che il palato riconoscesse il cattivo sapore della bevanda fornita all’interno del locale.
Una categoria particolare di viandanti sono i pellegrini. In particolare attraverso la penisola italiana passano le maggiori vie di comunicazione del Mediterraneo e la strada che conduce a Gerusalemme. Principalmente verso la fine del XIII secolo quando la Cristianità perde definitivamente la Terrasanta e la Chiesa introduce il Giubileo e trasferisce le sacre reliquie a Roma. Questa città si trasforma in una “Nuova Gerusalemme” dove un buon cristiano deve recarsi, almeno una volta nella vita, preferibilmente a piedi e lungo speciali itinerari dal nome “romei”.
Prima di mettersi in viaggio il pellegrino fa testamento, paga i debiti, si riconcilia con chi gli è ostile, riceve la benedizione e procede alla vestizione. Quest’ultima tipicamente consiste in sandali, mantello, bastone detto “bordone”, bisaccia e copricapo con sopra fissata l’immagine di Cristo. La principale arteria per i pellegrini cristiani è la Via Francigena che parte dalla Bretagna. Lungo le strade, naturalmente, si trovano zone più ricche e raffinate anche da un punto di vista culinario ed altre no.
Grazie alle note di viaggio dei pellegrini dell’epoca è possibile conoscere come in questi itinerari ci siano luoghi di ospitalità pubblica come ostelli, taverne ed osterie e centri di ospitalità gratuita come ospedali ed abbazie. Soprattutto all’inizio i maggiori beneficiari del turismo religioso sono le comunità monastiche ed i centri di sapere culinari, agronomici e zootecnici. L’energia e la creatività dei monaci fa sì che si elaborino pietanze buone per il palato e curative per il corpo. Queste ricette rappresentano la commistione tra la cucina del territorio e le tradizioni alimentari dei pellegrini provenienti dai paesi più lontani.
Fra i viandanti medievali è in uso la parola “compagn”, termine che designa “colui con cui si divide il pane”. Così a partire dal Medioevo si diffonde la parola “companatico” per indicare tutto ciò che può accompagnare il pane. Certamente la quantità e la qualità del pane offerto nei centri di ospitalità dipendono dal luogo e dal periodo stagionale.
All’epoca esiste il pane fresco e bianco che si destina ai signori ed alle ricche abbazie. Invece il pane nero o raffermo, una specie di focaccia dura, è il cibo dei poveri e l’alimento primario che i pellegrini portano nella bisaccia. Esso si può consumare anche dopo molti giorni come pancotto o pan sbriciolato nelle minestre. Alcune delle zuppe tradizionali d’oggi affondano le radici dai pellegrini dell’epoca, così come qualche modo di dire ancora in uso. La pietanza più popolare dei viandanti che si offre sia nelle strutture d’ospitalità pubblica che gratuita è la pulmenta, una zuppa o minestra con il pane raffermo e vari ingredienti come legumi, cereali, ortaggi, erbe o castagne.
Ciò nonostante le strutture di ospitalità e le tipologie di cibi reperibili lungo questi itinerari, soprattutto lungo la via Francigena, variano a seconda della zona (nel libro sono esposti degli esempi). A partire dal Cinquecento l’ospitalità pubblica migliora notevolmente e diviene abbastanza organizzata lungo le vie di pellegrinaggio. Poi durante il XVIII secolo, grazie ai miglioramenti della rete stradale e dei mezzi di trasporto, nobiltà e strati superiori della borghesia si lanciano massicciamente nei viaggi di piacere. Questa moda si sviluppa a tal punto che, specie nella seconda metà del secolo, si considera essenziale per la formazione umana e culturale di un giovane signore europeo effettuare il “Grand Tour” dell’Italia della durata di diversi mesi.
L’eredità che gli antichi romei medievali lasciano nei loro diari di viaggio ai giovani viaggiatori europei delle epoche successive è l’elenco delle tappe canoniche per il ristoro dello spirito e delle membra. Più precisamente all’interno di essi si illustrano, per quei luoghi e per quello specifico periodo dell’anno, anche le tradizioni e le possibilità gastronomiche esistenti. In generale i “gran touristi” nella penisola italiana restano ammirati dal buon cibo ma criticano molte altre cose, come le strade, i vetturini imbroglioni, le plebi superstiziose o le osterie sporche.
Il viaggiatore che ricorre all’accoglienza pubblica, se giunge in un centro di media grandezza, può rivolgersi soprattutto alle comuni osterie, agli alberghi o alle locande. Queste ultime sono meno costose degli hotel ma hanno camere più decorose di quelle delle osterie e garantiscono vitto, alloggio e servizio di lavanderia. Nel complesso i giudizi che se ne ricavano dai viandanti dell’epoca in merito alle locande sono positivi. Ovviamente la qualità offerta dalle strutture di ospitalità pubblica cittadina o extraurbana così come quella gastronomica che vi si trova è molto varia.
In generale taluni diari di viaggio, soprattutto quelli ottocenteschi, sono un po’ romanzati e talvolta nascondono la cruda realtà. Quindi le loro informazioni vanno filtrate. Infatti leggendoli si ritrova spesso qualche finzione letteraria e l’atmosfera è completamente diversa da quella reale. Oltre a questi diari, dalla fine del XVIII secolo, si affermano anche guide turistiche delle città con dei veri e propri elenchi di alberghi ed osterie in cui diviene possibile conoscere le informazioni relative ai menù più caratteristici.
L’osteria nella quale fanno sosta i viaggiatori nel corso dell’Ottocento passa attraverso due fasi. All’inizio si separa la cucina dalle camere da letto. A questa prima fase appartiene già l’osteria dei viaggiatori della fine del Settecento, nella quale la cucina svolge anche la simultanea funzione di sala da pranzo.
Nella seconda fase nella metà dell’Ottocento la cucina dell’osteria si divide dalla sala da pranzo o d’attesa. Quest’ultima si presenta come lo spazio deputato agli incontri fra chi va e chi viene. Qui si scambiano le novità relative ai luoghi di provenienza e le notizie sui paesi d’origine dei viandanti. Dunque si narrano le ultime avventure, si favoleggia di briganti, di incidenti e di incontri inconsueti. Qui avvengono le complesse vestizioni e svestizioni che precedono o seguono gli spossanti viaggi in carrozza. Qui è dove sostano cocchieri, vetturali e postiglioni (ultimi eredi dei cavalieri erranti).
Inoltre nella seconda metà dell’Ottocento un’osteria può essere anche una bottega per il vino, pubblico esercizio di ristoro, locanda con stalla, stazione di posta o tutto questo insieme. La migliore letteratura dell’epoca nobilita le funzioni di questi locali ambientandovi delle trame narrative.
Nell’Ottocento l’ospitalità a pagamento ha ormai un’offerta differenziata per servizio, qualità, costo ed ubicazioni. La gestione può essere familiare o no, richiede un numero variabile di servi, sguatteri, stallieri, camerieri e cuochi. Nel caso tutti costoro siano necessari si tratta di un vero e proprio albergo.
Quindi con la metà dell’Ottocento il miglioramento delle strade e dei mezzi di trasporto fa accedere le classi sociali borghesi anche ad un turismo parzialmente stanziale inducendo gradualmente le osterie a migliorare. Di conseguenza si verifica una minore discrepanza nella conduzione di osterie e di alberghi. Tant’è che spesso, nella seconda metà dell’Ottocento, entrando in un’osteria si respira un’atmosfera di bonomia alla quale contribuiscono gli avventori abituali appartenenti alla piccola borghesia locale.
Nell’Ottocento il significato simbolico della parola “osteria” subisce infatti due trasformazioni. Nella prima metà del secolo allude alla riprovevole ospitalità offerta. Mentre verso la fine del XIX secolo il termine comincia ad assumere per i viaggiatori il senso di locale popolare gradevole e tranquillo e dove si può bere e mangiare a buon mercato, ciò non significa però che non ne esistessero di pessima qualità.
Negli anni Quaranta dell’Ottocento si affermano due termini, di origine francese, “trattoria” e “ristorante”, che si usano per indicare locali di ristoro di buon livello, ma senza alloggio. Il secondo termine, però, designa un esercizio di prim’ordine. Non si tratta di una mera disputa filologica perché in assenza ancora di guide gastronomiche, stelle e segnalazioni stampate la classificazione qualitativa dell’ospitalità non è precisa. La conseguenza principale di questi termini è quella di fornire una connotazione popolare all’osteria in contrasto con l’immagine borghese e cosmopolita delle altre due attività.
Nel Novecento nelle osterie si respira l’essenza stessa della tradizione e del colore locale. Essa guadagna favore presso i ceti borghesi e intellettuali che dovrebbero essere i veicoli di un internazionalismo gastronomico. Il costo modesto, le derrate semplici ed i sapori intensi fanno presa su italiani e stranieri. Tutto ciò si differenzia dall’alta cucina di uno stile alberghiero o dei ristoranti che comportano invece una perdita di radici.
Il tipo di osteria che entra per primo nella storia gastronomica del XX secolo è quello della città, grazie soprattutto alla rete ferroviaria che collega i capoluoghi di provincia, rende accessibili i punti di ristoro urbani a cui si consacrano le prime guide. L’oste moderno ripete ricette semplici ma ha un’idea propria di cucina che adatta alle richieste.
La distanza fra osteria e trattoria si riduce già durante il Fascismo, mentre il ristorante, “esercizio di prim’ordine”, stenta a mantenere la propria egemonia quando non è gestito da personale qualificato o da un albergo di lusso. La clientela si distribuisce in tutti e tre gli esercizi, sempre meno in funzione della propria identità sociale, preferendo anteporre il tipo di cucina allo stile di servizio, e riconoscendosi più facilmente nei piatti regionali che in quelli francesi. L’osteria offre cibo freddo, sempre pronto e che proviene dalle vicinanze come salumi, formaggi, conserve, salacche e pane. Inoltre propone pasti caldi vari e compatibili con le stagioni ed i raccolti. In molte di esse, per fare economia, si recuperano cibi poveri, una cucina tradizionalmente povera.
La distribuzione geografica delle osterie è più densa nelle città che in campagna, più fitta al nord che al sud d’Italia. Lo sviluppo industriale e l’inurbamento ne favoriscono la proliferazione. Nel Meridione infatti, dove c’è più agricoltura, i contadini hanno minori occasioni di frequentare l’osteria, al di fuori della domenica e dei giorni in cui vanno in paese per vendere i prodotti di campo.
Le osterie attirano a sé gli uomini perché mangiano e bevono in libertà, anche di costumi, il che conferisce a questi locali un loro fascino. Ciò suscita però ancora sospetti e disapprovazioni nelle madri, nelle mogli e nei sacerdoti. Tra questi ultimi vi sono dei feroci oppositori che ne chiedono la chiusura alle autorità, argomentando che rovinano gli uomini ed i giovani che li frequentano.
Nel Novecento cambiano le classiche insegne delle osterie, ci sono immagini più scherzose e giochi di parole. Queste hanno lo scopo finale di trasmettere agli avventori un senso di semplicità. Tant’è che per comunicare ciò basta anche affiggere esclusivamente il nome o il soprannome del proprietario e il titolo dell’esercizio. In fondo il successo delle osterie conta sulla propria rinomanza e su una clientela fedele.
Talvolta si organizzano anche dei teatrini al loro interno per intrattenere gli avventori. Inoltre le pareti delle osterie cominciano ad arricchirsi di fotografie, di personaggi celebri e famosi o dei predecessori defunti. In genere la gestione di questi locali è e rimane familiare. Infatti dai fondatori passa ai figli che, assumendo anche qualche parente o figlioccio, cercano di far prosperare l’attività. Tutto ciò facendosi aiutare anche dalla benevolenza dei predecessori dall’Aldilà, sempre presenti nei ritratti fotografici appesi alle pareti dietro alla cassa.
Un ruolo importante lo ricopre l’ostessa cui spetta il compito di cucinare, oltre che per la famiglia, talvolta anche per gli avventori ma in forma comunque più professionale rispetto ad una massaia. Inoltre a volte serve anche in sala e dà consigli a chiunque sia sulle vivande che sulle vicende personali dei frequentatori. Anche l’oste spesso sta in sala, chiacchiera e talvolta addirittura mangia con i clienti per offrire un’atmosfera familiare agli avventori.
Quindi nel corso del Novecento la fama delle osterie e dei loro gestori migliora diventando positiva. Di conseguenza questi locali diventano gradualmente luoghi di ritrovo anche per famiglie (e non di soli uomini), talvolta habitué. Infatti l’immagine della solita coppia benvoluta di gestori che ha il compito di garantire l’ordine, nutrire, regolare il gioco e lo svago dei clienti ha una presenza rassicurante.
L’oste e l’ostessa nell’immaginario popolare si raffigurano sempre dalla grande mole ed un tale aspetto fisico, dal Novecento in poi, incute rispetto. Queste due figure nel XX secolo, in confronto al passato, godono di fama migliore. Inoltre va tenuto presente che da questi locali emergono alcuni dei più grandi protagonisti della ristorazione italiana novecentesca provenienti anche dalla categoria del personale remunerato. Ad esempio, tra questi, vi è Luigi Carnacina che da sguattero e cameriere diviene il maestro di cucina dell’Italia del Secondo Dopoguerra.
La storia delle osterie, che oggigiorno si configurano come locali pubblici (senza alloggio e sempre più spesso con servizio di trattoria) di tono modesto e popolare, riflette la storia della cucina italiana moderna dal XVII secolo fino alla metà del XX. Essa si caratterizza per essere povera e subalterna a quella francese, in quanto mancante di una scuola e fortemente diversificata perché basata non sulla tecnica ma sulla conoscenza empirica e la trasmissione orale dei saperi.
Oggigiorno la cucina d’osteria è leader nel mondo, da quando sono emersi la consapevolezza dei rischi della perdita della memoria dei saperi contadini, tradizionali e delle produzioni agricole. Questa che agli albori della società moderna ed industriale era una debolezza si è trasformata con l’avvento della società postindustriale ed ecologicamente consapevole nel suo punto di forza.
Infatti a partire dagli anni Ottanta del Novecento questa attività di ristoro è diventata sinonimo di attenzione verso i prodotti e le cucine di territorio. Inoltre all’estero rappresenta un vero è proprio marchio “Made in Italy”. Infatti negli ultimi decenni il termine “osteria” ha variato di significato e molti locali eleganti e raffinati si fregiano di tale titolo per suggerire un legame con le tradizioni autentiche.
Struttura del libro
Il libro Tacuínum de’ hostaríe, dopo l’indice analitico, si divide in due parti. La prima è costituita da nove capitoli e descrive la storia dell‘ospitalità e del ristoro del viandante in Europa e soprattutto in Italia. La seconda parte invece è formata da cinque capitoli e tratta esclusivamente di ricette.
Nello specifico, nella prima parte del libro ed in particolare nel primo capitolo si affrontano le origini dell’ospitalità dalla Preistoria all’Antichità. Nel secondo capitolo si tratta del ristoro pubblico in epoca classica spiegandone le peculiarità e riportando anche qualche citazione. Nel terzo capitolo si affronta la diffusione dell’ospitalità pubblica durante il Medioevo. Nel quarto capitolo si tratta della nascita delle osterie, delle taverne e delle locande con le loro caratteristiche e qualche esempio di vivande che si servono. Nel quinto capitolo si affrontano le possibilità gastronomiche che si offrono ai pellegrini in viaggio, focalizzandosi soprattutto sulla fine del XIII secolo, periodo in cui s’istituisce il Giubileo.
Nel sesto capitolo si trattano l’ospitalità pubblica e quella religiosa gratuita riscontrabili lungo la via Francigena o Romea o Francesca, ovvero la principale arteria viaria europea che i pellegrini seguono per raggiungere le principali mete religiose cristiane.
Nel settimo capitolo si giunge al XVIII secolo, in cui grazie al miglioramento delle strade e dei mezzi di trasporto anche i borghesi ed i nobili iniziano a viaggiare abitualmente. A tal punto che si diffonde la moda del “Grand Tour” che ogni giovane signore europeo deve affrontare e ciò ha conseguenze sulle offerte gastronomiche e sull’ospitalità dei viandanti.
Nell’ottavo capitolo si affrontano i cambiamenti che subiscono le osterie, le locande e le taverne durante l’Ottocento sino alla nascita della ristorazione moderna. Nel nono capitolo si trattano dei mutamenti ulteriori che subiscono le osterie che differiscono dalle trattorie e dai ristoranti e delle loro caratteristiche affermatisi durante il Novecento, concludendo poi con le peculiarità dell’epoca contemporanea.
Nella seconda parte del libro Tacuínum de’ hostaríe invece si trattano delle ricette storiche e tradizionali della cucina italiana selezionandoli da alcuni testi d’epoca classica, medievale, moderna e contemporanea. Nel primo capitolo si elencano gli stuzzichini. Nel secondo capitolo si trattano ricette con le zuppe, con la pasta e con il riso. Nel terzo capitolo si elencano piatti con carne e pesce. Nel quarto si trattano i dolci. Nel quinto si espongono le pietanze tipiche ed i menù che si offrono ai pellegrini.
Nell’ultima parte del libro si trova l’indice di tutte le ricette proposte nel testo e la bibliografia delle fonti che gli autori hanno consultato. In molti capitoli ci sono citazioni ed esempi di testimonianze di cronisti dell’epoca a supporto di quanto si sta descrivendo.
Recensione del libro Tacuínum de’ hostaríe
Questo libro Tacuínum de’ hostaríe illustra brevemente la storia dell’ospitalità, le sue modalità e la sua evoluzione dalla Preistoria ai giorni nostri. In particolare si sofferma soprattutto su quella pubblica, la cui esistenza potrebbe sembrare scontata, ma che invece nei primi tempi dell’umanità è inimmaginabile perché esiste esclusivamente quella privata. Solo con l’aumento dei viaggiatori si creano dei locali adatti a tale esigenza. Ciò può far riflettere sul non dare per scontato una manifestazione sociale che invece potrebbe sembrare ovvia.
Quindi questo rende il libro Tacuínum de’ hostaríe interessante e nel contempo curioso perché descrive la vita gastronomica dei viandanti attraverso le epoche, cosa non molto nota, in relazione ai locali di ospitalità pubblica disponibili in quel momento. Inoltre spiega la nascita e l’evoluzione delle osterie, della ristorazione, delle taverne, degli alberghi ed altri luoghi gastronomici tuttora esistenti ed a cui il viaggiatore anche oggi si rivolge. Pertanto questo fa sì che dopo la lettura di questo libro si guardi in modo diverso questi locali. Inoltre gli esempi e le testimonianze delle persone dell’epoca che si riportano nel testo consentono di comprendere meglio la realtà di allora.
Inoltre peculiari sono le ricette presentate nell’ultima parte del libro Tacuínum de’ hostaríe che abbracciano le epoche classica, medievale, moderna e contemporanea. Tale caratteristica consente al lettore di fare un viaggio diacronico del cibo dei viandanti nella storia europea e soprattutto italiana. Tanto più se si compie un paragone con le proprie conoscenze gastronomiche, soprattutto con quelle appena acquisite nella prima parte del testo. Pertanto ciò fa sì da rendere più pratiche le nozioni riportate in questo piccolo saggio storico.
Infine gli amanti della cucina possono, se vogliono, provare a riprodurre e mangiare queste ricette permettendo loro di immedesimarsi ancora meglio nella cultura e nella realtà gastronomica del viandante nel corso dei secoli. Così da percorrere con la fantasia le sue tappe attraverso i sapori del cibo preparato, immaginando di vivere l’ospitalità pubblica dell’epoca in relazione alla pietanza scelta da replicare. In conclusione, questo libro Tacuínum de’ hostaríe propone un viaggio nel tempo sul cibo nella realtà dei viandanti succedutisi nel corso dei secoli in maniera affascinante, intrigante e pratica.