CONTENUTO
La difficile situazione
Nella notte tra 24 e 25 luglio 1943 Mussolini viene defenestrato e si attesta la caduta del fascismo. I quaranta giorni che intercorrono da quel momento fino alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre sono caratterizzati, oltre che dalle trattative con gli Alleati per il futuro sbarco e dalle incomprensioni tra essi e lo Stato Maggiore italiano, dalla ripresa della vita politica sia nel Nord occupato dai tedeschi sia in quello che poi verrà chiamato “Regno del Sud”.
La proclamazione dell’armistizio porta con sé la fondazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), ovvero il movimento della Resistenza, che si divide tra la lotta armata clandestina settentrionale e quella politica per il potere nel meridione.
Proprio nella parte d’Italia sotto il controllo degli Alleati e del nuovo governo Badoglio sorge e si perpetua nel tempo lo scontro tra i partiti e lo scontro tra essi e la monarchia e il suo governo: le differenze sono a livello ideale tra gli antifascisti, in quanto gruppo eterogeneo di partiti di diversa estrazione politica e sociale, ma anche tra antifascisti e monarchia e governo, cioè con coloro i quali sono moralmente e politicamente inficiati col fascismo.
La vita politica viene quindi immediatamente caratterizzata da due problemi fondamentali:
- la guerra che deve essere portata alla conclusione con l’appoggio alla lotta clandestina
del Nord, soprattutto dopo la dichiarazione di «cobelligeranza» dell’ottobre; - la questione istituzionale, poiché parte dei partiti presenti nel CLN vogliono la destituzione
del Re e l’abolizione della monarchia, con il conseguente passaggio ad un sistema
repubblicano e democratico, mentre altri sostengono ancora l’istituto monarchico ed
sono convinti che sia necessario solo un cambio al vertice per ridare prestigio all’Italia
e alla dinastia.
Se sul primo punto viene dimostrato una maggior margine d’intesa, sul secondo, invece, sembrano bloccarsi le operazioni politiche. Da un lato, Vittorio Emanuele non dà disponibilità ad una abdicazione, nemmeno a beneficio del figlio Umberto, d’altra parte i partiti ciellenisti non si dimostrano affatto coesi nell’esprimere le loro richieste.
Se a questa situazione aggiungiamo l’appoggio dato da Churchill alla Camera dei Comuni alla monarchia e a Badoglio dopo che la Commissione alleate si è mossa verso un tentativo di legittimazione dei partiti del CLN all’interno del governo, sotterrando qualsiasi imminente caduta del Re, si può capire quanto la situazione sia ormai destinata a collassare. Arriva, tuttavia, una clamorosa sorpresa: l’inaspettato riconoscimento del Governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica.
Il ritorno di Togliatti prima della svolta di Salerno
Il riconoscimento dell’URSS coglie tutti di sorpresa e crea peraltro non pochi problemi. Gli angloamericani vedono questo atto come un tentativo dei sovietici di inserirsi nella loro sfera d’influenza politica. Da un lato, viene rimproverato Badoglio per aver allacciato rapporti con una potenza straniera muovendosi al di sopra della Commissione di controllo alleata, violando le norme armistiziali; mentre d’altra parte si protesta contro i sovietici, poiché gli accordi e lo scambio di plenipotenziari modificano il riconoscimento da de facto a de jure del governo Badoglio.
La mossa sovietica produce poi un profondo disorientamento all’interno sia della compagine del CLN, che tra gli stessi militanti comunisti. Essi non riescono a comprendere come la patria del socialismo possa stringere accordi con un governo che può considerarsi reazionario e compromesso con il fascismo, facendo riemergere oscuri ricordi legati al patto Molotov-Ribbentrop del 1939.
A chiarire i dubbi ed il senso di questa decisione arriva direttamente da Mosca, con una scelta di tempi assolutamente non casuale, Palmiro Togliatti. Il leader comunista sbarca a Napoli il 27 marzo 1944 dopo un lungo viaggio durato più di un mese che dalla repubblica dei Soviet lo porta ad Algeri, passando per Baku, Teheran, Il Cairo, imbarcandosi successivamente su un mercantile inglese che lo traghetta verso le coste italiane. Arrivato a destinazione, pochi giorni dopo espone al Consiglio nazionale del partito una proposta che verrà definita come la “grande svolta”.
Sostanzialmente la soluzione di Togliatti per uscire dall’impasse politico prevede la formazione di un nuovo governo d’emergenza di carattere transitorio che veda la partecipazione di tutti i partiti antifascisti, i quali dovranno far cadere qualsivoglia pregiudiziale contro il Re e Badoglio, in quanto l’obiettivo primario è organizzare un’azione coesa e un grande sforzo per mettere fine all’occupazione nazista e alle sofferenze dei concittadini al Nord.
La questione istituzionale, infine, sarà rimandata alla fine della guerra e risolta da un’Assemblea nazionale costituente eletta a suffragio universale e segreto. La proposta di Togliatti, enunciata anche agli altri partiti antifascisti, abbandonando l’intransigenza della questione monarchica e formando una coalizione che possa condurre una politica di guerra in simbiosi tra l’esercito ed i partigiani, dà immediatamente un contributo fondamentale alla soluzione della crisi.
Poche settimane dopo infatti viene raggiunto un accordo di massima sulla base del compromesso proposto al Re dal giurista Enrico De Nicola. Questo prevede che, alla liberazione di Roma, Vittorio Emanuele trasferisca tutti i poteri reali ad un luogotenente generale, identificato nel figlio Umberto, ritirandosi dalla vita pubblica senza, tuttavia, abdicare.
La “combinazione” De Nicola viene accettata dagli Alleati e così il 22 aprile 1944 Badoglio a Salerno (da qui prende il nome la vicenda che stiamo descrivendo) si forma un nuovo governo “democratico” che copre tutto l’arco politico italiano, unito grazie alla pregiudiziale antifascista.
Motivi e conseguenze del ritorno di Togliatti
Non si può certo nascondere il fatto che il ritorno di Togliatti sia un riflesso della politica estera della Russia sovietica. È una verità indiscutibile, o almeno è parte di questa verità. Non si può certo affermare, infatti, che Togliatti è un mero esecutore di un disegno imposto dall’esterno. Il leader comunista agisce in pieno accordo con Mosca, ma lo fa secondo una tattica a cui lui stesso a dedicato tempo, pianificandolo, e in cui crede fortemente.
Fin dal 1943 Togliatti sostiene fortemente che il PCI debba entrare a far parte di un governo di unione nazionale, poiché è impossibile poter solamente pensare in quel momento ad un’azione rivoluzionaria armata. L’Italia, che esce da un periodo dominato da un partito unico, non ne sopporterebbe certamente un altro. Tuttavia, dopo essere rientrato in patria, Togliatti sfrutta la situazione appieno proponendo il partito come uno dei protagonisti della vita politica nazionale e creando di fatto una soluzione che possa generare del consenso.
La “svolta di Salerno” fa uscire la politica italiana da un vicolo cieco. Rimandare il problema istituzionale vuol dire evitare la rottura del fronte ciellenista, impedendo così che la monarchia venga rafforzata. Se si può dubitare del fatto che Togliatti, come dirà lui stesso nel 1960, in quel periodo prende un rischio calcolato volendo “presentare la monarchia al popolo, perché la giudicasse, così come essa era, così come il popolo l’aveva vista al tempo della marcia su Roma, durante il ventennio fascista e alla dichiarazione di guerra”1, non si può certo negare che la sua mossa assesta un colpo quasi mortale alla monarchia e al suo desiderio di restaurazione.
Nonostante la tattica, quindi, risulti fortemente indirizzata ad una legittimazione del PCI in Italia come interlocutore democratico poiché il rischio sarebbe l’isolamento politico, il destro alla monarchia contribuirà in fin dei conti anche alla vittoria repubblicana del 2 giugno 1946.
Cambiamento radicale
Come si è potuto intuire probabilmente la svolta non riguardo solo l’Italia, ma anche il partito comunista stesso. Il ritorno di Ercoli, per usare lo pseudonimo con cui è conosciuto il leader genovese, rappresenta un cambiamento radicale anche per i militanti del PCI, tanto da poter parlare di “partito nuovo”.
La nuova linea politica, discussa e condivisa a Mosca con Stalin, mira a legittimare il PCI agli occhi della politica e della società come forza di governo. Il modello del partito di quadri viene progressivamente abbandonato in favore di una massificazione del partito stesso, la cui direzione è affidata allo stesso Togliatti. Con questa virata il comunismo cerca di radicarsi maggiormente nella società italiana, attraverso la creazione di un ricco tessuto associativo e la partecipazione alla lotta democratica per garantirsi una forte rappresentanza parlamentare.
Per quanto possa sembrare elementare l’evoluzione del partito in questo modo, la realtà è che questo cambiamento è radicale in quanto non sta solo nella forma, ma anche nell’ideologia e nella forma della lotta politico-rivoluzionaria. Il PCI rifiuta da questo momento di essere un movimento di avanguardia settaria per assumere una configurazione “di massa”: parafrasando si può dire che il partito si rinnova per accogliere il popolo e non solo la classe.
Alle organizzazioni di insediamento sociale del “partito-ghetto” che il PCI eredita nel dopoguerra si aggiungono una serie di nuove organizzazioni sociali che possano comprendere tutti. La mistica operaista muta o meglio non è più sola: ai “lavoratori del braccio” si aggiungono i “lavoratori della mente”, così che oltre a operai e contadini ci sia spazio ora anche per la borghesia. Invariata rimane, tuttavia, la struttura piramidale.
L’altra novità riguarda la linea politica generale. Togliatti nello stesso periodo lancia l’idea di “democrazia progressiva”. Secondo questa dottrina, si sarebbe giunti al socialismo per gradi. La tattica prevede di ampliare la base del consenso e di percorrere la via democratica al fine di entrare nelle istituzioni come conditio sine qua non per la conquista dello Stato da parte del proletariato e la sua socializzazione. Una prospettiva che porta con sé delle ambiguità e delle conseguenze per il comunismo italiano che in un certo qual modo diventa riformista.
Togliatti per presentare il concetto si esprime così nel luglio del 1944 a Roma:
Si meravigliano, infine, che noi lottiamo per la democrazia, e ci chiedono che cosa intendiamo per questa lotta. Lottare per la democrazia vuol dire, per noi, volere e realizzare la distruzione del fascismo, tagliare tutte le radici da cui esso è sorto e rinnovare il nostro paese in modo tale che un regime analogo a quello fascista non possa rinascere mai più.
Ecco dunque che cosa significa per noi quel termine di «democrazia progressiva», dietro al quale ci si accusa di nascondere chi sa quali malvagie intenzioni. Democrazia progressiva è quella che guarda non verso il passato, ma verso l’avvenire. Democrazia progressiva è quella che non dà tregua al fascismo, ma distrugge ogni possibilità di un suo ritorno. Democrazia progressiva sarà in Italia quella che distruggerà tutti i residui feudali e risolverà il problema agrario dando la terra a chi la lavora; quella che toglierà ai gruppi plutocratici ogni possibilità di tornare ancora una volta, concentrate nelle loro mani tutte le risorse del paese, a prenderne nelle mani il governo, a distruggere le libertà popolari e a gettarci in un seguito di tragiche avventure brigantesche. Democrazia progressiva è quella che liquiderà l’arretratezza economica e politica del Mezzogiorno, spazzando i gruppi reazionari che di essa sono l’espressione e vivono di essa; è quella che riconoscerà i diritti della Sicilia e della Sardegna a un reggimento autonomo in una Italia unita e indipendente. Democrazia progressiva è quella che organizzerà un governo del popolo e per il popolo, e nella quale tutte le forze sane del paese avranno il loro posto, potranno affermarsi e avanzare verso il soddisfacimento di tutte le loro aspirazioni.
Questa è la battaglia per la quale noi comunisti chiamiamo a combattere tutti coloro i quali sono veramente democratici e antifascisti, tutti coloro i quali veramente amano il loro paese. Convincetevi – noi diciamo loro – questa è la sola via della nostra rinascita. Un’altra non esiste, e chi volesse sbarrarci questa via non farebbe altro, in ultima analisi, che riportarci alla vergogna da cui siamo usciti. 2
L’evoluzione tattica e politica del Partito Comunista Italiano influenza dunque i fatti accaduti dopo la caduta del fascismo. La “svolta di Salerno” influisce molto sull’azione italiana nell’ultimo anno di conflitto mondiale sia nel rapporto tra nazione e Alleati, sia tra la coalizione antifascista e il binomio governo-monarchia, sia, infine, nei rapporti tra PCI e politica italiana in generale. Alcune delle conseguenze di questo evento ricadranno in seguito sul referendum del 2 giugno 1946, così come sulla vicenda e la storia della Costituente.
(1) P. Togliatti, Il governo di Salerno, in Trent’anni di storia italiana (1915-1945), Torino, Einaudi, 1961, p. 370.
(2) Discorso pronunciato a Roma, al teatro Brancaccio, il 9 luglio 1944, in P. Togliatti, Opere, vol. V, cit., pp. 55-
78.
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- P. Togliatti, Il rinnovamento democratico del Paese, Roma, Castelvecchi, 2014.
- S. Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda (1943-1948), Roma, Carrocci, 1999.
- P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano (Vol. 5). La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1977.
- G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna (Vol.10). La seconda guerra mondiale. Il crollo del fascismo. La Resistenza. 1939-1945, Milano, Feltrinelli, 2014.