CONTENUTO
Stupri di guerra in Friuli Venezia Giulia e Veneto
Le violenze sessuali, insieme ai saccheggi e alle brutalità di varia natura, hanno da sempre accompagnato e fatto parte di quelle azioni di indicibile violenza e sopraffazione che qualsiasi guerra combattuta ha portato con sé, difatti, anche l’abuso del corpo femminile ha una propria storia e la sua mutevole modalità è andata di pari passo con “l’evolversi dei codici sociali”[1].
Gli stupri, che non sono da considerarsi un virus umano ma piuttosto “una forma di rappresentazione sociale”[2], non costituiscono certo una novità nel 1914, ma, inseriti nel clima e nel contesto culturale, scientifico e medico di questo determinato periodo storico, assumono un’importanza non irrilevante per una società non ancora totalmente aperta e pronta ad affrontare con disinvoltura e raziocinio una tematica di tale entità.
Quello che risulta evidente, inoltre, è il fatto che il fenomeno degli stupri, alla luce delle nuove conoscenze acquisite dalla scienza, viene vissuto con maggiore preoccupazione ed interpretato in maniera del tutto diversa rispetto al passato. Questo articolo è dedicato alle violenze sessuali commesse nelle province di Udine, Belluno, Treviso, Vicenza e Venezia, invase e occupate per un anno dalle truppe austro-tedesche dopo la battaglia e la rotta di Caporetto del 1917.
Per fare luce sulle sopraffazioni dei soldati stranieri in territorio italiano è stata analizzata la fonte più importante a tale proposito, rappresentata dalla documentazione prodotta, a partire dalla fine del conflitto, da una specifica Commissione d’inchiesta che, inserendo gli stupri tra le tante “violazioni al diritto delle genti”, grazie alle testimonianze raccolte, ha ricostruito, seppur parzialmente, le dimensioni del fenomeno e ci permette oggi di avere un’idea delle sofferenze patite dalla popolazione civile durante l’anno di occupazione.
Il corpo delle donne violate, oggetto di abuso da parte degli ex-alleati della Triplice Alleanza, che in questo modo possono dare libero sfogo al proprio sentimento di vendetta contro gli italiani traditori, si carica di un forte significato simbolico in quanto si configura, allo stesso tempo, come “il corpo della nazione vinta, umiliata”[3] e punita.
Da quanto emerge dalle carte, raramente gli stupri sono perpetrati da singoli individui e quasi sempre risultano essere azioni premeditate e di gruppo, soprattutto per poter meglio controllare la situazione e neutralizzare le possibili reazioni dei parenti che si trovano in casa insieme alle donne. Le modalità di tali atti osceni, inscenati la maggior parte delle volte davanti agli occhi dei familiari, lasciano trasparire il fatto che il reale obiettivo e desiderio dei soldati nemici sia quello di denigrare e dominare il più possibile le vittime e contemporaneamente di “infondere” un sentimento e “un senso di inferiorità e di sottomissione completa”[4] nella popolazione locale.
Quello che, tra le varie cose, colpisce, analizzando le deposizioni, è il linguaggio usato dalle donne davanti ai commissari, specialmente se lo si contrappone a quello utilizzato dalla propaganda di guerra; esitante, asciutto ed evasivo il primo; infuocato, morboso e violento quello dei giornali e dei vari opuscoli che denunciano in tempo di guerra le atrocità del nemico.
Quasi un milione di persone del Friuli Venezia Giulia, che hanno la semplice sventura di abitare in queste località, sono vittime di saccheggi, violenze e brutalità di ogni tipo, specialmente durante i primi giorni e le prime settimane dell’invasione, fino a quando le autorità militari non cercano di riportare un pò di ordine tra i soldati.
Ovviamente, anche nei territori italiani e come già è accaduto precedentemente in altri teatri di guerra, le truppe occupanti si rendono protagoniste di indiscriminate violazioni all’onore femminile, che suscitano orrore e disgusto proprio perché vanno a colpire la donna che, nell’immaginario collettivo dei soldati, rappresenta oramai il lato più umano, consolatorio e terapeutico di fronte al brutale contesto della prima guerra mondiale.
Stupri di guerra e propaganda
C’è da sottolineare che le notizie riguardanti razzie e stupri compiuti nel Friuli Venezia Giulia e nel Veneto, vengono rese note nel resto dell’Italia molto lentamente, mentre nell’immediato esse vengono essenzialmente utilizzate dall’iconografia nei giornali di trincea per nutrire ed alimentare l’odio contro il nemico e per spronare le truppe al riscatto nazionale.
La demonizzazione del nemico, presentato ed illustrato dalla propaganda in una “veste bestiale, come capace delle brutalità più inenarrabili sorrette per giunta da perversi propositi”[5], deve servire ad aumentare la volontà e le motivazioni nei soldati per la difesa del sacro suolo della patria. Un esempio di tale atteggiamento può essere rappresentato dal “Savoia!”, il giornale del XXVIII Corpo d’Armata, che nel giugno 1918 lancia slogan pubblicitari di questo tenore:
Fante Ricordati! Il nemico si batte contro di te per avere la tua donna!
per rubarti il grano ed il bestiame!
per renderti servo del più duro dei padroni!
Alla baionetta Fante!
Distruggi la razza dannata, getta il ladro in istrada, uccidi lo sporco violentatore di donne italiane.
Oppure, sempre sullo stesso giornale, con impostazione maggiormente aggressiva e sanguinaria:
Ricordi Fante
le urla delle donne rimaste di là del Piave, durante quella tragica e buia notte in cui, voltandoti indietro, fermasti l’invasore?
Che quelle urla si mutino in tanti colpi di baionetta!
Ad ogni lacrima delle nostre donne violate risponda il rantolo dell’agonia di un nemico colpito dalla tua palla vendicatrice[6]!
La Reale Commissione d’Inchiesta sulle violazioni al diritto delle genti commesse dal nemico
Le fonti principali per esaminare gli stupri compiuti durante l’anno di occupazione, sono costituite da una documentazione specifica raccolta nell’immediato dopoguerra dalla “Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni al diritto delle genti commesse dal nemico”[7], istituita su proposta del Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, con Decreto Luogotenenziale, il 15 novembre 1918.
Il compito della Commissione, come intuibile già dal titolo, è quello di accertare l’entità dei danni a cose e persone, e stabilire, per quanto è possibile, le responsabilità dei militari, in modo da poter richiedere ai nemici le giuste e congrue riparazioni di guerra. A tal fine essa ha la facoltà di citare e sentire testimoni, eseguire ispezioni, istruire perizie, richiedere e sequestrare documenti e svolgere tutte le indagini con assoluta libertà di azione con lo scopo primario di arrivare ad accertare la verità dei fatti.
La prima riunione si svolge a Roma il 24 novembre 1918, presso il Gabinetto del Palazzo di Giustizia, che difatti rimane la sede della Commissione, mentre alla Segreteria, affidata al Capitano di Fanteria Alberto Asquini e costituita esclusivamente da Ufficiali dell’Esercito[8], viene assegnato un ufficio nella capitale, presso la Biblioteca della Corte di Cassazione, ed un altro a Venezia.
Per i primi accertamenti commissari e segretari si recano direttamente, con fotografi e disegnatori a seguito, nei luoghi che sono stati invasi dal nemico, dove riescono a raccogliere diverse testimonianze; tuttavia, il lavoro è svolto prevalentemente attraverso l’invio, a partire dal 27 novembre 1918, di note, circolari, telegrammi e questionari prestampati, alle autorità, sia civili che ecclesiastiche (sindaci, commissari prefettizi, parroci), delle Provincie invase.
I lavori della Commissione si concludono ufficialmente il 12 aprile 1921 con la pubblicazione, da parte della Casa Editrice Bestetti e Tumminelli, degli otto volumi delle “Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico”. Le testimonianze relative agli stupri, raccolte dai funzionari, vengono inserite, all’interno della Relazione finale della Commissione, nel IV volume, in una parte riservata ai Delitti contro l’onore femminile, e ciò che più le contraddistingue in quanto fonti è la loro parzialità.
Esse, infatti, danno un quadro parziale e non del tutto esaustivo del fenomeno in termini numerici, soprattutto per il fatto che la maggior parte delle vittime preferisce tacere e non denunciare i casi, per non esporsi ad ulteriori diffamazioni e sentenze morali da parte della comunità.
Inoltre, per quel che riguarda i verbali delle deposizioni rilasciate dalle vittime di violenze e dai testimoni oculari, da un punto di vista prettamente storiografico, in quanto fonti di derivazione orale, essi offrono alcuni spunti su cui riflettere.
Da quel che risulta dalle testimonianze raccolte, sofferenze e brutalità non vengono risparmiate neanche ad anziane e a bambine, ed oltre allo stupro i soldati occupanti si macchiano anche di altri crimini: si va, infatti, dai “casi estremi di aggressione violenta contro la vittima, accompagnati da omicidi o ferimenti contro i famigliari che ne tentavano l’ultima difesa, ai casi comuni di stupro con minaccia a mano armata, fino ai casi non meno abbietti, in cui gli ufficiali nemici, speculando sulla fame della popolazione, condizionavano alla dedizione del corpo delle donne la consegna della farina necessaria per sfamare le famiglie di queste”[9].
Nonostante il fatto che il maggior numero di abusi sessuali tentati e consumati dall’esercito invasore si sia verificato durante le prime settimane dell’occupazione e successivamente nei giorni della definitiva ritirata, c’è da sottolineare che gli stupri vengono perpetrati, seppur in maniera sporadica, durante tutto l’anno.
Materiale raccolto nelle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza
Le province di Udine e Belluno vengono occupate interamente dall’esercito nemico e sin da subito, da quanto riescono a rilevare i commissari, le truppe nemiche si fanno riconoscere rendendosi protagoniste di innumerevoli atrocità contro la popolazione civile.
Stando alle parole raccolte dalla Commissione, i tedeschi si dimostrano i più crudeli e sadici e per loro è quasi una “parola d’ordine” che la donna del vinto non vada rispettata per imporre “il marchio del vincitore anche sulla ventura generazione”[10]. Tuttavia analizzando le testimonianze, tale primato dei germanici non risulta veritiero, ma emerge, invece, che le violenze sono commesse con la stessa assiduità e sistematicità anche da austriaci, bosniaci ed ungheresi.
Risulta dunque palese che questa ulteriore demonizzazione dei tedeschi, risultato degli stereotipi elaborati negli anni precedenti, sarebbe dovuta servire come arma alla delegazione italiana a Parigi, per richiedere maggiori risarcimenti al governo teutonico.
Le modalità e le dinamiche degli episodi di violenza sono molto simili tra loro e seguono quasi sempre lo stesso copione: irruzioni prevalentemente notturne da parte di un gruppo di soldati all’interno delle case dei cittadini, neutralizzazione delle persone presenti nell’abitazione e contemporanea violazione collettiva e plurima dei corpi femminili, ma anche, disperati, e non sempre infruttuosi, tentativi di difesa e resistenza da parte delle donne e da parte di chi si trova nei luoghi delle aggressioni.
La prima testimonianza diretta, che viene rilasciata il 21 dicembre 1918, ai commissari Gino di Caporiacco e Umberto Castellani, ed al segretario Claudio Matteini, è quella della ventinovenne Angela Talotti, sposata con Luigi Piazza, di Arta (Tolmezzo), brutalmente stuprata davanti agli occhi dei suoi bambini durante i primi giorni dell’occupazione:
In una notte che non so precisare, ma nei primi giorni dell’invasione austriaca, 4 soldati penetrarono nella mia casa forzando la porta. Io mi trovavo con mio suocero e con i miei piccini, essendo mio marito in servizio militare. Quei forsennati vollero entrare nella mia stanza e mentre tre di essi trattenevano mio suocero che alle mie grida era sopraggiunto, il quarto sfogò su di me la sua libidine alla presenza dei mei figliuoli. Non valsero né le preghiere, né le grida mie e di mio suocero ad impedire l’atto infame, compiuto il quale, i quattro manigoldi rubarono lardo, salami e quant’altro potesse essere loro utile[11].
Per le donne raccontare questi spiacevoli e drammatici episodi non è affatto semplice, specialmente se si considera che le confessioni non si svolgono nelle loro case, in ambienti familiari che avrebbero potuto tranquillizzarle e rendere meno problematici gli incontri, ma quasi sempre in abitazioni altrui e alla presenza di due o tre figure maschili, dove, per lo più, non possono neanche fare affidamento sull’assistenza ed il conforto dei propri cari.
Oltre alle deposizioni rese dalle donne e raccolte dai funzionari della Commissione nei loro sopralluoghi effettuati nelle zone di guerra, di notevole rilevanza sono anche i resoconti stilati da quei funzionari civili ed ecclesiastici che sono rimasti ai loro posti durante l’anno di occupazione. E’ specialmente su queste persone, che con lungimiranza e coraggio hanno deciso di non fuggire dalle proprie responsabilità, che la Commissione si appoggia per iniziare ad indagare sui fatti criminosi.
La popolazione della provincia di Udine risponde alla precaria e difficile situazione con contegno ed umiltà fino alla liberazione della città che ha inizio il 3 novembre 1918 con l’ingresso della prima pattuglia dell’esercito nazionale, nel momento in cui sul castello cittadino viene nuovamente innalzata la bandiera tricolore italiana.
Belluno, invece, viene occupata il 10 novembre 1917, contemporaneamente da truppe germaniche ed austro-ungariche. Anche qui, come ad Udine, dove dei sindaci di tutti i comuni della provincia solo un terzo rimane al proprio posto, si verifica la fuga precipitosa delle autorità amministrative e militari, che abbandonano i cittadini al proprio destino.
Questi ultimi, però, di loro iniziativa, cercano di porre un freno all’anarchia dilagante e diffusa, costituendo, specialmente nei centri più importanti, “dei comitati cittadini provvisori per la difesa della vita e degli interessi dei cittadini presenti e dei beni degli assenti[12].
Il Direttore dell’ospedale civile della città, il dottor Francesco Agosti, nella deposizione rilasciata nella sua casa il 14 dicembre 1918, sottolinea che le violenze carnali sono rimaste in massima parte ignorate, poiché, specialmente nelle campagne, il pudore “inibiva le vittime a denunciare l’onta patita”. Infatti secondo la morale sessuale che si è andata affermando in quegli ultimi decenni, “la castità e la purezza” rappresentavano le “virtù patriottiche”[13] per eccellenza e la loro perdita avrebbe gettato un’ombra indelebile non solo sulla donna, ma sull’intero nucleo familiare.
Le tre province di Treviso, Venezia e Vicenza non sono invase integralmente, ma soltanto alcuni distretti vengono coinvolti direttamente dall’occupazione. Nella provincia di Treviso, dove 47 comuni sui 96 totali subiscono l’invasione, sono state raccolte deposizioni di altre vittime delle brutalità nemiche.
Nonostante questa differenza superficiale e che sapeva tanto di ulteriore beffa per le tante vittime innocenti, tutte le denunce avanzate nei mesi di guerra rimangono senza conseguenze penali per gli autori dei reati.
Bilancio degli stupri in Friuli Venezia Giulia e Veneto
La documentazione esaminata e contenente le testimonianze dirette delle donne, le deposizioni dei testimoni oculari, i resoconti ed i rapporti delle autorità civili ed ecclesiastiche ed il materiale raccolto da alcuni Comandi d’Armata, offrono un’immagine desolante dell’anno di occupazione e danno un’idea chiara del fenomeno degli stupri consumati nei territori italiani, nonostante la mancata denuncia della maggior parte delle violenze.
Nel IV volume delle Relazioni finali pubblicate dalla Commissione, all’interno del piccolo spazio dedicato ai “delitti contro l’onore femminile”, si afferma che quasi ogni comune ha avuto “vittime più o meno numerose”[14], ma non si totalizza il numero effettivo dei casi accertati.
Tuttavia dal VI volume delle Relazioni, che riporta integralmente tutti i documenti raccolti nei territori invasi, è possibile effettuare un conteggio finale riguardante le cinque province: 44 sono le denunce raccolte direttamente dai funzionari e 46 i rapporti inviati dalle autorità locali alla Commissione.
Di queste 90 denunce è possibile fare un’ulteriore distinzione: 36 sono relative a casi di stupri accompagnati dall’assassinio o dal ferimento di chi cercava di sottrarre la vittima alla violenza nemica o della vittima stessa; 9 fanno riferimento a violenze carnali perpetrate su vecchie e inferme, e 14 su bambine; infine 31 riguardano casi di violazioni praticate “con minacce a mano armata”.
Il materiale prodotto dalla Commissione ci delinea un quadro profondamente inquietante e terrificante dell’anno di occupazione, che contrasta molto con la documentazione ufficiale austriaca, “soprattutto quella fotografica” che, avendo scopi propagandistici, aveva tracciato “quadretti idilliaci di convivenza e di collaborazione”[15] tra i soldati e la popolazione civile.
Dalle dichiarazioni delle vittime di fronte ai funzionari della Commissione d’inchiesta non sempre trapela l’offesa a loro arrecata e il dolore fisico e morale realmente provato; dalla lettura e dall’analisi delle carte emerge, invece, la loro esitazione ed incertezza, dovuta probabilmente alla paura di essere condannate moralmente dagli uomini.
Nel continuo riferimento alle loro resistenze contro gli assalitori, nell’estremo ed ultimo tentativo di difesa, si avverte quasi la necessità di doversi giustificare per dei fatti di cui non avevano nessuna responsabilità. Difatti, il sospetto, assai diffuso in tempo di pace, che grava sulle donne, “quello cioè di non aver opposto una convinta ed effettiva resistenza” ai tentativi di violenza, aleggia “pesantemente sugli stupri di guerra con delle implicazioni simboliche ben più gravi”[16].
Un’immediata e triste conseguenza delle violenze carnali, oltre ai casi di danni psichici e di malattie veneree, sono i tanti bambini innocenti lasciati in eredità dal nemico, che causano dissidi e lacerazioni, a volte irreparabili, all’interno delle famiglie coinvolte.
Note:
[1] A. Corbin, La violenza sessuale nella storia, Laterza, Roma, 1992, p. V.
[2] J. Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[3] A. Gibelli, Guerra e violenze sessuali: il caso Veneto e Friulano, in L. Palla – G. Procacci, “La memoria della grande guerra nelle Dolomiti”, Gaspari, Udine, 2001, p. 195. Sull’allegoria femminile della Nazione e sulle sue origini classiche si veda: A. M. Banti, L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino, 2005.
[4] B. Bianchi, La violenza contro la popolazione civile nella grande guerra, Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano, 2006, p. 21.
[5] A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, cit., p. 292.
[6]In Savoia!, n.1, 27 giugno 1918, p.4, in M. Isnenghi, Giornali di trincea 1915-1918, Einaudi Editore, Torino, 1977, pp. 165-166.
[7] La documentazione si trova presso l’Archivio Centrale dello Stato e consiste in 22 Buste.
[8] Altri 18 Ufficiali dell’Esercito componevano la Segreteria: i Tenenti del Genio, Ercole Calda, Elvidio Moroni, Mario Mortara, Alberto Persico, Piero Sraffa, Giuseppe Zpolsky; il Capitano di Artiglieria, Giuseppe Righetti; i due Capitani della Croce Rossa Italiana, Ugo Baracchi e Lamberto Marchetti; il Tenente di Fanteria, Giuseppe Donati; il Sottotenente di Fanteria, Lodovico Varcasia; i Sottotenenti d’Artiglieria, Filippo Giordani e Leopoldo Gnocchi; i Tenenti d’Artiglieria, Antonio Longana, Eugenio Re ed Emilio Bacchiani; il Cancelliere Giudiziario, Claudio Matteini; il Capitano Medico, Mario Mauro.
[9] Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, vol. IV, Bestetti e Tumminelli, Milano – Roma, 1920-1921, p. 150.
[10] Ibidem, vol. I, p. 112.
[11] ACS, Ibidem, Busta 1, fascicolo 18, N. 2.
[12] Relazioni della reale Commissione d’inchiesta, cit., vol. IV, p. 64.
[13] B. P. F. Wanrooij, Storia del pudore, cit., p. 58.
[14] Relazioni della Reale Commissione, cit., vol. IV, p. 152.
[15] A. Gibelli, La grande guerra degli italiani, cit., p. 290.
[16] B. Montesi, Il frutto vivente del disonore. I figli della violenza, l’Italia, la Grande guerra, in M. Flores (a c. di), “Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento”, Franco Angeli Editore, Milano, 2010, p. 69.
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- B. Bianchi, La violenza contro la popolazione civile nella grande guerra, Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano, 2006.
- A. M. Banti, L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino, 2005.
- A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, Rizzoli, 2014.
- M. Flores (a c. di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Franco Angeli Editore, Milano, 2010.