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Prodromi: finisce il boom economico, iniziano tensioni e paura
“Figlia” della situazione del tempo, ovvero della Guerra fredda, la “strategia della tensione” è stato il periodo più buio e controverso del secondo dopoguerra italiano. Una situazione che nessun altro Paese ha vissuto, sebbene alcune Nazioni europee hanno avuto a che fare con episodi di terrorismo (in Germania e Spagna con la RAF e l’ETA), e si è temuto che l’Italia potesse precipitare in una sorta di guerra civile o ad un ribaltamento dell’ordine democratico.
La “strategia della tensione” ha portato incertezza politica, sociale ed economica: le insicurezze sono dovute, in primis, alla situazione particolare che il nostro Paese vive dal 1948, con un forte partito di centro catalizzatore di voti (la Democrazia cristiana), il partito comunista più forte del blocco occidentale (il Partito Comunista Italiano) e due partiti antisistema uno erede della tradizione della Repubblica Sociale Italiana (il Movimento Sociale Italiano) e l’altro espressione dell’ideologia imperante nel blocco orientale (lo stesso PCI). Nel 1961, per la prima volta, entra nella compagine di governo il Partito Socialista Italiano ( governo Moro I) e, politicamente, alla parola “centro” si affianca “sinistra”.
La “strategia della tensione” è successiva al boom economico (1954-1966), rapido nei progressi ottenuti e con ricchezza diffusa tra tutti gli italiani tanto da aumentare la natalità, azzerare la disoccupazione e con molti nostri connazionali che si spostano in maniera massiccia dalle zone del Mezzogiorno verso la parte settentrionale del Paese per cercare fortuna, non andando più solo all’estero.
Il motivo? Al Nord ci sono le fabbriche, al Nord c’è più possibilità di lavoro, al Nord si vive (economicamente) meglio. Nasce l’economia del benessere, gli italiani acquistano le prime televisioni e beni di consumo, portando alla circolazione di un numero di automobili superiore rispetto al passato e tante famiglie possono andare in vacanza in estate. L’Italia post 1945 sembra lontana decenni.
Ma il benessere sociale si scontra con una empasse politica ed istituzionale che porta la gente in piazza a manifestare e protestare vivamente. Le manifestazioni ci sono anche prima nel nostro Paese, ma sull’onda lunga di ciò che avviene nelle università americane e nelle piazze francesi, l’Italia è travolta dalle prime manifestazioni studentesche e dagli scioperi nelle fabbriche. Vengono occupate le università (la prima è la Facoltà di Sociologia a Trento) e poi le aule delle scuole superiori: è la guerra in Vietnam a portare i giovani a capire che i tempi sono cambiati e che il Mondo deve cambiare, cercando la pace e l’uguaglianza tra i popoli.
In Italia le proteste raggiungono il clou nel 1968, anno in cui tutta l’Europa vive una situazione simile in molti Paesi (Francia e Germania Ovest), oltre ai fatti della “primavera di Praga”. La prima rivolta studentesca in Italia accade il 1° marzo 1968 a Valle Giulia a Roma (sede della Facoltà di Architettura), dove studenti di sinistra e di destra si coalizzano e si scontrano in maniera molto compatta e coesa contro le forze dell’ordine: la “battaglia di Valle Giulia” porta a 58 studenti feriti, 158 poliziotti feriti e oltre 230 persone fermate.
Quello è stato lo starter che porterà all’impennata delle proteste e degli scontri violenti di piazza: mai più studenti di destra e sinistra si uniranno tra loro, ma iniziano a combattersi aspramente.
Le basi della guerra rivoluzionaria: il convegno dell’Istituto militare “Alberto Pollio”
Nel 1965, l’anno successivo all’attuazione del “piano Solo” (un tentativo di colpo di Stato ideato dall’allora Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni de Lorenzo, con l’impiego dei carabinieri e che avrebbe visto un cambio istituzionale e l’enucleazione di persone da un luogo ad un altro), in un hotel della capitale, il Parco dei Principi, viene organizzata una tre giorni di dibattiti, incontri e seminari cui partecipano molti militari, ma anche giornalisti, esperti di strategie militari ed esponenti della destra eversiva nazionale.
Ad organizzare questo convegno è l’Istituto militare “Alberto Pollio”, un centro studi vicino ad ambienti militari fondato dai giornalisti Enrico De Boccard e Gianfranco Finaldi, con il supporto di Edgardo Beltrametti, anch’esso giornalista. Tra le persone che vi partecipano e diedero il loro contributo ci sono Pino Rauti, Guido Giannettini, Stefano delle Chiaie, Mario Merlino, Pio Filippani Ronconi, persone i cui nomi rieccheggeranno durante gli anni della “strategia della tensione” e che saranno più o meno coinvolte nelle varie inchieste.
Al Parco dei Principi si parla di una “guerra rivoluzionaria” che vede contrapposti da un lato il capitalismo e dall’altro il comunismo, il blocco occidentale contro quello orientale, con l’Italia immersa in questa lotta ideologica con la paura che possa essere o invasa dal nemico comunista o vedere il partito comunista diventare il primo partito. Tutto questo deve essere evitato e per evitarlo c’è da attuare una sorta di “contro-guerra”, segreta e psicologica. La vulgata dice (anche se non è stato mai provato) che proprio da questo simposio vengono poste le basi per i fatti di sangue e di paura che iniziano nel 1969 con l’esplosione di due bombe alla Fiera di Milano e che si chiudono a Bologna sabato 2 agosto 1980.
Milano, Brescia, “Italicus” e non solo: stragi, morti e paura
“Strategia della tensione” fa rima con “bombe”. La prima bomba che lascia vittime è quella alla filiale milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a poche centinaia di metri da piazza Duomo: sono le 16:37 del 12 dicembre 1969 quando, all’interno della sala contrattazioni dell’istituto di credito, un ordigno esplode causando 16 morti e ottantotto feriti. Quel giorno altri ordigni scoppiano ancora a Milano (vicino alla Scala e presso la locale Banca Commerciale) e a Roma (nei pressi di una filiale della Banca Nazionale del Lavoro e all’Altare della Patria).
A oggi non si sa ancora chi siano i mandanti e gli esecutori della strage di piazza Fontana: all’inizio si pensa siano stati gli anarchici, ma poi le indagini si spostano verso la destra eversiva. Gli errori durante le indagini sono diversi, tanto che ancora oggi è avvolta nel mistero la morte di Giuseppe Pinelli avvenuta il 15 dicembre 1969, quando l’anarchico muore dopo una caduta dal quarto piano della Questura di Milano dove si sta tenendo l’interrogatorio nei suoi confronti poiché accusato di aver collocato la bomba nella banca.
“Responsabile” della morte di Pinelli è additato il commissario Luigi Calabresi poiché Pinelli cade dalla finestra del suo ufficio (il quale poi è ucciso a Roma il 17 maggio 1972 da un commando di Lotta continua, un movimento extraparlamentare di sinistra).
La strage di piazza Fontana è un fulmine a ciel sereno sull’Italia e i funerali delle vittime portano in piazza Duomo migliaia di persone. Nessuno pensa che in Italia ci possa essere un evento luttuoso di quel tipo perché un conto sono gli scontri di piazza ed un conto è una bomba che cambia la vita di sedici famiglie.
Ma dal 1970, e per i dieci anni successi, non c’è solo la strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura ma altri eventi tragici colpiscono il nostro Pase: la prima la strage di Gioia Tauro, il 22 luglio 1970 quando una bomba causa il deragliamento del “Treno del sole” Siracusa-Torino che porta alla morte sei persone e al ferimento di altre sessantasei. La Calabria quell’anno sta vivendo i “moti di Reggio” quando, con la nascita delle Regioni e le loro prime elezioni, si decide che il capoluogo regionale sarà Catanzaro e non Reggio, la città più grande della Regione.
Il 31 maggio 1972 c’è la strage di Peteano che causa la morte di tre carabinieri ed il ferimento di altri due chiamati a controllare una autovettura sospetta che, non appena i cinque militi le si avvicinarono, esplose.
Il 17 maggio 1973 c’è la strage della Questura di Milano dove, durante la scoperta di un busto in ricordo del commissario Carlo Calabresi, morto l’anno prima, viene lanciata sui partecipanti una bomba che causa quattro morti ed il ferimento di altre cinquanta persone. Poco prima del lancio di quella bomba, è presente alla commemorazione l’allora Ministro degli Interni, Mariano Rumor.
Nel 1974 scoppiano due bombe che gettano nello sgomento il Paese: il 28 maggio in piazza della Loggia, a Brescia, durante una manifestazione sindacale antifascista, da un cestino dei rifiuti, scoppia un ordigno che causa 8 morti e centodue feriti.
Il 4 agosto, poco prima di entrare nella Grande galleria appenninica, nei pressi del Comune di San Benedetto Val di Sambro, sul treno diretto Roma-Monaco di Baviera, scoppia una bomba in uno scompartimento del treno diretto “Italicus” partito da Roma Termini e diretto a Monaco di Baviera che causa 12 morti e quarantotto feriti. Per queste stragi, i responsabili sono stati esponenti della destra eversiva. Di queste, solo la “strage dell’Italicus” non ha ancora responsabili.
Due colpi di stato mancati: dal golpe Borghese al golpe bianco
Durante la “strategia della tensione”, una paura da parte degli italiani è stato il possibile cambio di assetto istituzionale del Paese attraverso un colpo di stato. E tra il 1969 ed il 1980 sono stati due, nel giro di quattro anni, i tentativi di golpe ed i loro promotori sono due persone totalmente diverse tra loro: Junio Valerio Borghese e Edgardo Sogno, ideatori, rispettivamente, del “golpe dell’Immacolata” e del “golpe bianco”.
Borghese è discendente di una nobile ed influente famiglia romana che conta tra i suoi avi un papa (Paolo V), diversi cardinali e molti militari di carriera. Junio Valerio Borghese a sedici anni entra in Marina e durante il fascismo fa carriera fino a diventare capitano di fregata. Borghese è comandante del sommergibile “Sciré” che affonda le corazzate inglesi “Valiant” e “Queen Elizabeth” nel porto di Alessandria d’Egitto, uno dei maggiori successi italiani nel conflitto e che vale a Borghese la medaglia al valor militare: è il 18 dicembre 1941.
Con la caduta del regime, Borghese aderisce alla RSI e prende in comando della flottiglia Decima Mas, “orgoglio” dello Stato fantoccio alleato con i nazisti. Alla fine della guerra Borghese è arrestato ed accusato di crimini di guerra, accusato anche di collaborazionismo con i tedeschi e condannato a due ergastoli per aver ordinato di compiere attività di rastrellamento, deportazione ed uccisione degli arrestati: il crimine più grave commesso dagli uomini di Borghese è l’eccidio di Valmozzola, nel Parmense, del 17 marzo 1944 quando sono uccisi sette partigiani come ripicca per gli scontri contro i nazifascisti avvenuti cinque giorni prima.
Nel 1949, i due ergastoli si tramutano in una condanna a 12 anni anche grazie all’amnistia di Togliatti, poi ridotti a tre anni. Tornato in libertà, Borghese si avvicina al Movimento Sociale Italiano, diventandone un punto di riferimento tanto da diventarne presidente onorario, ma lo lascia nel 1968 per creare il Fronte nazionale: nel suo pensiero, il partito della Fiamma è troppo moderato. Il FN troverà in Avanguardia nazionale e Ordine Nuovo due ottimi alleati.
Junio Valerio Borghese, detto “Il principe nero”, è noto per il tentativo di colpo di Stato. Il “golpe Borghese” si sarebbe dovuto effettuare la notta tra il 7 e 8 dicembre 1970 e per questo motivo è stato chiamato “golpe dell’Immacolata” o “operazione Tora Tora”: nel primo caso perché l’8 dicembre è il giorno in cui si festeggia la festa cattolica della Immacolata concezione, nel secondo quello è il nome dell’operazione con cui l’aviazione giapponese, l’8 dicembre 1941, attacca la base americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii, dando il là all’ingresso statunitense nella Seconda guerra mondiale.
Il golpe ideato da Borghese arriva ad un soffio dal compimento, tanto che il “principe nero” ha già pronto il proclama da leggere in televisione con cui avvisa gli italiani che nel Paese c’è stato un cambio di regime. Nel piano dei congiurati, tutte le persone “scomode” sarebbero state arrestate e deportate in luoghi dove non avrebbero creato problemi ai golpisti: sarebbero stati arrestati sindacalisti, il Capo dello Stato ed il capo della Polizia, Angelo Vicari, sarebbe stato ucciso. Tutto è stato pensato nei minimi dettagli, facendo convergere i congiurati verso la capitale ed occupare diversi posti strategici.
Alle ore 20.30 si da il via alle operazioni e alle 23 circa molti luoghi prestabiliti sono occupati, al largo di Civitavecchia si muovono delle navi provenienti dalla Sardegna con l’intento di caricare oppositori e sindacalisti (l’elenco è da tempo stilato) e condurli tra l’isola di Ponza e la Sardegna. Al Viminale sono prese le armi e le munizioni, al Ministero della Difesa ci sono il colonnello Giuseppe Lo Vecchio e i suoi uomini, mentre i forestali si muovono, guidati dal maggiore Luciano Berti, in direzione della RAI.
I punti nevralgici del piano sono presso un cantiere del costruttore edile Remo Orlandini nel quartiere Montesacro, zona nord est della città, la palestra di via Eleniana, sede dell’AssoParacadutisti dell’ex tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci, la sede romana di Avanguardia Nazionale di via Arco della Ciambella (vicino al Pantheon).
Il comando “politico” delle operazioni è presso l’ufficio di Mario Rosa, un ex maggiore dell’esercito e segretario organizzativo del Fronte nazionale, in via Sant’Angela Merici, nei pressi di via Nomentana. A capo del settore “politico” ci sono Borghese, Rosa, il generale dell’Aeronautica in pensione Giuseppe Casero, il colonnello dell’Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio ed il capitano dei Carabinieri Salvatore Pecorella. Poi intorno alle 01:30 tutto si ferma, c’è un contrordine e il golpe non si attua.
Il 17 marzo 1971 esce la notizia sul quotidiano romano “Paese sera”: l’Italia scopre i fatti e tutti rimangono stupiti. Il titolo è “Scoperto un complotto di estrema destra. Un piano eversivo contro la repubblica”: il nostro Paese poteva diventare come la Grecia ed iniziano subito le indagini con i primi arresti, tra cui Mario Rosa, Sandro Saccucci, Remo Orlandini e Borghese. Solo che il “principe nero” nel frattempo è scappato all’estero, stabilendosi a Cadice dove morirà il 26 agosto 1974. Intervistato durante il suo “soggiorno” in terra andalusa, Borghese non si pente del suo gesto e afferma che tutto è stato fatto per salvaguardare il caos e la paura nel Paese.
Le indagini alzano il coperchio su una situazione ingarbugliata: coinvolgimento dei servizi segreti, paura del comunismo, un golpe tentato solo con l’idea di rafforzare la sicurezza nel Paese con leggi speciali. La domanda cui ancora oggi nessuno sa, e saprà mai, rispondere è: chi ha chiamato Borghese intimandogli di far annullare il colpo di Stato? Mistero ancora oggi a 51 anni dai fatti, anche se i congiurati sono stati accusati di aver tentato un “golpe da operetta”.
Nell’agosto 1974 gli italiani scoprono che qualcuno ha pensato, un’altra volta, ad un colpo di stato per ribaltare l’assetto nazionale: il “golpe bianco” si sarebbe dovuto svolgere in maniera indolore, pacifica, senza proclami televisivi o uso di armi. Ad idearlo non è un militare ex repubblichino, né un gruppo di neofascisti armati e “bombaroli”: l’ex ambasciatore ed esponente del Partito Liberale Italiano, Edgardo Sogno.
Sogno, come Borghese, ha origini nobili ma combatte come partigiano durata la Seconda guerra mondiale ed è eletto membro dell’Assemblea costituente. Successivamente serve il Paese come ambasciatore in Argentina, Francia, Gran Bretagna, Stati uniti e, per poco tempo, in Birmania. Una persona di spessore e degna di rispetto che nessuno avrebbe mai pensato che volesse compiere un colpo di stato, anche se diverso al concetto di colpo di stato perché il suo intento è quello di attuare un colpo di Stato di stampo presidenzialista ed instaurare un nuovo governo ed un nuovo sistema politico.
Al suo fianco, il giornalista torinese Luigi Cavallo e l’ex deputato repubblicano Randolfo Pacciardi, fondatore dell’Unione Democratica per la Nuova Repubblica, un movimento esterno al PRI nato nella metà dei Sessanta.
La data per il golpe è il 10 agosto 1974 con gli italiani in vacanza al mare, le città deserte e tutti con la testa altrove: si deve convincere Leone alle dimissioni, allo scioglimento delle Camere ed instaurare la nuova forma di governo, passando da un regime parlamentare ad un regime politico dove è il popolo ad eleggere direttamente il Presidente della Repubblica, che sarebbe sia capo di Stato che di governo.
Sogno è arrestato e nel 1978 lui, Cavallo e Pacciardi sono prosciolti dalle accuse loro rivolte perché si scopre che il golpe è solo a mala pena ideato e non realizzato. E’ detto però “bianco” perché non c’è violenza e spargimento di sangue. Infatti Sogno pensa di far diventare l’Italia una repubblica presenziale sulla logica della V Repubblica francese e lui, anticomunista, vuole dare una “sterzata” al Paese onde evitare pericoli da parte dei comunisti viste le difficoltà economiche-politico-sociali dell’Italia. Ed è convinto che l’Italia possa finire come il Cile nel novembre 1970 con la vittoria elettorale del socialista Allende, esautorato dei suoi potere con il golpe di Pinochet l’11 settembre 1973.
Destra eversiva e sinistra extraparlamentare marxista, i due baluardi politici
Con la “strategia della tensione”, gli italiani conoscono anche le parole “terrorismo” e “lotta armata”, che li accompagneranno per oltre un decennio. Il terrorismo e la lotta armata che caratterizzano l’Italia in quel tragico periodo sono di tipo ideologico in quanto si scontrano due sfere politiche diverse: la destra eversiva di stampo neofascista e la sinistra extraparlamentare “rossa”, diverse ma aventi in comune la volontà di sovvertire l’ordine costituito in Italia. Non riuscendoci.
La “strategia della tensione” è anche movimentistica ed extraparlamentare, trainata da forze politiche che sono collocate al di fuori del Parlamento (e per la maggior parte illegali).
Saranno le forze di estrema destra, di matrice neofascista, a fare la parte del leone in questo periodo, spinte dal fatto che la destra radicale comanda ovunque in Sud America, in Europa è trainata dai Paesi mediterranei e che è considerata un baluardo contro l’avanzata comunista nel Mondo.
Come detto, sono la destra estrema e la sinistra filo-marxista a dominare la scena, ma le forze reazionarie di destra hanno avuto l’appoggio di una parte dello Stato, quello “deviato”, i servizi segreti, i servitori dello Stato cui non sta bene una preponderante forza dei comunisti, anche perché l’Italia è in una posizione delicata nell’Europa occidentale con un Partito Comunista molto forte e la paura che Roma possa passare sotto l’ala dell’Unione sovietica è molto forte e ciò è da impedire.
E’ al Nord che si sviluppano le violenze e la maggior parte delle stragi. Questi movimenti politici hanno nomi e ispiratori, i cosiddetti “cattivi maestri”. Le principali organizzazioni di destra sono state Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale ed il Fronte nazionale ed i loro leader sono stati Giuseppe Rauti, Stefano delle Chiaie e il generale Junio Valerio Borghese. Nella seconda metà degli anni Settanta i gruppi neofascisti più forti sono Terza posizione e i NAR.
A sinistra, il movimento più noto è quello delle Brigate rosse. Caratterizzato da una bandiera rossa con i mezzo una stella dentro un cerchio, l’evento più tragico che questa organizzazione commette è il sequestro di Aldo Moro il 16 marzo 1978 ed il suo assassinio cinquantacinque giorni dopo, il 9 maggio. Oltre al gruppo guidato da Curcio, Franceschini, Gallinari e Moretti, altre sigle rilevanti (a livello di violenza ed ideologia) sono state Prima linea, Potere Operaio, Avanguardia operaia, Lotta Continua e i Proletari Armati per il Comunismo.
La città che subisce pesantemente questo clima è Milano. Il motivo è facile da intuire, perché a Milano è nato il fascismo (i Fasci di combattimento diventati poi Partito Nazionale Fascista), Milano è stata la capitale morale della Repubblica Sociale Italiana, Milano è stata la capitale morale della Resistenza e ci sono stati i fatti di piazzale Loreto. Ma anche il periodo appena successivo alla fine della guerra il capoluogo lombardo ha visto la nascita dei primi gruppi neofascisti e, durante gli anni della Contestazione, inizia a diffondersi un clima di violenza molto forte tra le strade.
A Milano ci sono i “sanbabilini”, i giovani neofascisti che si radunano nella piazza di san Babila, “imbevuti” di ideologie rivoluzionarie, violenti, fanatici e al centro della cronaca nera locale con pestaggi ed omicidi di nemici “rossi”. L’apice della stagione “sanbabilina” è il “giovedì nero” quando, il 12 aprile 1973, a seguito del lancio di due bombe contro le forze dell’ordine dopo l’annullamento del comizio del leader missino calabrese Ciccio Franco, muore il poliziotto Antonio Marino.
Dal punto di vista della destra, gli “anni di piombo” si dividono in due epoche: l’epoca nazional-rivoluzionaria, che termina nel 1974, e quella dello “spontaneismo armato”, che dura fino ai primissimi anni Ottanta. Roma diviene la “capitale” della seconda parte della “strategia della tensione”, caratterizzata da un’impennata della violenza e delle morti. La prima azione è l’omicidio del magistrato Vittorio Occorsio il 10 luglio 1976 a Roma per mano dell’ordinovista Pierluigi Concutelli: i “neri” colpiscono per la prima volta un simbolo dello Stato, ora diventato nemico. Sono due i momenti più caldi di quel periodo: la morte dello studente greco Mikis Mantakas (28 febbraio 1978) e la strage di Acca Larentia (8 gennaio 1978), punto di non ritorno di una generazione di militanti di destra a Roma.
Per l’estrema sinistra, il periodo più caldo è il quadriennio 1974-1978, iniziato con la morte dei missini padovani Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola dentro la sede cittadina del partito della Fiamma il 17 giugno 1974: quello è il primo omicidio effettuato dalle Brigate rosse, anche se l’azione dentro la sede del MSI doveva essere solo un atto dimostrativo. Invece sfocia nella morte di due persone estranee comunque alla violenza che dilaga nella città veneta in quegli anni.
Il momento clou della violenza delle Brigate rosse è l’assassinio di Aldo Moro. In mezzo, tanti omicidi mirati: il procuratore generale di Genova, Francesco Coco, l’omicidio dei militanti missini Sergio Ramelli, Mario Zicchieri, ed Enrico Pedenovi, diversi poliziotti ed il vice direttore della Stampa Carlo Casalegno.
Bologna, 2 agosto 1980, ore 10:25: la peggior strage di tutte
La “strategia della tensione” si fa finire con la strage di Bologna e con gli arresti dei militanti neofascisti nel biennio 1980-1982, che coincidono anche con gli ultimi fuochi delle forze di estrema sinistra. Il terrorismo finisce anche perché tutti i leader sono arrestati e quelli in libertà capiscono che il tempo delle rivolte, delle proteste, degli omicidi a scopo politico è terminato. Il “vento” sta cambiando e con esso cadono anche tutte le ideologie che hanno governato la parte malsana del Paese.
La mattina di sabato 2 agosto 1980, alle ore 10:25, a Bologna avviene il fatto più tragico non solo della “strategia della tensione” ma di tutto il secondo dopoguerra italiano: esplode una bomba all’interno della sala d’attesa di seconda classe della stazione ferroviaria che costa la vita a 85 persone e ne ferisce altre duecento.
Le indagini si spingono subito verso la matrice politica di destra: vengono accusati della strage i NAR dei fratelli Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini, minorenne al momento della strage. La Provincia di Bologna subisce la seconda strage in appena sei anni e il suo “simbolismo” (è un feudo comunista) spinge gli inquirenti a volgere lo sguardo verso la destra eversiva neofascista ed in particolare le due sigle allora più forti, NAR e Terza posizione.
Gli imputati si professano sempre innocenti, ma il 23 novembre 1995, la sentenza definitiva, dopo quindici anni di processi e alcuni errori e i “soliti” depistaggi, con l’ergastolo per strage a Mambro, Fioravanti e Cavallini mentre il 9 gennaio 2020 è condannato anche Gilberto Cavallini. Con la strage di Bologna si fa terminare (comunemente) la “strategia della tensione”: complessivamente, perdono la vita 428 persone e oltre duemila sono i feriti.
Pertanto, possiamo concludere e riassumere la strategia della tensione con le parole dello storico Carlo Fumian, docente di Storia contemporanea e Storia globale all’Università di Padova presso il Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità, nonché presidente del Centro Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea:
In estrema sintesi, la strategia che sia le indagini dei magistrati sia la ricerca storica hanno individuato è semplice: destabilizzare l’ordine pubblico per ristabilire l’ordine politico in chiave autoritaria, ossia sterilizzare il pericolo di una deriva di sinistra del sistema politico italiano. L’obiettivo finale non era dunque il colpo di Stato (che rimane comunque il sogno dei gruppi neofascisti e di alcuni settori delle forze armate, che i servizi strumentalizzano abilmente), bensì quello di una «stabilizzazione conservatrice» in senso filoatlantico.
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- N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Sperling & Kupfer, Milano, 2006
- A cura di A. Ventrone, L’Italia delle stragi: Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati protagonisti delle inchieste (1969-1980), Roma, Donzelli editore, 2019
- A. Baldoni, Anni di piombo. Sinistra e destra: estremismi, lotta armata e menzogne di Stato dal Sessantotto a oggi, Sperling & Kupfer, Milano, 2009