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Martedì 28 maggio 1974, la strage di piazza della Loggia
Brescia è nota per essere la “leonessa d’Italia” per via della resistenza dei suoi abitanti contro l’esercito austroungarico durante le sue dieci giornate (23 marzo-1 aprile 1849), ma nel Novecento Brescia è nota per i fatti accaduti il 28 maggio 1974 nella centrale piazza della Loggia: una bomba esplode mentre è in corso una manifestazione sindacale antifascista indetta contro le violenze e gli attentati accaduti in città in quei mesi del 1974.
La manifestazione porta nella centrale piazza cittadina migliaia di persone sparse tra la piazza e al riparo sotto i portici della stessa in quanto sta piovendo. Alle ore 10:12, quando Franco Castrezzati, leader della Cisl bresciana, stava parlando si sente uno scoppio: urla, caos ed un fuggi-fuggi di persone impaurite dall’esplosione e dalla eventualità che possano esserci ancora altri scoppi.
Quella bomba causa la morte immediata di sei persone: Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Euplo Natali, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi e Clementina Calzari, moglie di Alberto Trebeschi. Il 1° giugno muore Luigi Pinto ed il 15 giugno anche Vittorio Zambarda a seguito delle gravi ferite riportate. Le vittime totali sono otto, i feriti centodue.
La città di Brescia e l’Italia rimangono senza parole dinnanzi ad un’altra strage, la quarta compiuta dai fatti di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, quando un’esplosione all’interno della sala contrattazioni della Banca Nazionale dell’Agricoltura causa 17 morti e ottantotto feriti. Le altre stragi sono quella di Gioia Tauro (22 luglio 1970, che causa sei morti e settantasette feriti. Solo negli anni Novanta viene riconosciuta come strage), Peteano (31 maggio 1972, con tre carabinieri morti), della Questura di Milano (17 maggio 1973, dove una bomba a mano causa quattro morti e quarantasei feriti durante la presentazione di un busto commemorativo in ricordo di Luigi Calabresi).
La strage di piazza della Loggia a Brescia rientra a pieno titolo nella fase storica della “strategia della tensione” caratterizzata da paura ed insicurezza dovuta alle lotte politiche senza quartiere e la paura di assistere ed essere coinvolti, in sparatorie, tumulti o attentati. Tante persone perdono la vita in questo periodo, di cui molti giovani e tanti portano per tutta la vita i segni delle violenze e delle esplosioni.
Il 31 maggio si tengono i funerali solenni delle vittime cui partecipano l’allora Capo dello Stato, Giovanni Leone, il Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, il sindaco della città, Bruno Boni, le sigle sindacali e tante persone comuni. Si è contata la presenza di oltre seicentomila persone arrivate da tutta Italia per rendere omaggio alle sei vittime. Oltre seimila operai svolgono il servizio di sicurezza della piazza al posto della forze dell’ordine. La domanda è: perché Brescia? La risposta è da ricercare nei fatti che vedono la città dei santi Faustino e Giovita teatro di molte azioni di personaggi e sigle eversive di destra in quel periodo.
La situazione bresciana del tempo: attentati, violenze, paure
Città medaglia d’argento durante la Resistenza, Brescia era stata amministrata, dalla nascita della Repubblica, da sindaci democristiani ed era considerata, come la vicina Bergamo, una città molto cattolica. Ma negli ultimi tempi, la città e la provincia sono teatro di azioni e di personaggi vicini al neofascismo e ai movimenti extraparlamentari allora più forti, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, oltre ad una serie di industriali che vedono di cattivo occhio il confronto sindacale.
Nel 1974, tra febbraio e maggio, la “leonessa d’Italia” vede molte azioni violente: lo scoppio di un ordigno in un supermercato Coop rivendicato dalle SAM (Squadra Azione Mussolini) il 15 febbraio; l’8 marzo, dentro la Chiesa delle Grazie, il rinvenimento di due bombe; il 9 marzo, in Valcamonica, i neofascisti bresciani Kim Borromeo e Giorgio Spedini vengono fermati, grazie ad una “soffiata”, dalle forze dell’ordine con a bordo oltre trecento candelotti di dinamite e 5 milioni di lire in contanti; il 23 aprile scoppia una bomba a mano davanti alla sede del Psi; il 1° maggio davanti all’ingresso della Cisl viene trovata borsa con all’interno otto candelotti di dinamite e del tritolo, pronti ad esplodere.
Ma il fatto più grave avvenne intorno alle 3 di mattina del 19 maggio quando, in piazza Mercato, un boato scuote la città dormiente: Silvio Ferrari, 21enne neofascista bresciano, muore sul suo ciclomotore per via dello scoppio di un ordigno che tiene tra le gambe ed il suo corpo è dilaniato. Nei pressi dell’incidente, è rinvenuta una pistola 7.65 carica ed il giornale neofascista “Anno zero”. Il 21 maggio, giorno dei suoi funerali, partecipano diversi militanti neofascisti che ingaggiano scontri con le forze dell’ordine.
La morte di Ferrari è la goccia che fa traboccare il vaso ed il 23 maggio viene deciso che cinque giorni dopo ci sarà una manifestazione contro i fatti violenti in città ed il dilagare del neofascismo e della paura. Vi prenderanno parte la cittadinanza, i sindacalisti e politici locali. I lavori di preparazione del palco e della sicurezza iniziano intorno alle ore 8 e si fanno spostare i carabinieri dal solito posto davanti al portico di piazza della Loggia dall’altra parte della piazza cosicché i partecipanti possano sistemarsi al riparo dalla pioggia.
I gruppi di partecipanti si trovano in Piazza Repubblica, Porta Trento e Piazza Garibaldi per poi muoversi in piazza della Loggia. Tra i relatori, il sindacalista Franco Castrezzati della Cisl e l’onorevole Adelio Terraroli. Il primo a parlare dal palco sarà proprio Castrezzati davanti ad una folla di oltre tremila persone. Nulla però fa presagire al peggio.
Indagini, processi, condanne: un’attesa (quasi) infinita per la sentenza
Iniziano subito le indagini per risalire a chi abbia posizionato la bomba e chi sia il mandante della strage. Una cosa però è certa: c’è dietro un movente politico chiaro perché se, ad esempio, in piazza Fontana, si era colpito un luogo pubblico “casuale”, a Brescia l’obiettivo è una manifestazione sindacale antifascista cui avrebbero preso parte migliaia di persone di una parte politica. Si esclude quindi che gli attentatori siano forze di estrema sinistra o il gesto singolo di un folle, ma si punta subito all’eversione neofascista.
Le indagini sono sin dall’inizio difficoltose tra errori, depistaggi, verità nascoste e segreti: un qualcosa di “normale” durante i processi di tutti i fatti accaduti durante la cosiddetta “strategia della tensione”. Ci sono stati tre filoni di indagini:
- il primo, con il pm Francesco Trovato ed il giudice istruttore Domenico Vino, vede coinvolto il neofascista bresciano Ermanno Buzzi ed un gruppo di suoi “adepti”;
- il secondo, con il sostituto procuratore Besson e il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, vede l’incriminazione, tra gli altri, di Giancarlo Rognoni del gruppo “La Fenice” e di Cesare Ferri, vicino ai “sanbabilini” milanesi;
- il terzo filone gli ordinovisti veneti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Marcello Soffiatti.
Per il primo filone, le indagini si chiudono il 17 maggio 1975 e sono rinviati a giudizio Buzzi e altre quindici persone. Il 2 luglio 1979 c’è la sentenza che condanna Buzzi all’ergastolo e Angelo Papa (uno dei ragazzi a lui politicamente più vicini) a dieci anni e sei mesi per strage. Tutti gli altri imputati sono assolti.
Si scopre che il 21 maggio, giorno del funerale di Ferrari, arrivò una lettera al “Giornale di Brescia” a firma del “PNF sezione Silvio Ferrari” la cui pubblicazione fu vietata dal prefetto, mentre il 27 maggio, giorno prima della stage, arrivò un’altra lettera ad un giornale locale (La stampa di Brescia) a firma “Ordine nero Organizzazione Anno Zero-Brixien Gau”: entrambe parlavano dell’uso di bombe. Nonostante queste minacce, il giorno dopo, durante la preparazione del palco e della messa in sicurezza della piazza, non vengono prese in considerazioni le minacce e non sono fatti controlli approfonditi.
Nell’aprile 1981 c’è l’appello perché troppe cose non sono chiare, in particolare con le parole del neofascista Ugo Bonati, che poi scompare e di cui si perdono tutte le tracce. Il 13 aprile 1981 Buzzi è ucciso nel supercarcere di Novara dai neofascisti Mario Tuti (leader del Fronte Nazionale Rivoluzionario) Pierluigi Concutelli (membro di Ordine Nuovo) per la colpa di essere un “confidente” delle forze dell’ordine e per non farlo più parlare.
Il 2 marzo 1982 la Corte d’appello di Brescia emette una nuova sentenza: assoluzione per tutti, anche per Papa e Buzzi per la strage. Compreso anche il figlio del magistrato Giovanni Arcai, Andrea: Arcai padre era titolare dell’inchiesta sui fatti che vedevano coinvolto il Mar di Carlo Fumagalli toltagli perché il figlio era indagato per strage.
Il secondo filone è aperto grazie alle testimonianze dei pentiti neofascisti Sergio Calore e Angelo Izzo, che dicono che i responsabili della strage sono da trovare nei neofascisti milanesi e bresciani, in particolare in Giancarlo Rognoni e Cesare Ferri. Il secondo processo per la strage inizia nel marzo 1984 e nel 1986 c’è il rinvio a giudizio per Ferri, Rognoni e Alessandro Stepanoff e Marco Ballan. Il 25 maggio 1987 c’è la sentenza e tutti sono assolti, così come in appello e in Cassazione. A distanza di tredici anni, la strage di piazza della Loggia non ha ancora un mandante ed un esecutore.
Il terzo filone, guidato dai giudici Roberto Di Martino e Francesco Piantoni, si focalizzano sugli ordinovisti veneti già coinvolti con i fatti di piazza Fontana. In particolare si focalizzano su Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio, Delfo Zorzi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo informatore del Sid.
Tramone aveva detto ai servizi che nel 1974 si erano tenute riunioni di Ordine Nuovo, sciolto l’anno prima per ricostruzione del disciolto partito fascista e che voleva tornare ad essere operativo in clandestinità, tra cui quella del 25 maggio ad Abano Terme dove si decise che ci sarebbe stato l’attentato di Brescia e che tempo dopo la strage ci sarebbero stati altri attentati per portare il Paese nella paura e cercare lo scontro totale con il regime democratico.
Il 16 novembre 2010 sono assolti dalla Corte di Assise di Brescia Zorzi, Maggi, Pino Rauti, il generale Delfino e Maurizio Tramonte, l’ordinovista molto vicino ai servizi segreti. Il 14 aprile 2012 è poi confermato il primo grado: assoluzione per i cinque precedenti.
Si teme che la strage resti impunita, con dispiacere dei parenti delle vittime, dei feriti e dell’Italia intera. Senonché il 21 febbraio 2014, a pochi giorni dal quarantennale della strage, la Cassazione stabilisce la necessità di un altro processo nei confronti di Tramonte e Maggi, annullando la sentenza ed il 22 luglio 2015 i due sono condannati all’ergastolo dalla Corte di Assise di appello di Milano.
Nel 2017 si è arrivati alla conclusione del processo: il 20 giugno la Cassazione conferma le pene del 2015, condannando Maggi e Tramonte alla pena dell’ergastolo. Sulla strage è parso chiaro che alcuni membri dei servizi segreti ebbero un ruolo importante tra depistaggi, protezioni e conoscenza dei fatti ancora prima che accadessero. Questi servizi segreti sono stati definiti “deviati” e si scopre che in tutte queste azioni ebbero un ruolo anche i militari.
Maggi, morto nel dicembre 2018, si scopre essere legato con le stragi di Milano di piazza Fontana e della Questura, mentre Tramonte è ancora in carcere e si professa da sempre innocente. A differenza della strage di piazza Fontana, la strage di Brescia ha i suoi colpevoli e giustizia è stata fatta, ma nulla cancellerà i fatti di quel piovoso 28 maggio 1974 quando alle ore 10:12 esplose una bomba che colpì gente innocente e cambiò la vita di otto famiglie.
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- P. Casamassima, Piazza Loggia. Brescia, 28 maggio 1974. Inchiesta di una strage, Sperling &Kupfer, 2014.
- G. Feliziani, Lo schiocco. Storia della strage di Brescia, Limina, 2006.
- N. Rao, Il sangue e la celtica. Dalle vendette antipartigiane alla strategia della tensione. Storia armata del neofascismo, Sperling & Kupfer, 2008.