CONTENUTO
Come anticipato in un precedente articolo[1], fino al XVIII secolo non esistevano dubbi circa l’esistenza di Gesù di Nazareth. Quanto narrato su di lui nei Vangeli e nelle fonti extra evangeliche esistenti non era messo in discussione. L’avvento dell’Illuminismo ha fatto, da un lato, nascere dubbi e contestazioni intorno alla figura del Nazareno ma, dall’altro, ha paradossalmente favorito la nascita e lo sviluppo di una ricerca che si avvalesse del metodo storico-critico per indagare sull’attendibilità delle fonti stesse.
Tale metodo, che comprende un insieme di principi e criteri filologici ed ermeneutici sviluppati a partire dal XVII secolo, è applicabile universalmente – dunque non solo ai Vangeli e a quanto è stato scritto in riferimento al Nazareno – e si pone l’obiettivo di ricostruire un testo nella sua forma originaria, nel momento in cui se ne sono tramandate diverse varianti, valutando il contenuto storico della narrazione del testo stesso.
L’applicazione pervicace, spesse volte ideologica, del metodo storico-critico ha tuttavia condotto a una sorta di scissione tra il “Gesù storico” (pre-pasquale) e il “Cristo della fede” (post-pasquale) e obbligato la Chiesa cattolica stessa a ricorrere all’esegesi biblica, alla ricerca filologica sui Vangeli e all’archeologia per fugare tutti i dubbi circa l’esistenza storica di Gesù, arrivando ad affermare, in particolare nell’ambito del Concilio Vaticano II, “con fermezza e senza alcuna esitazione la storicità” dei Vangeli, che “trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo[2]”.
L’affermazione della Chiesa cattolica, ovviamente, è particolare, in quanto riunisce nella figura di Gesù di Nazareth sia il “Gesù storico” che il “Cristo della fede”. Nondimeno, ad oggi la stragrande maggioranza degli storici (siano essi cristiani, ebrei, musulmani, di altre religioni o non religiosi) non ha dubbi nell’affermare che l’uomo Gesù di Nazareth sia davvero esistito. Non solo: si va accumulando una quantità sempre più grande di prove storiche e archeologiche che consentono non solamente di confermarne numerosi particolari circa l’esistenza terrena, ma di legittimare quanto di lui narrato dai documenti che maggiormente a lui si riferiscono: i Vangeli e altri scritti neotestamentari.
L’approccio al “Gesù storico”: la ricerca storica
La ricerca storica su Gesù di Nazareth si divide generalmente in tre fasi[3]:
- Prima ricerca (First Quest, oppure Old Quest), inaugurata da Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) e il cui principale esponente è stato il francese Ernest Renan (celebre il suo Vita di Gesù).
- Seconda ricerca (New Quest o Second Quest), iniziata, di fatto, dal celebre Albert Schweitzer (1875-1975), il primo a evidenziare i limiti della Prima ricerca, ma ufficialmente nel 1953 dal teologo luterano tedesco Ernst Käsemann (1906–1998), allievo di Rudolf Bultmann (1884-1976), in risposta proprio a quest’ultimo, il quale, da principale esponente di un periodo conosciuto come No Quest (nessuna ricerca), sosteneva che non vi fosse alcun bisogno, per un cristiano, di ricorrere all’indagine storica su Gesù di Nazareth, in quanto la sola fede doveva essere sufficiente per credere.
- Terza ricerca (Third Quest), quella prevalente oggigiorno. Ne fanno parte studiosi come David Flusser (1917-2000), autore di scritti fondamentali sull’antico giudaismo e convinto, come molti altri ebrei israeliani contemporanei, che i Vangeli e gli scritti paolini rappresentino, insieme ai rotoli di Qumran, la fonte più ricca e più attendibile per lo studio del giudaismo del Secondo Tempio, essendo altri materiali andati completamente perduti con le grandi catastrofi delle tre Guerre Giudaiche[4] (tra il 70 e il 132 d.C.).
La cosiddetta Prima ricerca, in sintesi, si contraddistingue per la negazione sistematica e ideologica, secondo i criteri dell’illuminismo razionalista, di tutti gli eventi miracolosi e prodigiosi legati alla figura di Gesù, pur senza mettere in dubbio la sua esistenza in quanto uomo e personaggio storico, ma si scontra ben presto con i limiti derivati dal suo stesso ideologismo, come evidenziato da Albert Schweitzer.
Nessuno tra i protagonisti di questa fase di ricerca, tuttavia, ha mai rivolto l’attenzione al contesto storico e alle fonti archeologiche, sebbene lo stesso Renan abbia romanticamente fatto riferimento alla Palestina come a un “quinto vangelo”.
La Seconda, dal canto suo si caratterizza per l’ammissione della necessità di non rigettare il “Cristo della fede” tout court, come avvenuto nella fase precedente, ma di dover prendere in considerazione tutto il materiale pervenuto su Gesù di Nazareth, inclusi gli eventi prodigiosi, in modo critico e non aprioristico.
Lo stesso vale, e ancor di più, per la Terza, i cui esponenti si concentrano maggiormente sul contesto storico, religioso e culturale della Giudea dell’epoca, che negli ultimi decenni ci è più noto grazie anche ai ritrovamenti dei manoscritti di Qumran (1947) e alle clamorose scoperte archeologiche.
Le fonti storiche su Gesù di Nazareth
Possiamo raggruppare le fonti che ci forniscono informazioni su Gesù di Nazareth in tre tipologie, che andremo ad analizzare:
- Fonti non evangeliche: da una parte le fonti non cristiane; dall’altra le fonti cristiane (a loro volta suddivise in: apocrife, ovvero i Vangeli apocrifi, gli àgrafa e i lògia; canoniche, cioè le Lettere paoline, gli Atti degli Apostoli e altri documenti canonici);
- Fonti evangeliche: i quattro Vangeli canonici;
- Fonti archeologiche.
Fonti non evangeliche: documenti storici non cristiani
Tra queste fonti si trovano accenni a Gesù o, soprattutto, ai suoi seguaci. Sono opera di autori antichi non cristiani come Tacito, Svetonio, Plinio il Giovane, Luciano di Samosata, Marco Aurelio, Minucio Felice. Allusioni a Gesù di Nazareth si leggono altresì nel Talmud babilonese. Le informazioni fornite da tali fonti non si rivelano particolarmente utili, giacché non forniscono notizie dettagliate su Gesù.
Talora, anzi, volendo sminuirne l’importanza o la legittimità del culto da lui nato, vi si riferiscono in modo impreciso e calunnioso, parlandone, ad esempio, come figlio di una pettinatrice, o di un mago, oppure ancora di un certo Pantera, una trascrizione, e di conseguenza un’interpretazione, erronea del termine greco parthenos, vergine, utilizzato già dai primi cristiani in riferimento alla persona di Cristo.
I documenti storici non cristiani, tuttavia, permettono già di avere delle conferme circa l’esistenza di Gesù di Nazareth, sebbene attraverso notizie frammentarie[5]. Il più antico e ricco di dettagli, fra essi, è il celebre Testimonium Flavianum[6], dell’autore ebreo Giuseppe Flavio, del I secolo d.C.
Il brano in questione si trova all’interno dell’opera Antichità giudaiche (XVIII, 63-64). Fino al 1971, ne circolava una versione che si riferiva a Gesù di Nazareth con termini considerati eccessivamente sensazionalistici e devoti per un ebreo osservante qual era appunto Giuseppe Flavio. Si sospettava, infatti (sebbene diversi storici non condividano tale opinione) che la traduzione greca sino ad allora conosciuta fosse stata oggetto di interpolazione da parte dei cristiani.
Nel 1971, invece, il professor Shlomo Pinés (1908-1990), dell’università ebraica di Gerusalemme, ne pubblicò una traduzione diversa, conforme a quanto da lui rinvenuto in un manoscritto arabo del X secolo, la Storia universale di Agapio (morto nel 941). Si tratta di un testo considerato maggiormente attendibile di quello greco tramandato fino a quel momento, dato che in esso non si individuano possibili interpolazioni, tanto da essere universalmente considerato, ad oggi, la più antica testimonianza su Gesù di Nazareth all’interno di una fonte non cristiana.
Ne riportiamo qui di seguito il passo:
“Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso, e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”.
Altra importante testimonianza è quella del pagano Tacito, il quale, nei suoi Annali (intorno all’anno 117 d.C.), trattando di Nerone e dell’incendio di Roma del 64 d.C., e riferisce che l’imperatore, per sviare le voci che lo volevano colpevole del disastro che aveva quasi totalmente distrutto la capitale dell’Impero, ne avesse dato la colpa ai cristiani, conosciuti allora dal popolo come crestiani:
“L’autore di questa denominazione, Cristo, sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; ma, repressa per il momento, l’esiziale superstizione erompeva di nuovo, non solo per la Giudea, origine di quel male, ma anche per l’Urbe, ove da ogni parte confluiscono e sono esaltate tutte le cose atroci e vergognose” (Annal., XV, 44).
Fonti non evangeliche: documenti cristiani apocrifi
Àgrafa e Lògia
Gli Ágrafa, cioè “non scritti”, sono brevi detti o aforismi attribuiti a Gesù e che, tuttavia, sono stati tramandati al di fuori della Sacra Scrittura (Grafè) in generale o dei Vangeli in particolare.
Analogo discorso può essere fatto per i Lògia (detti), anch’essi brevi sentenze attribuite al Nazareno, in ciò del tutto simili agli Àgrafa, salvo per il fatto che questi ultimi sono rinvenuti più tipicamente in opere dei Padri della Chiesa[7] o in taluni codici particolari del Nuovo Testamento, mentre i Lògia sono contenuti prevalentemente in frammenti di antichi papiri scoperti più di recente soprattutto in Egitto[8].
Tali fonti non sono considerate autorevoli, da un punto di vista storico, in quanto, almeno per gran parte di esse, non si è certi dell’attendibilità storica.
I Vangeli apocrifi
Per Vangeli apocrifi (termine che deriva dal greco e sta a indicare qualcosa da nascondere o che è riservato a pochi e, per estensione, un’opera del cui autore non si è certi) s’intendono quei numerosi (se ne contano ad oggi una quindicina) ed eterogenei documenti su Gesù di Nazareth non accolti nel canone biblico cristiano per svariati motivi: la tardività di questi rispetto a quella dei Vangeli canonici (in media un secolo di differenza, ove per i Vangeli canonici si parla di redazione risalente alla seconda metà del I secolo d.C.); la forma testuale distinta da quella canonica (quest’ultima caratterizzata da organicità espressiva e linguistica e stile semplice e scevro di sensazionalismi, in contrasto con l’alone leggendario e fiabesco degli apocrifi); l’intenzione di trasmettere dottrine in contrasto con quelle ufficiali (si tratta spesso di documenti gnostici, costruiti “ad arte” al fine di diffondere nuove dottrine e giustificare posizioni politiche e religiose di singoli o gruppi).
Va detto che l’attendibilità di tali documenti non è stata esclusa e scartata in toto (vi sono in essi, ad esempio nel Protovangelo di Giacomo, racconti e tradizioni dell’infanzia di Gesù, della vita di Maria o di particolari apostoli che sono entrati nell’immaginario popolare cristiano) e che questi sono in grado di fornire una panoramica religiosa e culturale dell’ambiente del II secolo d.C.
Tuttavia, le contraddizioni in essi contenute, la non conformità con i testi considerati ufficiali, nonché le evidenti deficienze in materia di dottrina, veridicità e indipendenza di giudizi non permettono di attribuire loro autorevolezza da un punto di vista storico, come avviene pure per gli Àgrafa e i Lògia.
Fonti non evangeliche: documenti cristiani canonici
Lettere paoline e Atti degli Apostoli
Le Lettere paoline, o Lettere di San Paolo Apostolo, fanno parte del Nuovo Testamento. Sono state scritte tra il 51 e il 66 da Paolo di Tarso, più noto come San Paolo, definito Apostolo delle genti in quanto con lui la predicazione cristiana varcò i confini dell’Asia occidentale. Questi non incontrò mai personalmente Gesù, eppure i suoi scritti rappresentano i documenti più antichi sul Nazareno, oltre a stabilire senz’ombra di dubbio che il kerygma[9], vale a dire l’annuncio sull’identità di Gesù in quanto figlio di Dio nato, morto e risorto secondo le Scritture, era già fissato a meno di vent’anni dalla sua morte sulla croce.
Ulteriori notizie possono essere individuate in altri scritti del Nuovo Testamento, specialmente negli Atti degli Apostoli. Questi ultimi sono una cronaca delle imprese degli apostoli di Gesù di Nazareth posteriormente alla morte di lui, con particolare attenzione a Pietro e a Paolo di Tarso. La paternità di tale opera è attribuita all’autore di uno dei Vangeli sinottici, Luca (o Lucano) e, con ogni probabilità, sono stati redatti tra il 55 e il 61 d.C. (la narrazione s’interrompe bruscamente, infatti, con la prima parte della vita e della prigionia di Paolo a Roma, non con la sua morte, avvenuta pochi anni più tardi).
Se si analizzano gli Atti degli Apostoli e Lettere paoline, è possibile estrapolarne una biografia di Gesù di Nazareth al di fuori dei Vangeli e notare come, seppur scarna di particolari, questa sia del tutto coerente con quanto narrato dai Vangeli stessi.
Possiamo, infatti, ricavare dagli scritti in questione che Gesù: non fu un’entità angelica, bensì “un uomo” (Romani 5, 15); “nato da donna” (Galati 4, 4); discendente da Abramo (Galati 3, 16) per la tribù di Giuda (Ebrei 7, 14) e per il casato di Davide (Romani 1, 3); sua madre si chiamava Maria (Atti 1, 14); egli era chiamato Nazareno (Atti 2, 22 e 10, 38) e aveva dei “fratelli[10]” (1 Corinzi 9, 5; Atti 1, 14), di cui uno chiamato Giacomo (Galati 1, 19); fu povero (2 Corinzi 8, 9), dolce e mansueto (2 Corinzi 10, 1); ricevette il battesimo da Giovanni Battista (Atti 1, 22); raccolse discepoli con cui visse in relazione costante e di grande vicinanza (Atti 1, 21-22); dodici di essi furono chiamati “apostoli”, e a questo gruppo appartennero, fra gli altri Cefa, ossia Pietro, e Giovanni (1 Corinzi 9, 5; 15, 5-7; Atti 1, 13. 26); nel corso della vita operò molti miracoli (Atti 2, 22) e passò beneficando e guarendo molte persone (Atti 10, 38); una volta apparve ai suoi discepoli gloriosamente trasfigurato (2 Pietro 1, 16-18); fu tradito da Giuda (Atti 1, 16-19); nella notte del tradimento istituì l’Eucaristia (1 Corinzi 11, 23-25), agonizzò pregando (Ebrei 5, 7), fu oltraggiato (Romani 15, 3) e preferito a un assassino (Atti 3, 14); patì sotto Erode e Ponzio Pilato (1 Timoteo 6, 13; Atti 3, 13; 4, 27; 13, 28); fu crocifisso (Galati 3, 1; 1 Corinzi 1, 13. 23; 2, 2; Atti 2, 36; 4, 10) fuori della porta della città (Ebrei 13, 12); fu sepolto (1 Corinzi, 15, 4; Atti 2, 29; 13, 29); risorse dai morti il terzo giorno (1 Corinzi 15, 4; Atti 10, 40); quindi apparve a molti (1 Corinzi, 15, 5-8; Atti 1, 3; 10, 41; 13, 31) ed ascese al cielo (Romani 8, 34; Atti 1, 2. 9-10; 2, 33-34).
Dal confronto tra questa ristretta biografia extra evangelica di Gesù e quella più ampia offerta dai Vangeli, possiamo evincere che nel cristianesimo delle prime generazioni circolavano informazioni univoche sulla figura del Nazareno, tanto più se consideriamo che i documenti in questione, pur se tutti confluiti nel Nuovo Testamento, sono stati redatti da autori distanti e indipendenti tra loro nel tempo e nello spazio
I Vangeli
I Vangeli canonici (ovvero che rientrano nel canone biblico ufficiale delle Chiese cristiane e cui anche gli studiosi non cristiani oggi[11] riconoscono autorevolezza e autenticità storiche) sono quattro: “secondo” Matteo, Marco, Luca (questi primi tre Vangeli sono anche detti sinottici[12]) e Giovanni.
Il termine “vangelo” deriva dal greco εὐαγγέλιον (euangèlion), latinizzato in evangelium ed ha diverse accezioni. Da un lato, nella letteratura greca classica, indica tutto ciò che è legato a una bella notizia, ovvero: la bella notizia in sé; un dono fatto al messaggero che la reca; il sacrificio votivo per la divinità come ringraziamento per la bella notizia.
In senso cristiano, invece, sta ad indicare la bella notizia tout court e ha sempre a che vedere con Gesù di Nazareth. Può essere, in effetti:
- Vangelo su Gesù, cioè la bella notizia tramandata dagli apostoli circa l’opera e l’insegnamento del Nazareno, ma soprattutto la sua risurrezione e la vita eterna (e, in tal senso, si estende anche ai documenti da noi oggi conosciuti come Vangeli);
- Vangelo di Gesù, ovverosia la bella notizia recata, questa volta, da Gesù stesso, che è il Regno di Dio e il compimento dell’aspettativa messianica;
- Vangelo-Gesù, in questo caso la persona di Gesù, donata da Dio all’umanità.
Formazione dei Vangeli
Nei primi anni dopo la morte del Nazareno, il “vangelo” (questa parola ormai raggruppava in sé tutti e tre i significati appena elencati) era trasmesso sotto forma di catechesi, termine che deriva dal greco κατήχησις, katechèsis[13]. Gesù stesso non aveva lasciato nulla di scritto, come gli altri grandi maestri ebrei della sua epoca, detta “mishnaica” (circa dal 10 al 220 d.C.), conosciuti come Tannaìm[14], i quali trasmettevano oralmente la Legge scritta e la tradizione che si andava formando, da insegnante a studente, attraverso la ripetizione costante di passi della Scrittura, parabole, frasi e sentenze (midrashìm, plurale di midrash) costruite in modo poetico e talora in forma di cantillazione[15], utilizzando spesso figure retoriche come l’allitterazione, per favorire l’assimilazione mnemonica di quanto declamato.
Tuttavia, l’ampia “risonanza” ecumenica suscitata appunto da questa “buona notizia” spinse la Chiesa nascente a voler mettere per iscritto, e a tradurlo poi nella lingua colta e universale dell’epoca (il greco) l’annuncio della vita e delle opere di Gesù di Nazareth. Sappiamo infatti che, già negli anni ‘50 del I secolo, circolavano numerosi scritti contenenti il “vangelo” (Luca 1, 1-4). Lo sviluppo di un Nuovo Testamento[16] scritto, tuttavia, non escluse la continuazione dell’attività catechetica orale. Si può dire, anzi, che l’annuncio proseguì, con l’uno e l’altro mezzo, di pari passo[17].
Sempre negli anni ’50, poi, sappiamo dall’infaticabile Paolo (il quale lo comunica ai Corinzi nella sua seconda Lettera che scrive a questa comunità) di un fratello (e non un fratello qualunque, ma “il” fratello) lodato in tutte le Chiese a motivo del Vangelo che aveva scritto. È indubbio che stesse parlando di Luca, essendo questi il fratello che più gli era stato vicino nei suoi viaggi, tanto da aver narrato le sue imprese negli Atti[18].
Ciò confermerebbe quanto emerso dagli studi più recenti sui Vangeli, compiuti da biblisti quali Jean Carmignac[19] (1914-1986) e John Wenham (1913-1996), ossia la necessità di retrodatare i quattro testi considerati sacri dai cristiani di qualche decennio rispetto a quanto fino al secolo scorso ritenuto.
Nonostante nulla di definitivo si possa affermare rispetto alla data esatta di composizione dei quattro Vangeli, secondo gran parte degli esperti tali scritti risalirebbero comunque alla seconda metà del I secolo, ovvero quando molti dei testimoni oculari dei fatti narrati erano ancora in vita.
Essi attingerebbero, comunque, a fonti ancora più antiche, come la cosiddetta fonte Q (dal tedesco quelle, “fonte”), da cui avrebbero tratto molte informazioni Luca e Matteo e che diversi studiosi identificano con una stesura più antica di Marco, e i lógia kyriaká (detti del/sul Signore).
Qui di seguito uno schema che riporta, in modo non esaustivo, lo stato della ricerca intorno ai Vangeli canonici:
- Marco. Si tratta del Vangelo più antico (la cui stesura viene collocata tra il 45 e il 65 d.C.) e che starebbe alla base della triplice tradizione sinottica. Secondo gli studiosi, deriverebbe dalla predicazione di Pietro stesso, in Palestina ma soprattutto a Roma. Jean Carmignac ritiene che questo Vangelo sia stato scritto, o dettato, da Pietro in persona, in ebraico (o in aramaico) verso il 42 e che poi sia stato tradotto in greco (come scritto da Papia di Gerapoli[20] nella sua opera Esegesi dei Lògia Kyriakà) da Marco, hermeneutès (traduttore) di Pietro, intorno al 45 (come sostenuto anche da J. W. Wenham) o, al massimo, al 55.
- Matteo. La stesura di questo Vangelo è collocata intorno al 70 o all’80 d.C. Sarebbe frutto di una raccolta di discorsi in ebraico (lògia), messa insieme e utilizzata dall’apostolo Matteo tra il 33 e il 42 d.C. nel corso della sua attività evangelizzatrice presso gli ebrei di Palestina (la fonte Q utilizzata anche da Luca) e completata, secondo Carmignac, non verso il 70, bensì intorno al 50[21].
- Luca. Anche questo Vangelo, secondo molti studiosi, sarebbe stato scritto intorno al 70 o all’80. È opinione diffusa che quello di Luca sarebbe il Vangelo compilato in maniera più accurata, da un punto di vista storico, e attingerebbe dalla fonte Q (utilizzata anche da Matteo e che consisterebbe, nell’opinione di svariati storici e biblisti, nella versione più antica del Vangelo di Marco), integrata da ricerche personali compiute sul campo (come dichiarato dallo stesso autore nel Prologo). Carmignac ritiene che l’edizione di Luca risalga al 58-60, se non addirittura a poco dopo il 50 (ipotesi suffragata da Wenham e altri).
- Giovanni. Unico Vangelo non sinottico, è stato a lungo ritenuto il meno “storico” tra i Vangeli, finché un suo studio approfondito non ha fatto emergere che trattasi bensì, da un punto di vista geografico e cronologico, di un documento ancor più preciso rispetto ai precedenti Vangeli. La terminologia ricca e precisa, oltre che chiare e inequivocabili informazioni topografiche, cronologiche e storiche, hanno permesso, tra le altre cose, di ricostruire dettagliatamente il numero di anni della predicazione di Gesù, di datare al meglio, secondo un calendario più preciso, gli eventi della Pasqua, di scoprire reperti archeologici poi identificati con luoghi da egli stesso descritti nel suo Vangelo (il Pretorio di Pilato, la piscina probatica, ecc.). Risalirebbe, per molti, al 90-100 d.C. Carmignac, Wenham e altri lo collocano, invece, poco dopo il 60.
Il Canone
Già nel II secolo d.C., specie in risposta a Marcione, il quale mirava a escludere dal canone cristiano l’Antico Testamento e tutte quelle parti del nuovo che non fossero in linea con i suoi insegnamenti (egli riteneva, infatti, che il Dio dei cristiani non dovesse essere identificato con quello degli ebrei), Giustino (140) ed Ireneo di Lione (180), seguiti poi da Origene, vollero ribadire che i Vangeli canonici, universalmente accettati da tutte le Chiese, dovessero essere quattro. Ciò venne confermato all’interno del Canone Muratoriano (antico elenco dei libri del Nuovo Testamento, risalente al 170 circa).
Per stabilire la “canonicità” dei quattro Vangeli furono seguiti dei criteri ben precisi:
- Antichità delle fonti. Come abbiamo avuto modo di vedere, i quattro Vangeli canonici, risalenti al I secolo d.C., sono tra le fonti più antiche[22] e meglio attestate per numero dei manoscritti o codici (circa 24 mila, tra greco, latino, armeno, copto, slavo antico, ecc.), più di qualunque altro documento storico.
- Apostolicità. Gli scritti, per essere “canonici”, dovevano risalire agli Apostoli o a loro diretti discepoli, come per i quattro Vangeli canonici, la cui struttura linguistica rivela evidenti tracce semitiche (o “semitismi”: ne parleremo più avanti). Va precisato che il termine “secondo”, anteposto al nome dell’evangelista (secondo Matteo, Marco, ecc.) indica che i quattro Vangeli fanno un unico discorso su Gesù in quattro forme complementari[23], che risalgono alla predicazione dei singoli apostoli da cui derivano, in effetti, gli scritti particolari: Pietro per il Vangelo secondo Marco; Matteo (e probabilmente Marco) per quello secondo Matteo; Paolo (e, come abbiamo visto, anche Marco e Matteo) per quello secondo Luca; Giovanni per il Vangelo che porta il suo nome. In pratica, non è tanto il singolo evangelista a scrivere il singolo Vangelo, quanto la comunità, o la Chiesa, nata dalla predicazione di un apostolo del Nazareno.
- La cattolicità o universalità dell’uso dei Vangeli: dovevano essere accettati da tutte le Chiese principali (“cattolico” ha il senso di “universale”), quindi dalla chiesa di Roma, Alessandria, Antiochia, Corinto, Gerusalemme, e dalle altre comunità dei primi secoli.
- L’ortodossia o retta fede.
- La molteplicità delle fonti, ovvero le numerose e comprovate testimonianze a favore dei Vangeli canonici stessi (e qui torniamo a citare, ad esempio, Papia di Gerapoli, Eusebio di Cesarea, Ireneo di Lione, Clemente d’Alessandria, Panteno, Origene, Tertulliano, ecc.).
- La plausibilità esplicativa, cioè la comprensibilità del testo secondo una coerenza di causa ed effetto.
Storicità di Cristo e dei Vangeli: criteri di studio
Oltre alle testimonianze più antiche dei Padri della Chiesa e ai criteri utilizzati già nel II secolo d.C. in documenti quali il Canone Muratoriano, si sono sviluppati, specie in epoca moderna e contemporanea, ulteriori metodi che consentono di confermare i dati storici di cui già siamo in possesso in riferimento alla figura di Gesù di Nazareth e ai Vangeli.
Criteri letterari e redazionali
- Studio delle forme letterarie (Formgeschichte). Tale metodo si basa sull’analisi letteraria dei Vangeli, attraverso la classificazione dei brani evangelici in base alle diverse forme letterarie, per determinare quello che è definito “Sitz im leben”, ovvero la situazione della vita della comunità nella quale la forma letteraria è sorta, e “incarnare”, quindi, l’esistenza del Nazareno e i suoi insegnamenti in un contesto vivo e con esigenze specifiche.
- Studio delle tradizioni orali (Traditiongeschichte). Attraverso lo studio delle forme letterarie preesistenti ai Vangeli, è possibile determinare l’esistenza di tradizioni orali più antiche, anche nella terminologia utilizzata dai redattori dei documenti in questione. Si è in grado, dunque, di individuare una tradizione orale di Pietro (in Marco e Luca), una tradizione di Paolo (in Luca), una tradizione di Matteo e una tradizione di Giovanni.
- Studio dei criteri redazionali degli evangelisti (Redaktiongeschichte). Tale studio, mettendo a confronto il contenuto delle diverse tradizioni orali con le forme letterarie scritte, anche e soprattutto a partire dalle discordanze tra queste, consente di determinare che ogni evangelista non si è limitato a raccogliere dei dati per poi metterli per iscritto, ma li ha organizzati in base a dei suoi criteri ed esigenze particolari (ad esempio, la predicazione a una comunità piuttosto che a un’altra), alla luce dei quali ha unificato tutto il materiale.
Semitismi e analisi filologica
Nei primissimi secoli dell’era cristiana si era ben consapevoli, come abbiamo visto da alcune testimonianze citate, del fatto che almeno due dei Vangeli canonici fossero stati scritti, in origine, in una lingua semitica (ebraico o aramaico). Nel corso del tempo, tuttavia, almeno fino a Erasmo da Rotterdam (1518) si perse come la memoria di tale strato più antico soggiacente alla lingua greca, in cui i testi erano pervenuti fino a noi.
È proprio l’avvio di un serio studio filologico sui testi evangelici che ha consentito, in epoca moderna, di poter ricostruire con maggior precisione quella struttura tipicamente semitica che è alla base dei Vangeli così come li conosciamo oggi.
Le tracce di tale struttura sono definite “semitismi”, e possono essere di varia natura, secondo quanto elaborato da Jean Carmignac: di prestito; di imitazione; di pensiero; di vocabolario; di sintassi; di stile; di composizione; di trasmissione; di traduzione; multipli.
Carmignac stesso ritiene, anche alla luce dello studio della tradizione mishnaica, ovvero di trasmissione orale e poetica dell’insegnamento dei maestri ebrei del periodo inter-testamentario[24], che i semitismi contenuti nei Vangeli sinottici siano talmente numerosi e di diverse specie da rendere evidente il fatto che i Vangeli, almeno Marco e Matteo, siano stati prima scritti in ebraico e poi ritradotti in greco.
Ritraducendo in ebraico il greco neotestamentario, infatti, si riscontrano in questa lingua (più che in quella aramaica) delle assonanze, delle rime, delle allitterazioni e delle ricchezze poetiche che nella prosa greca non sono visibili. La ragione dell’insistenza su tale aspetto, da parte di biblisti e studiosi quali Carmignac, Wenham e molti altri (tra cui vari ebrei israeliani[25]) è duplice.
Stabilire che una parte dei Vangeli sia stata scritta in lingua semitica, infatti, consente, da un lato, una datazione anteriore di un paio di decenni a quanto si era sempre ritenuto, dunque una maggior vicinanza sia ai fatti narrati che ai testimoni diretti (e viventi, all’epoca della redazione), i quali potevano avallare, o smentire, quanto riportato nelle opere sulla vita del Nazareno; dall’altro, una collocazione più armonica della figura di Gesù all’interno del contesto sociale, religioso e culturale del tempo (cosa che, d’altronde, hanno contribuito a fare anche i manoscritti di Qumran).
Per ragioni di spazio e di opportunità, non possiamo dilungarci oltre su tale aspetto. Basti pensare, tuttavia, che chi abbia anche solo un minimo di conoscenza dell’ebraico riesce a individuare nei testi evangelici l’esatta struttura, i costrutti, il lessico di quest’antica lingua semitica.
A una lettura attenta, infatti, pare quasi che la lingua del Nuovo Testamento (almeno quella dei quattro Vangeli canonici) ricalchi fedelmente, nella struttura sintattica, nella terminologia, nel pensiero, nel ritmo quella dell’Antico. Ne forniamo qui di seguito solamente un paio tra i numerosissimi esempi che potrebbero essere citati.
Dal Vangelo di Matteo (3, 9):
Italiano:
Io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare veri figli ad Abramo
Greco:
λέγω γὰρ ὑμῖν ὅτι δύναται ὁ θεὸς ἐκ τῶν λίθων τούτων ἐγεῖραι τέκνα τῷ Ἀβραάμ
Lego gar hymìn oti dynatai o Theos ek ton lithon touton egeirai tekna to Abraam
Ebraico (una delle possibili traduzioni):
אלוהים יכול לעשות מן האבנים האלה בנים לאברהם
Elohìm yakhòl la’asòt min ha-abanìm ha-‘ele banìm le-Avrahàm
Come si può notare, solamente nella versione ebraica esiste un’assonanza tra il termine “figli” (banìm) e il termine pietre (abanìm). Non solo: questo gioco di parole che fanno rima tra loro rientra perfettamente nella tecnica di trasmissione degli insegnamenti basata su assonanze, allitterazioni, parabole, ossimori e contrapposizioni (il famoso cammello che passa per la cruna di un ago) usata dai Tannaiti per far rimanere impresse le loro parole nei discepoli.
L’esempio appena riportato può essere presente anche in aramaico (“pietre”: ‘ebnaya; “figli”: banaya), e tuttavia ve ne sono tantissimi altri che esistono solamente considerando la lingua ebraica come testo originale alla base dei Vangeli sinottici, come nel caso del Padre Nostro (Matteo 6, 12-13), in cui “rimettere i debiti” potrebbe corrispondere alla radice nasa’, “debiti” e “debitori” a nashah e “tentazione” a nasah, o nel brano del Benedictus (Luca 1, 68-79), un componimento di tre strofe, con ciascuna sette stichi, secondo uno schema tipico di Qumran. In esso vi sono, se lo si traduce in ebraico dal greco, delle incredibili assonanze:
- “suscitare una salvezza potente nella casa di Davide” o “salvarci dalle mani dei nostri nemici”, ove “salvezza” corrisponde al termine ebraico yeshu‘a, che è proprio il nome ebraico di Gesù (in ebraico: “Dio salva”, o, semplicemente “salvezza”). L’espressione “suscitare una salvezza potente…” potrebbe, quindi, essere tradotta: “suscitare un Gesù potente”;
- “fare misericordia (o grazia) ai nostri padri”, ove “grazia” corrisponde alla radice ḥanan, che è poi la stessa del nome Giovanni (Yoḥanan, in ebraico: “Dio ha fatto grazia”);
- “ricordarsi della sua santa alleanza”, ove “ricordarsi” corrisponde alla radice zakhar, quella, per intenderci, del nome ebraico Zakharyahu, cioè Zaccaria (in ebraico; “Dio si è ricordato”), padre di Giovanni Battista, che è poi colui che declama il brano in questione;
- “giuramento fatto [giurato] ai nostri Padri” (“giuramento giurato” è una tipica costruzione semitica), ove “giurare” si riconduce alla radice shaba‘, la stessa di Elishaba‘at, cioè Elisabetta (che in ebraico significa: “Dio ha giurato”).
Questi sono solo alcuni esempi di quanto uno studio rigoroso, in termini esegetici e filologici, può permettere di entrare in profondità nei testi evangelici, consentendo una datazione ancor più precisa degli stessi, una più accurata analisi del contesto storico, culturale e religioso in cui sono stati scritti e una maggiore conoscenza del substrato linguistico che ne è alla base.
Criteri di storicità di Cristo e dei Vangeli
Réné Latourelle (1918-2017), celebre teologo cattolico canadese, ha sintetizzato, nel corso di una vita di studi dedicata all’approfondimento della credibilità del cristianesimo, una serie di criteri che consentono di attestare la storicità di Cristo e dei Vangeli[26]:
- Criterio di attestazione molteplice. “Si può considerare autentico un dato evangelico solidamente attestato in tutte le fonti (o nella maggior parte) dei Vangeli”. È il caso, ad esempio, della vicinanza di Gesù nei confronti dei peccatori, che appare in tutte le fonti dei Vangeli. Tale criterio si poggia sulla convergenza e sull’indipendenza delle fonti.
- Criterio di discontinuità. “Si può considerare autentico un dato evangelico (soprattutto quando si tratta delle parole e degli atteggiamenti di Gesù) irriducibile sia ai concetti del giudaismo sia ai concetti della chiesa primitiva”. Si può citare, in questo senso, l’utilizzo, da parte di Gesù, dell’espressione abba, “papà”, per rivolgersi a Dio. Il termine “padre”, inteso nel senso di figliolanza intima e personale nei confronti di Dio, non solamente di Gesù di Nazareth, ma dei cristiani in generale, compare 170 volte nel Nuovo Testamento, di cui 109 solamente nel Vangelo di Giovanni, eppure unicamente 15 volte nell’Antico, e qui sempre con un significato di paternità collettiva, “nazionale” di Dio rispetto al popolo ebraico.
- Criterio di conformità. “Si può considerare come autentico un detto o un gesto di Gesù che è non solo in stretta conformità con l’epoca e l’ambiente di Gesù (ambiente linguistico, geografico, sociale, politico, religioso), ma anche e soprattutto intimamente coerente con l’insegnamento essenziale, il centro del messaggio di Gesù, cioè la venuta e l’instaurazione del regno messianico”. Ne sono un esempio le parabole, le beatitudini, le preghiere e gli insegnamenti tutti orientati all’instaurazione del “regno messianico”, in contrasto, tuttavia, con l’attesa ebraica di un messia politico e terreno.
- Criterio di spiegazione necessaria. “Se, di fronte ad un insieme notevole di fatti o di dati, che esigono una spiegazione coerente e sufficiente, si offre una spiegazione che chiarisce e raggruppa armoniosamente tutti questi elementi (che, altrimenti, resterebbero degli enigmi), possiamo concludere di essere in presenza di un dato autentico (fatto, gesto, atteggiamento, parola di Gesù)”. Come si può applicare questo criterio ai Vangeli? Ad esempio, ammettendo la presenza di una personalità “mastodontica”, quella di Gesù di Nazareth, che è l’unica spiegazione possibile di fronte all’autorità che egli attribuisce a se stesso, alla forza nel contrapporsi ai notabili del tempo e alle loro prescrizioni, al carisma esercitato sulle folle e sui discepoli.
- Un criterio secondo o derivato: lo stile di Gesù, in pratica la sua personalità. R. Latourelle cita due autori diversi per spiegare tale criterio, Reiner Schürmann e Lionel Trilling, nell’enunciare che lo stile di Gesù di Nazareth si caratterizza per una coscienza di sé alquanto singolare, solenne, maestosa che, tuttavia, andava di pari passo con la semplicità, la bontà, la mansuetudine, l’amore per i peccatori, la coerenza totale[27] (in tutti i testi che scrivono di lui non entra mai in contraddizione, e in ciò il suo caso è l’esatto opposto di quello di Maometto, fondatore dell’islam[28]) e la mancanza totale di ipocrisia.
Fonti archeologiche su Gesù: alcuni ritrovamenti fondamentali
Dalla fine del XIX secolo, e per tutto il XX, specie grazie all’impulso del Mandato britannico in Palestina e all’opera instancabile di archeologi cristiani (francescani, in primis) ma anche ebrei israeliani, si sono succedute innumerevoli scoperte archeologiche in quello che è stato l’ambiente della vita di Gesù di Nazareth.
Anzi, è stata proprio l’archeologia a favorire lo sviluppo della Third Quest e, in generale, dell’indagine storica intorno alla figura del Nazareno e del contesto sociale, religioso e culturale in cui questi si muoveva, specie dopo la clamorosa scoperta dei manoscritti di Qumran (1947). Si può tranquillamente affermare, dunque, che l’archeologia è divenuta davvero un “quinto vangelo”, o quantomeno una fonte insostituibile rispetto alla ricerca intorno al “Gesù storico”
A conclusione di questo articolo, riportiamo alcuni tra i più importanti ritrovamenti archeologici che hanno caratterizzato gli ultimi 150 anni e che rispondono a domande o rimostranze dei critici più ostinati[29].
1) Gesù di Nazareth non sarebbe mai esistito, in quanto non vi sono prove dell’esistenza di Nazaret.
Partiamo proprio da Nazareth, allora. Fino agli anni ’60 chi negava l’esistenza di Gesù di Nazareth poiché non si sarebbe mai trovata evidenza di una città chiamata Nazareth nelle Scritture ebraiche precedenti al Nuovo Testamento, si è dovuto ricredere. Infatti, dobbiamo al prof. Avi Jonah, dell’Università di Gerusalemme, il ritrovamento, nel 1962, tra le rovine di Cesarea Marittima, antica capitale della provincia romana della Giudea, di una lapide di marmo con un’iscrizione ebraica del III secolo a.C. che riporta il nome di Nazareth.
Negli anni successivi, poi, una campagna di scavi condotta ove ora sorge la Basilica francescana della Natività, ha potuto riportare alla luce l’antico villaggio di Nazareth e quella che è universalmente ritenuta la casa di Maria da nubile (luogo dei racconti evangelici dell’Annunciazione e dell’Incarnazione) e, in tempi recentissimi, scavi archeologici condotti da équipe israeliane hanno scoperto, sempre a Nazareth, non solo una casa dei tempi di Gesù (I secolo) nei pressi della “casa di Maria”, ma quella che potrebbe essere stata la dimora stessa del nucleo familiare di Gesù, Giuseppe e Maria.
2) Intorno al lago di Galilea non sono state trovate tracce dei villaggi di cui si parla nei Vangeli.
Il Lago di Galilea, nel nord d’Israele, si è rivelato un libro aperto, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso. I primi a condurre scavi di notevole importanza sono stati archeologi come Virgilio Canio Sorbo (che, peraltro, si era già distinto per i suoi importanti lavori nel deserto di Giuda, sul Monte Nebo, alla fortezza erodiana di Macheronte, dove Antipa decapitò il Battista, alla reggia fortezza dell’Herodium presso Betlemme e soprattutto all’interno del Santo Sepolcro), il quale ha, insieme ai suoi collaboratori, interamente riportato alla luce il villaggio di Cafarnao, scoprendo la casa di Simon Pietro e la celebre sinagoga bizantina, che è possibile ammirare oggi e sotto la quale è stato scoperto un più antico edificio romano destinato al medesimo uso.
Nel 1996, invece, una équipe guidata dall’archeologo ebreo israeliano Rami Arav ha rinvenuto i resti del villaggio evangelico di Betsaida Iulia (il borgo di pescatori sulle rive del lago di Tiberiade da cui, come scritto nei Vangeli, provenivano vari discepoli di Gesù).
3) Non esistono prove della presenza di un culto sinagogale prima della distruzione del Tempio, nel 70 d.C.
Le scoperte più recenti hanno dato modo di dimostrare che, ai tempi di Gesù di Nazareth, in Palestina nessun centro abitato, anche se di scarsa importanza, era sprovvisto di sinagoga. Oltre alla splendida sinagoga di Cafarnao, infatti, a partire dagli anni ’60 sono state scoperte numerose strutture sinagogali disseminate in tutta la regione palestinese e nei dintorni.
Va menzionato, a questo proposito, il rinvenimento recentissimo di ben due sinagoghe a Magdala (villaggio nei pressi di Cafarnao, sempre sulle rive del lago di Galilea, databili agli inizi del I sec. d.C.), ove pure è stata scoperta una barca da pesca, intatta, risalente al I sec. d.C. e del tutto simile a quelle descritte nei Vangeli.
4) Non è mai stata dimostrata l’esistenza di Ponzio Pilato, in quanto mai menzionato nei registri ufficiali dell’Impero
Nel 1961 altri archeologi, questa volta italiani, guidati da Antonio Frova, hanno scoperto, in quella che è un’inesauribile fonte di dati, ovvero la solita Cesarea Marittima, una lapide calcarea recante un’iscrizione che fa riferimento a Pontius Pilatus Praefectus Judaeae. Il blocco di pietra, da allora conosciuto come Iscrizione di Pilato, pare si trovasse originalmente all’esterno di un edificio che Ponzio Pilato, descritto nel titulus come Prefetto della Giudea, aveva edificato per l’imperatore Tiberio.
Fino alla data del ritrovamento, nonostante sia Giuseppe Flavio che Filone di Alessandria avessero fatto menzione a Ponzio Pilato, era messa in dubbio la sua stessa esistenza, o quantomeno quella che fosse la sua effettiva carica in Giudea, se di prefetto o di procuratore.
5) Il Vangelo di Giovanni è uno scritto di natura del tutto spirituale e non ha alcuna valenza storica
A Gerusalemme costituiscono due eccezionali scoperte archeologiche il ritrovamento della Piscina di Betesda (oggi il santuario di S. Anna) e del Litostroto, dei quali si erano perdute completamente le tracce. Entrambi sono stati portati alla luce nelle vicinanze della spianata del Tempio, esattamente dove indicato dal vangelo di Giovanni e perfettamente corrispondenti alla descrizione che ne fa quest’ultimo.
Nel primo caso, si tratta di una piscina a cinque portici che circondano un’ampia vasca lunga circa 100 metri e larga dai 62 agli 80, cinta da arcate sui quattro lati, il che permette di dare una veste di plausibilità all’episodio del paralitico (Giovanni 5,1-18) ambientato alla “piscina probatica”.
Nel secondo caso, invece, quello del Litostroto, è stato rinvenuto un cortile lastricato di circa 2.500 metri quadrati, pavimentato secondo l’uso romano (lithostroton, appunto), e un posto elevato, gabbathà (Giovanni 19,13), che potrebbe corrispondere ad una torre. L’ubicazione del luogo, proprio nei pressi della Fortezza Antonia, allo spigolo nord-ovest della spianata del Tempio, e la tipologia di resti portati alla luce, consentono di identificare la sede in cui il governatore, o praefectus, sedeva a emettere sentenze.
6) Non abbiamo prove archeologiche specifiche di come fosse il Tempio all’epoca di Gesù.
Nella zona del Monte del Tempio, raso al suolo dalle truppe di Tito nel 70 d.C., gli archeologi hanno scoperto gli ingressi alla spianata con la porta duplice e triplice a sud, riportando alla luce, così come sono stati distrutti dai romani, i monumentali resti ad ovest che comprendono una strada pavimentata affiancata dai negozi e le fondazioni di due archi, uno detto di Robinson che supportava una scalinata rampante dalla strada, e un altro a campata più larga, quello di Wilson, che collegava direttamente il monte del tempio alla città alta.
Si conosce, poi, la disposizione del portico detto “di Salomone” ed anche altre vie gradinate che vi salivano da est, cioè dalla piscina di Siloe. Ciò consente di immaginarvi gli episodi evangelici su Gesù nel Tempio, come la cacciata dei mercanti (Giovanni 2, 15).
7) Non esistono conferme storiche circa la tecnica di crocifissione e di sepoltura dei condannati a morte in Palestina all’epoca di Gesù[30]. In altri luoghi, tra l’altro, i condannati non venivano seppelliti, anzi, erano lasciati a imputridirsi appesi alle croci, in balia dei saprofagi.
Importantissimo, da questo punto di vista, è il ritrovamento di resti umani, nel 1968, in una grotta a Giv’at ha-Mivtar, a nord di Gerusalemme, di 335 scheletri di ebrei del I secolo d.C., la stessa epoca del Nazareno. Dalle analisi mediche e antropologiche condotte sui cadaveri, molti risultavano deceduti in modo violento e traumatico (presumibilmente crocifissi nel corso dell’assedio del 70 d.C.).
In un ossario di pietra nella stessa grotta, poi, che riportava inciso il nome di Yohanan ben Haggol, vi erano i resti di un giovane di circa 30 anni, con il calcagno destro ancora infisso sul sinistro da un chiodo lungo 18 centimetri. Le gambe risultavano fratturate, una di spezzata di netto, l’altra con le ossa frantumate: era la prima prova documentata dell’uso del crurifragium.
Si tratta di reperti ossei preziosi perché illustrano la tecnica della crocifissione usata dai romani del I secolo che, almeno in questo caso, prevedeva la legatura o l’inchiodatura delle mani alla trave orizzontale (patibulum) e l’inchiodatura dei piedi con un unico chiodo di ferro e un tassello di legno sul palo verticale (tra la testa del chiodo e le ossa del piede di Yohanan è stato trovato un pezzo di legno d’acacia, mentre attaccata alla punta una scheggia di legno d’ulivo con cui era fatta la croce).
La stessa scoperta è altresì di notevole importanza per avallare l’uso ebraico/palestinese di seppellire sempre e comunque i defunti, sebbene condannati al più atroce e abominevole supplizio quale quello della crocifissione, come sostenuto dallo stesso D. Flusser: per un precetto obbligatorio, imposto dalla Legge religiosa, occorreva seppellirli prima del calare del sole[31], in modo da non contaminare la terra santa.
Consenso tra gli archeologi, infine, vi è per l’ubicazione della crocifissione di Gesù sulla roccia del Golgota, ora all’interno del Santo Sepolcro, luogo caratterizzato da numerosi scavi che hanno portato alla luce tombe ivi scavate e databili a prima del 70 d.C.
Quelli che abbiamo appena fornito in questo e nel precedente articolo sono solo alcuni spunti, una goccia nel maremagnum degli studi intorno alla storicità di Gesù di Nazareth, ma ci auguriamo possano servire d’ispirazione a quanti volessero approfondire la conoscenza non solo di una figura fondamentale per tutto il genere umano, ma altresì di usi, costumi e tradizioni lontani nel tempo, certo, ma che hanno segnato la storia del mondo intero.
Articoli:
- Réné Latourelle, “Storicità dei Vangeli”, in R. Latourelle, R. Fisichella (ed.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, 1990, pagg. 1405-1431.
- Pierluigi Guiducci, “La storicità di Gesù nei documenti non cristiani”, in www.storiain.net/storia/la-storicita-di-gesu-nei-documenti-non-cristiani/ (consultato nel dicembre 2020).
- Pierbattista Pizzaballa, “L’archeologia ci parla del Gesù storico”, https://www.gliscritti.it/blog/entry/916 (consultato nel gennaio 2022).
Siti web:
- gliscritti.it
- https://virtualscriptures.org/virtual-new-testament/
Note:
[1] https://www.fattiperlastoria.it/gesu-storico/
[2] Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, nn. 18 e 19
[3] Per approfondimenti su tale questione rimandiamo all’articolo di René Latourelle menzionato nella bibliografia di riferimento.
[4] https://www.fattiperlastoria.it/conflitto-arabo-israeliano/#Storia_degli_ebrei
[5] Pier Luigi Guiducci, “La storicità di Gesù nei documenti non cristiani”, 2015, www.storiain.net/storia/la-storicita-di-gesu-nei-documenti-non-cristiani/, consultato nel dicembre 2020.
[6] Giuseppe Flavio (37 circa-100 circa) fu uno scrittore e storico ebreo, divenuto consigliere dell’imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito Flavio Vespasiano. Nelle sue Antichità giudaiche, cita anche Gesù e i cristiani. In un passo (XX, 200) descrive la lapidazione dell’apostolo Giacomo (il quale era a capo della comunità cristiana di Gerusalemme): “Anano (…) convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione”, descrizione che combacia con quella riportata dall’apostolo Paolo nella lettera ai Galati (1,19. In un altro passo (XCIII, 116-119) lo storico indica la figura di Giovanni il Battista.
[7] Con l’espressione “Padri della Chiesa” si fa riferimento, e sin dal V secolo d.C., ai principali autori cristiani, il cui insegnamento e la cui dottrina sono ancora oggi ritenuti fondamentali per la dottrina della Chiesa e i cui scritti formano la cosiddetta letteratura patristica. Tra i più importanti, considerati anche santi e Dottori della Chiesa: Atanasio, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno, Giovanni Damasceno.
[8] Esempi di Àgrafa sono la frase, attribuita a Gesù da Paolo (in Atti 20, 35): “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (che non si trova in alcuno dei Vangeli) oppure quella che Clemente romano attribuisce al Nazareno nella sua prima Lettera ai Corinzi (cap. 13): “Come farete, così sarà fatto a voi; come darete, così sarà dato a voi; come giudicherete, così sarete giudicati; come sarete benigni, così si sarà benigni con voi”. Dei Lògia, invece, fanno parte sentenze come quelle riportate in antichi documenti, specialmente papiri, quali quelli di Ossirinco (serie di papiri che datano tra il I e il VI secolo d.C., rinvenuti a Ossirinco, in Egitto, tra il XIX e il XX secolo, recanti frammenti di autori antichi, come Omero, Euclide, Livio, ecc. e altresì di manoscritti cristiani, canonici e non canonici), ad esempio: “[Dice Gesù:] …e allora tu vedrai bene d’estrarre la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello” (cfr. Matteo 7, 5; Luca, 6, 42).
[9] Ved. https://www.fattiperlastoria.it/gesu-storico/#14_Il_messaggio_di_Gesu_il_kerygma
[10] Tale termine costituisce un “semitismo”. Per semitismo s’intende la resa in greco – e, di conseguenza, nelle traduzioni successive, dal latino in poi – di una parola o di un’espressione semitica, o, più che la resa, un vero e proprio calco. Attraverso lo studio dei Vangeli, infatti, e di quelli sinottici in particolare (Marco, Matteo, Luca) è possibile individuare un sostrato semitico (ebraico o aramaico) poi tradotto in un greco che ne ricalca pedissequamente la struttura sintattica, grammaticale e di pensiero. In sostanza, come riportato da diversi biblisti, i Vangeli sinottici (e ancor più specificamente quelli di Marco e Matteo) sarebbero delle opere in ebraico o in aramaico ma con parole greche. Nel caso del termine “fratello”, il greco αδελφός (adelphós) traduce l’ebraico e aramaico אָח (aḥ), con cui, tuttavia, nell’accezione semitica, non s’intendono solamente i fratelli “germani”, bensì anche quelli “unilaterali”, i cugini, i parenti in generale così come i membri di uno stesso clan o di una stessa tribù, o addirittura dello stesso popolo. Basti pensare che neppure in ebraico moderno esiste un termine per definire un cugino: lo si chiama semplicemente “figlio dello zio”. Analogo fenomeno si verifica, ad esempio, con il termine “figlio”, in greco υιός (hyiós), che traduce l’ebraico בֵּן (ben) e l’aramaico בר (bar), ove s’intende con tale parola non solamente il figlio di un padre o di una madre, ma anche il membro di una tribù, di un popolo, di una nazione, di una religione (figlio di Abramo, di Beniamino, d’Israele, ecc.) o addirittura una condizione, una caratteristica del carattere e della personalità (come nel caso di Giacomo di Zebedeo e suo fratello Giovanni, ai quali – come leggiamo in Marco 3, 17 – Gesù diede il soprannome di Boanèrghes (Βοανηργες), “figli del tuono”, per evidenziarne l’impetuosità. Secondo i biblisti questa espressione potrebbe derivare dall’aramaico בני רגיש, bené ragàsh o ragìsh o ancora dall’ebraico – e anche aramaico – בני רַעַם, bené ra‛am. Entrambe significano, appunto, “figli del tuono” o “figli della tempesta”. Nell’alfabeto ebraico e aramaico, infatti, le lettere utilizzate per ambedue i termini, specie per alcune grafie come quella tipica di Qumran, sono alquanto similari, il che può dar luogo a errori di lettura e trascrizione.
[11] https://www.fattiperlastoria.it/gesu-storico/#2_Tre_semplici_domande_su_Gesu
[12] Sono chiamati in questo modo perché molti racconti su Gesù sono esposti quasi con le medesime parole, cosa evidente se li si raffronta sia nella versione originale greca che nelle lingue correnti e che rende possibile leggerne molte parti con un solo “colpo d’occhio” (sinossi).
[13] Dal verbo κατηχήω, katecheo, composto dalla preposizione κατά, katá, e il sostantivo ηχώ, echo, cioè “eco”. Il significato di tale verbo è: “far risuonare”, “dare eco”.
[14] La radice tanna (תנא) è l’equivalente aramaico di quella ebraica shanah (שנה), che è anche la radice nella parola Mishnah (il Talmud, insieme alla Mishnah e al Tanakh, è un testo sacro della Legge ebraica. Il Talmud e la Mishnah sono testi esegetici che raccolgono insegnamenti di migliaia di rabbini e studiosi fino al IV secolo d.C.). Il verbo shanah (in ebraico: שנה) significa letteralmente “ripetere [ciò che è insegnato]” e viene usato per significare “imparare”. I Tannaim operarono in special modo sotto l’occupazione dell’Impero Romano.
[15] Ne abbiamo un esempio nel Corano: https://www.fattiperlastoria.it/corano/#Il_Corano_e_la_Sari‛a
[16] Nella seconda Lettera ai Corinzi, datata all’incirca al 54 d.C., Paolo parla della “lettura dell’Antica Alleanza”, o Testamento, nonché di una Nuova Alleanza non più secondo la lettera, come quella antica, ma secondo lo spirito, ovverosia non più incisa sulle tavole, ma sul cuore
[17] A tale proposito, interessante è la riflessione di Francesco di Sales, santo e Dottore della Chiesa cattolica: “In primo luogo, tutta la dottrina cristiana è di per sé Tradizione. Infatti, l’autore della dottrina cristiana è Cristo Nostro Signore in persona, il quale non ha scritto nulla, se non qualche carattere mentre rimetteva i peccati alla donna adultera. [—] A maggior ragione, Cristo non ha ordinato di scrivere. A motivo di ciò, egli non ha chiamato la sua dottrina “Eugrafia”, bensì Evangelo, e tale dottrina ha comandato di trasmetterla soprattutto per mezzo della predicazione, difatti non ha mai detto: scrivete il Vangelo ad ogni creatura; ha detto invece: predicate. La fede, dunque, proviene non dalla lettura, bensì dall’ascolto”. In Siate santi… nella gioia! – Testi scelti per cristiani immersi nel mondo, Itaca, 2018.
[18] Ved. nota 21.
[19] Sacerdote cattolico e biblista francese, è stato un grande esegeta e traduttore dei Manoscritti del Mar Morto, del cui linguaggio è stato uno dei massimi esperti mondiali. Grazie alle conoscenze acquisite in materia, si rese conto che il greco dei Vangeli sinottici ricalcava in maniera impressionante il tipo di ebraico usato nei rotoli di Qumran (fino al 1947 si riteneva che la lingua ebraica in Palestina fosse estinta all’epoca di Gesù, mentre il ritrovamento di centinaia di manoscritti nelle grotte intorno al Mar Morto confermò che l’ebraico, invece, era ancora in uso, al limite come lingua “colta”, almeno fino al termine della Terza Guerra giudaica, nel 135 d.C.). In base ad un approfondito studio linguistico di tali Vangeli, durato un ventennio, divenne un assertore della loro primigenia stesura in lingua ebraica, anziché nel greco in cui ci sono pervenuti e quindi della loro datazione attorno all’anno 50. Carmignac ha presentato questa sua tesi nell’opera La naissance des Évangile synoptiques, pubblicato in Italia con il titolo La nascita dei Vangeli sinottici.
[20] In Esegesi dei Lògia kiriakà, di cui Eusebio di Cesarea cita alcuni estratti in Storia ecclesiastica (Libro III, cap. 39), scrive Papia: “Marco, che era l’hermeneutes [traduttore] di Pietro, ha scritto con esattezza, ma tuttavia senz’ordine, tutto quello che si ricordava, di ciò che aveva detto o fatto il Signore. Poiché egli non aveva ascoltato e nemmeno accompagnato il Signore ma, più tardi, come ho già detto, ha accompagnato Pietro”. Notizie analoghe le abbiamo da Clemente d’Alessandria, Origene, Ireneo di Lione e lo stesso Eusebio di Cesarea.
[21] Informazione confermata da Papia (op. cit.): “Matteo riunisce dunque in lingua ebraica i logia, e ciascuno li hermeneuse [tradusse] come era capace”. Anche Ireneo di Lione (discepolo di Policarpo di Smirne, discepolo, a sua volta, dell’evangelista Giovanni), scrive nel 180 d.C., nella sua opera Contro le eresie: Matteo pubblicò presso gli Ebrei, nella sua lingua materna, uno Scritto di Vangelo, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e fondavano la Chiesa; dopo la loro morte anche Marco, il discepolo e traduttore di Pietro, ci ha trasmesso per iscritto la predicazione di Pietro; Luca, il compagno di Paolo, mise per iscritto quanto da lui predicato”. Analoghe testimonianze antichissime giungono tramite Panteno, Origene, Eusebio di Cesarea.
[22] Il più antico frammento del Nuovo Testamento canonico corrisponde proprio a uno dei Vangeli, quello di Giovanni, ed è il Papiro 52, anche conosciuto come Rylands 457, ritrovato in Egitto nel 1920 e datato tra il II e il III secolo d.C. Da un punto di vista storico è impressionante la vicinanza tra l’edizione dell’opera stessa (come abbiamo scritto, tra il 60 e il 100 d.C.) e la più antica testimonianza scritta di essa rinvenuta, se consideriamo che la prima copia scritta dell’Iliade è dell’800 d. C. mentre si ritiene che l’opera stessa sia stata scritta probabilmente intorno all’800 a. C.
[23] Uno dei primi Padri della Chiesa a far notare la presenza di “discordanze” tra un Vangelo e l’altro è stato Agostino, il quale, tuttavia, parlò di una concordantia discors.
[24] Per una dimostrazione pratica di tale studio, vedere: Jean Carmignac, Ascoltando il Padre Nostro. La preghiera del Signore come può averla pronunciata Gesù, Amazon Publishing, 2020.
[25] A questo proposito, ved. opere di studiosi quali Flusser, Meier e altri.
[26] Réné Latourelle, “Storicità dei Vangeli”, in R. Latourelle, R. Fisichella (ed.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, 1990, pagg. 1405-1431
[27] https://www.fattiperlastoria.it/gesu-storico/#14_Il_messaggio_di_Gesu_il_kerygma
[28] https://www.fattiperlastoria.it/maometto-biografia-nascita-islam/
[29] Per approfondimenti su tale questione rimandiamo all’articolo di Pierbattista Pizzaballa menzionato nella bibliografia di riferimento.
[30] https://www.fattiperlastoria.it/gesu-storico/#13_La_morte_di_Gesu_sulla_croce
[31] “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità” (Deuteronomio 21, 22-23).
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- Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, 1994.
- Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, UTET, 2018.
- Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, Ed. Ares, 2019.
- Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, 1992.
- Joachim Jeremias, Jerusalem in the time of Jesus, Fortress Press, 1969.
- David Flusser, Jesus, Morcelliana, 1997.
- David Flusser, Le fonti ebraiche del cristianesimo delle origini, Gribaudi, 2005.
- Jean Guitton, Le problème de Jésus, Aubier, 1992.
- Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Doubleday, 2017.
- Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, Pannunzio, Torino, 2008.
- Jean Carmignac, Ascoltando il Padre Nostro. La preghiera del Signore come può averla pronunciata Gesù, Amazon Publishing, 2020.
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