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Storia della Germania da Westfalia (1648) a Bonn (1949)

Breve ricostruzione di tre secoli di storia tedesca: dalla pace di Westfalia che mette fine alla guerra dei Trent'anni alla situazione politica del secondo dopoguerra.

di Giuseppe Moscatt
24 Giugno 2025
TEMPO DI LETTURA: 22 MIN
Photograph of National Archives Visit by Theodor Heuss, President of the Federal German Republic (Pubblico dominio)

Photograph of National Archives Visit by Theodor Heuss, President of the Federal German Republic (Pubblico dominio)

CONTENUTO

  • Riflessioni sulla storia della Germania da Westfalia (1648) a Bonn (1949). Tre secoli del vecchio Mondo
  • Storia e società tedesca fra il ‘700 e l’800: un quadro di insieme
  • La Germania di Bismarck (1864-1900)
  • Wagner, Nietzsche, la Grande guerra e la Repubblica di Weimar (1871-1933)
  • Ascesa di Adolf Hitler e le origini del Nazismo (1918-1933)
  • I primi anni del Regime, l’opposizione interna. Il consenso diffuso e l’antisemitismo tedesco (1918 -1945)
  • Il secondo dopoguerra in Germania. L’occupazione alleata, la guerra fredda e le due Germanie (1946-1949)

Riflessioni sulla storia della Germania da Westfalia (1648) a Bonn (1949). Tre secoli del vecchio Mondo

Partendo dall’acuta massima di Lucien Febvre, in cui il famoso storico ricostruisce motivi e circostanze storico culturali sulle origini e lo sviluppo dell’Europa moderna e contemporanea, si metteranno sotto osservazione tre secoli di Storia della Germania: il ‘700 di Goethe e Schiller; l”800 di Bismarck, Wagner e Nietzsche; il ‘900 di Hitler ed Adenauer. Il triangolo di fiumi – Reno, Elba e Danubio – ed i Trattati di Westfalia (1648) e quello di Bonn del 1952, rappresentano i confini storico – temporali di quello che oggi chiamiamo Germania. Pur tra lutti di due guerre civili del secolo scorso che hanno insanguinato il suolo europeo, la Germania oggi resta la Nazione – Simbolo di un’unità continentale di cui non si può fare a meno, a pena di soccombere fra le braccia di Grandi Potenze estranee alla sua immensa cultura, che ha impregnato la nostra realtà continentale.

Storia e società tedesca fra il ‘700 e l’800: un quadro di insieme

Lucien Febvre insigne storico francese, condirettore con Marc Bloch degli Annales – rivista di critica storica del primo dopoguerra, fonte del pensiero storico contemporaneo in quanto adotta il metodo della ricerca fondato sull’Uomo considerato al centro di tutte le attività sociali – scrive nella presentazione della sua L’Europa storia di una Civiltà – riassunto di un corso tenuto al College di Francia fra il 1944 ed il 1945 – che quando i mali si abbattono sul nostro vecchio mondo, è la sua vecchiaia a spiegarli meglio.

Massima che ci pare possa spiegare l’attuale crisi della Germania e dell’Italia democratica, non casualmente i perdenti più noti del Secondo Conflitto Mondiale in Europa, al termine di una guerra civile che durò non meno di un altra guerra analoga, quella dei 30 anni (1618-1648), che veramente può essere considerata il passaggio complessivamente più rilevante del cammino europeo. E dunque partendo dal classico manuale del Lortz – Die Reformation in Deutschland – 2 voll., 1949 – occorre fare una premessa geopolitica, cioè la delimitazione dei caratteri del triangolo territoriale dalla Germania imperiale, localizzato dal Reno ad ovest, dal Danubio a sud e dal Pregel ad est, affluente dell’Elba, ivi compreso Danzica e Königsberg (oggi in buona parte Polonia, ma ieri aree principali del Regno di Prussia).

Territori comprensivi di tre metropoli rappresentative di tre culture armonizzate dall’elmo chiodato. Prussiano. Francoforte, filofrancese, centro del Reno; Berlino, filoslava, ma colonizzata dalla cultura altogermanica scandinava di origine baltica; Monaco di formazione meridionale, influenzata dalla civiltà austriaca veterocattolica. Di religione protestante è  il nord, mentre l’ovest è tollerante, per non dire libertino e laico, mentre con punte di deismo critico è la società formatasi sulla riva destra del Reno.

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Lo spirito aggregativo prussiano – le antiche usanze paramilitari, il denaro protocapitalista, la politica di Potenza, l’onore della razza superiore, l’obbedienza indiscussa allo stato unitario; l’ordine e la precisione; la esaltazione del Potere e la fede nel Kaiser – costituisce l’Impero federale tedesco, nato nel 1871 nella Reggia di Versailles, guidato dal Bismarck, il politico più famoso del decimo secolo nono, erede del Metternich, il plenipotenziario magnifico oppositore di Napoleone e supremo ordinatore dell’Europa nel 1815, promotore di un equilibrio fa le Nazioni della Restaurazione, stabile fino al 1848, quando l’età delle Nazioni per un momento sembra tramutarsi in quella delle Democrazie, ma che già nel 1849-1850 diventa l’età degli Imperi.

La geostoria dell’Europa trova nel Bismarck, fino al 1890, il protettore della politica di potenza, della guardia e della forza, valori della Prussia che nascono in un paese povero al Sud ed al Centro, non colonizzatore, come la Francia e la Gran Bretagna, per ironia della Storia le Grandi Potenze promotrici dei diritti civili. Fra il 1871 ed il 1890, sotto l’impero degli Hohenzollern Prussiani – il più importante è Guglielmo I, re ed imperatore di Bismarck – la classe dirigente agricolo – commerciale – i cc. dd. Junker – non ha finalità accumulativa e finanziaria, né meramente consumistica; ma nel solco luterano non è gaudente, ma volta a forme di monachesimo chiuso, puritana, filofamilista, legata alla musica classica seria, per es. Bach e Händel.

La cultura prussiana – peraltro a fine ‘700 in polemica con il pensiero libertino dello Sturm und Drang di Goethe – prende coscienza di essere il popolo eletto d’Europa e per tutta l’età romantica (1800-1830), assistiamo a vari modelli di artisti che si contenderanno la primazia intellettuale nel Paese, che da frastagliato in una una miriade di Stati più o meno grandi, tende alla unificazione economica e sociale di fronte alla tenaglia democratica che a Nord – Ovest lo preme in direzione liberale; e dal fronte orientale russo che lo vorrebbe sottomettere culturalmente al credo ortodosso, in parte simile al Credo Cristiano protestante, peraltro intollerante rispetto alla tradizione renana e baltica.

I due campioni di cultura nazionale sono Goethe e Beethoven. Il genio della letteratura ed il genio della musica. L’uno alla ricerca della Lingua comune, allo studio della Natura, alla Ragione, a Dio ed al Mondo, insoddisfatto, melanconico, progressista, pioniere di tutte le scienze del sapere, un Leonardo post rinascimentale anticipatore del sentimento, ma non irrazionale. Il suo eroe letterario – Faust – ci dà la prova di una sublime capacità artistica, ma anche di solidarietà, di pacifismo, di cosmopolitismo, di suprema mediazione fra desiderio di Potere e rispetto dell’Altro, anche se invasore.

Napoleone è amato da Goethe, non perché potente, ma perché mette ordine nella confusione libertaria scatenata della Rivoluzione Francese. Non è il bastone prussiano, né il contadino bavarese; ma è il borghese che vuole vivere e godere senza prevaricare, anticipatore di Bismarck, dopo la necessità delle guerre di unificazione. Genio aperto al futuro, fustigatore dei potenti, ma dotato di un senso critico delle correnti culturali europee. Nobile d’animo, ma amico del popolo moderato. Tutt’altro è Beethoven. Estatico, sanguigno, amante dell’improvvisazione, ben diverso da Goethe.

Quanto questo è ordinato e pacifista, quello non si inchina a nessuno. Lotta, ama, rigetta, soffre, è quindi un romantico prepotente, conscio di essere un genio, ma folle e violento. Le sue sinfonie sono tragiche, non drammi, neppure commedie, come lo sono molte opere e saggi del Vate di Weimar e Francoforte. Beethoven è un uomo del nord che scende in Baviera e poi a Vienna, conosce il feudalesimo bigotto e nel Fidelio edifica un monumento alla libertà,  disprezzando poi Napoleone, falso e bugiardo. Odia la nobiltà che gli preferisce Mozart ed ormai sordo produce la Nona sinfonia. Un solenne edificio all’uomo tedesco, al combattente romantico, un Re senza corona, opposto al carattere conciliativo di Goethe.

Si dice che Beethoven fa di un dolore fisico – la sua sordità – la sua massima virtù, che lo rende mai domo e nemico della nobiltà. Vive da esteta e da solo, nemico delle donne e mai allegro, perché disilluso e rassegnato dalla storia del suo paese invaso dai Francesi, oppresso dall’Austria asburgica e minacciato dall’orso russo. Mentre Goethe, carattere solare, inventa la teoria della letteratura universale, dove l’uomo è al centro dell’universo. Sta in compagnia del Nostro Dante, di Shakespeare e di Carlyle. Come mai allora vince la Germania di Bismarck ed il temerario spaccone Wagner? Oppure nella Germania di Guglielmo secondo – 1890/1918 – perché prevale la violenta prassi revanscista di Nietzsche e la pericolosa tendenza pangermanica? Entrambe foriere delle tragedie europee del ‘900? Quale di questi due caratteri prevarranno nel lungo ‘800 e nella prima decade del ‘900?

La Germania di Bismarck (1864-1900)

Il duello politico si alterna proprio in Bismarck ed in Guglielmo I Hohenzollern. E sarà la sovrapposizione del tedesco imperiale, nobile potente e borghese obbediente, liberale e reazionario allo stesso tempo, inquietudine del genio ed un raro caso di impasto alternato fra Ragione e Sentimento. Schiller angelo ribelle, Goethe buon pastore. Bismarck, liberale fino al 1830, poi conservatore e cristiano, da ateo impenitente in gioventù. Un unico fine politico: l’Unità del Paese, la consapevolezza di una Mitteleuropa, potente che freni le tendenza capitalista dall’ovest e le voglie espansioniste russe.

Otto-von-Bismarck
Otto von Bismarck Cancelliere del Reich

Una volontà di ferro che oggi manca all’Europa di Ursula von der Leyen. Neppure contento del colosso asburgico fratello, il Cancelliere di ferro conquista la Parigi di Napoleone III; si allea col solidale impero britannico della regina Vittoria; minaccia la prepotente russa zarista di Alessandro III  ed influenza la debole nuova Italia di Crispi. Toltosi la veste burbera del militare con l’elmo chiodato, da Berlino Bismarck governa diplomaticamente il nuovo Stato ricordando Federico di Svevia, colui che aveva dominato tedeschi, arabi, Siciliani e Baltici. Per 20 anni non attaccò più.

Mediatore eccelso anche all’interno, si confronta col crescente partito Socialista dei Lavoratori e nel solco del cameratismo prussiano, sostituisce il rischio della  lotta di classe col più realistico sistema della compartecipazione agli utili, alla comune gestione nelle imprese del lavoro, dove il cui rispetto del lavoratore e del capitale accumulato ed investito nella produzione coinvolgerà le parti sociali, ora garantite da pensione alla fine del lavoro e da nuove misure di sicurezza sociale. Sistema garantito da una vita sociale monacale, con la primazia della famiglia, accanto a cavalli e cani di compagnia nei rari momenti di riposo dalle fatiche di governo. Sarcastico nei giudizi, accattivante politicamente, meditativo, dialogante.

Nemico riconosciuto è il fascino affabulante di Wagner. Bismarck cade nel 1890, quando il successore di Guglielmo I, il Secondo, lo congeda per limiti d’età (ha ormai più di 80 anni), ma anche perché non è più amato dal Popolo, ormai attratto dalle sirene finanziarie ed industriali monopolistiche e da una bassa inflazione da produzione. Nei 25 anni successivi cessa ogni forma di mediazione politica. Dal cambio di passo della Germania imperiale, sostanzialmente quella del buon padre di famiglia, lavoratore e capitalista al contempo; segue la Germania della finanza, accaparratrice di mercati, pangermanista, col mito del progresso industriale senza partecipazione del lavoro, in perenne crescita economica, ma con un alto tasso di disoccupazione, con forte migrazione verso gli Stati Uniti e  prodromica alla Grande Guerra.

Eppure il consenso non manca a Guglielmo II, benché le cronache narrino del suo essere isterico ed istrione da cabaret, con punte di nervosismo e di intolleranza che non ammettono un capo di Governo autonomista. Accentratore, privo di simpatie popolari, schiavo dei potenti plutocrati del Nord, inviso ai proprietari terrieri del sud, disprezzatore degli slavi dell’Est, ridotti in condizioni di sudditanza malgrado la forte presenza slavofona da Stettino a Tilsit. Eppoi guerrafondaio con la Francia renana, rancorosa per la perdita dell’Alsazia e dalla Lorena del 1871, senza contare la tendenza dominante sugli Stati formalmente federati del Sud, di fatto colonizzati alla stregua dei paesi dell’Est e molto simili alle condizioni di dipendenza economica del sud d’Italia nei primi decenni della nostra unità.

Gli storici Lotze e Golo Mann, ma anche Ritter e Jaspers, ne sottolineano il livore personale, il legame esagerato cogli industriali monopolisti Krupp e Rathenau, i veri trascinatori della Germania nella prima guerra mondiale. Che dire poi se quegli storici, ne marcano un evidente conflitto di interessi per come la guerra finirà, visto che mai l’esercito tedesco subisce una effettiva sconfitta in battaglia da parte dell’Intesa, cui si aggiungono gli Americani di malavoglia, visto che il nerbo degli ufficiali al comando è un emigrato tedesco di prima e seconda generazione?

E non è mancata la posizione storiografica del primo dopoguerra, che ha notato come Guglielmo II e la sua classe dirigente, serva delle concentrazioni bancarie e finanziarie, ha optato verso il carattere melanconico ed adulatorio del buon borghese, quai una sorta di autolesionismo rivendicativo di origine beethoviana. L’animo brillante e speranzoso di Goethe sembra nel 1918 – e per l’intera durata della repubblica di Weimar fino al 1930 circa – cedere il passo al carattere più cupo, a cominciare dal mito della pugnalata alla schiena, cioè la resa dell’Impero senza un’effettiva sconfitta, ma solo per paura della carestia impetuosa che di fatto invece flagella la società civile spinta così alla resa incondizionata.

Wagner, Nietzsche, la Grande guerra e la Repubblica di Weimar (1871-1933)

Lo spirito di Wagner invece genera la speranza di una rinascita di un moto degno di un Praeceptor Germaniae durante gli anni ambigui di Weimar. Titolo che Lutero attribuisce al suo teologo di fiducia, Filippo Melantone e di cui si appropria il Ministro della cultura Goebbels, eminenza oscura di Adolf Hitler. E’ noto che la componente psicosociologica del tedesco del ‘900 sia stata quella di pendere per quaranta anni dalla melanconia e dal revanscismo, figli del binomio Wagneriano/Nietzsche, indubbiamente figure emblematiche di un mito duro a morire, quello del tedesco superiore, della razza darwinisticamente chiamata a dominare all’est ed all’ovest del vecchio Continente, quasi concentrata nel motto iniziale di Febvre, dove la presunta malattia del vecchio mondo liberale e democratico sia per la Kultur germanica una senilità preoccupante, un Alzheimer che andava curato con soluzioni radicali.

Il curatore, il medico che ne avrebbe annullato il virus ammorbante è Adolf Hitler e la sua compagnia. Ma ci sono pure due filosofi-artisti che gli hanno dato la ricetta teoretica, cioè Wagner e Nietzsche. Il musicista ed il filosofo, due modelli che la Germania postromantica mitizzerà nel bene e nel male. Il primo è una artista istrione, senza scrupoli, un politico mancato nel 1848-1849, che i nazionalsocialisti prenderanno per modello, genio dell’arte non solo nella lirica, ma anche nel toccare le corde del borghese renano e delle provincie più interne e più conservatrici. La scena e l’opera lirica sono il suo luogo ideale, Tristano ed I maestri cantori di Norimberga istillano il germe dell’amore soggettivo e di patria fino all’ultimo tedesco.

Sottolinea però George Bernard Shaw che il wagnerismo è una follia collettiva che precorre il Nazismo e che i gerarchi non siano altro che i modelli astratti delle sue opere. E che dire delle pose di Hitler e dei suoi discorsi? Chi guarda i filmati e sente i toni e le parole, sembrano rivedere la famosa tetralogia wagneriana che infiammerà la gioventù tedesca nel decennio espansivo della Prussia (1864: guerra tedesco – danese per l’annessione del ducato di Schleswig- Holstein; 1866: guerra contro l’Impero austriaco per il dominio sulla Confederazione tedesca e per punire la sorella austriaca per aver parteggiato con la Danimarca, occasione per la quale l’Italia appena unita si allea alla Prussia ed ottiene il Veneto; 1870: guerra con la Francia di Napoleone III e si impadronisce dell’Alsazia e Lorena, ricche province renane).

Si anticipa così l’idea della guerra totale su più fronti. E poi emergono le figure buone e cattive tedesche: i biondi nibelunghi buoni e sfortunati; il nano furbetto ed infido; il gigante scemo; il borghese artigiano padre della Germania, pur tra trasformismi politici a volte traditore e vittima, innocenza e violenza allo stesso tempo, una figura popolare pericolosa. Personaggi suggestivi che vanno dalla bellezza all’erotismo, dalla forza bruta, alla teatralizzazione del puro. Il tutto condito da una musica maestosa, in vista di una Nazione naturalmente destinata alla primazia mondiale. Martin Lutero, Federico II, Schiller, Lessing sono i pilastri di un mondo passato che invadono l’immaginario collettivo, prima con l’Impero e poi con il terzo Reich di Hitler, l’invasato unto del Signore.

E poi la doppiezza della persona, che rende invisibili gli eredi dei Nibelunghi. Simbolo di un mito falsificato fin dall’origine. Se dunque questo è il Maestro, nondimeno immorale e ciclotimico è il suo allievo, Fritz Nietzsche. Estremista nel sentimento e nella condotta, è a volte germanofobo, forse per le sue radici slave (e si badi, sono radici che cresceranno a dismisura nella cultura teutonico del ‘900, specialmente dopo la riunificazione fra Repubblica Federale e Repubblica Democratica  nel 1989). Inoltre  non gli manca l’influsso puritano del Luteranesimo perché formato in un famiglia protestante soggetta al padre, potente Pastore Luterano.

La rigida morale, lo studio del greco classico, la conoscenza analoga delle culture mediterranee, il primo amore per il Goethe dimenticato della scuola romantica che non gli perdona il suo pacifismo filofrancese. E perciò chi nel primo dopoguerra lo chiama precursore del Nazismo sbaglierà di grosso, non solo perché cade nella trappola filologica dei suoi scritti interpolati e falsificati, ma anche perché la sua cultura mediterranea ed il suo timore per le masse lo isola dal crescente interesse per la modernità. E’ nemico dell’industrializzazione anglosassone, ama Machiavelli, Platen e Leopardi. Poi alterna mari e monti, la solitudine ed il silenzio, la luce e l’aria libera. E poi non crede nelle guerre e nella violenza oppressiva.

Un uomo libero, magari critico della democrazia, ma non antisemita, come fanno credere la sorella ed il cognato, seguaci positivista Gobineau, vero e tenace antisemita. In fondo è un sognatore ossessivo, un solitario pauroso che a 45 anni diventa pazzo, ma non violento e neppure razzista. Purtroppo le manipolazioni predette ed il fascino del suo Maestro – peraltro ripudiato quando Wagner scala la Corte di Ludwig di Baviera e che da lui ottiene immensi favori, prima fra tutte l’immenso teatro di Bayreuth, costruito dal Principe ammaliato dal musicista e divenuto nel 1933, il tempio della follia nazista – contribuiscono a screditare il filosofo, solo scagionato da tali colpe da una critica opportuna dei suoi scritti alla fine degli anni ’70 del ‘900.

Ascesa di Adolf Hitler e le origini del Nazismo (1918-1933)

Sia come sia, un uomo del destino raccoglierà il messaggio autoritario e conservatore di Wagner e  di Nietzsche. Adolf Hitler, che non è soltanto un episodio isolato, ma ha nella realtà sociale un numero di sostenitori che proprio in età repubblicana – 1918/1933 – raggiunge quasi la totalità della popolazione. I miti positivi – Goethe  e Beethoven, nonché Schiller e Heine – trovano scarso seguito già in età imperiale. Proprio nel 1806, l’invasione della Prussia e della Germania danubiana e renana, nonché la pericolosa presenza della Russia nel Baltico ed alle porte dell’Elba; accompagnano il sentimento nazionalista che il Romanticismo da Kant a Lessing ha germinato nell’età illuminista, in nome di una identità teutonica autonoma poco delineata se non nelle idee di un Fichte ed in qualche vagito sovranista derivato dalla figura paternalistica ed influente di Federico Hohenzollern, detto il grande, per avere respinto le pretese francesi ed asburgiche durante le varie guerre di Successione assolutiste di metà ‘700.

Ma la contraddittorietà della classe dirigente aristocratica successiva al genio militare di Federico è simboleggiata anche da Alexander von Benckendorff, principe  prussiano capo dell’esercito che si arrende a Napoleone favorendo la sua avanzata in Estonia, malgrado la successiva vittoria del suo collega a Waterloo nel 1815, Gebhard von Blücher.  Circostanze che la dicono lunga sulla infedeltà dei generali di quel Regno, visto che si ripeterà sul fronte occidentale nel 1918 e sul fronte orientale poco prima, quando nel primo fronte Hindenburg si arrende agli alleati dell’Intesa; mentre Ludendorff, sul secondo fronte, consegue successi militari non indifferenti contro la Russia, indebolita dopo la Rivoluziono di febbraio.

Guglielmo II però non sa di conquistare la fiducia della popolazione civile, ridotta alla fame ed alle moltissime morti per effetto della Spagnola, epidemia di influenza che le autorità sanitarie nordamericane non circoscrivono proprio nei confronti dei destinatari tedeschi, peraltro privati da ogni genere di approvvigionamento alimentare. Solo Ludendorff tenta una difesa del territorio nazionale, ma il Kaiser Guglielmo ed il suo generale Hindenburg sono i veri pugnalatori alle spalle: l’uno fugge esule in Olanda; l’altro è un ipocrita protettore della Repubblica di Weimar, ma in seguito fonderà associazioni paramilitari che affiancheranno Hitler e Röhm negli anni successivi al crollo economico del ’29.

notte dei lunghi coltelli
Hitler e Rohm

I primi anni del Regime, l’opposizione interna. Il consenso diffuso e l’antisemitismo tedesco (1918 -1945)

Quanto a  Hitler ed alla sua classe dirigente, nell’onda del fiume di fonti che qui è impossibile da riassumere; ci piace dare quanto di lui scrive Emil Ludwig, giornalista socialista che nel 1932 intervisterà Benito Mussolini e nel 1931 Iosif Stalin, senza contare le biografie di Napoleone, Lincoln e Bismarck, storico fedele al metodo soggettivo dalla cronaca personale intrecciata alle sorti dei popoli che vengono a contatto con le loro imprese e che non dimentica il filo rosso che lega la storia locale alla storia nazionale.

E dunque, Hitler è un uomo del popolo, un piccolo borghese frustrato dalla classe intellettuale che lo esclude dalle arti figurative, respingendo le sue opere iniziali. Poi la politica della prima repubblica lo vede come un affabulatore dotato di magica intesa con le folle. Cita Lutero, Federico il Grande, Bismarck e sfotte gli imperatori prussiani ed i socialisti prima e dopo Weimar. Maestro di voce, di luci e di atteggiamenti oratori, di bracce levate e di sguardi intensi, che Mussolini a suo dire gli ha insegnato. Non scrive come Bismarck, ma parla gesticolando come un’eroe nibelungo.

Tono isterico, con accento rancoroso, odiando e disprezzando, esaltando però le grandi gesta di teutonici mitici e satirici, aborrisce le donne, ama i militari ed i Cavalieri medievali. Si pensi al discorso di insediamento al Governo il 1.1.1933. Alla radio spiccano le frequenti parole Gehorsam, obbedienza, mentre manca la parola Freiheit, cioè libertà.  Ludwig rileva la mancanza di profondità storica della sua opera principale, il Mein Kampf, del 1925, un saggio autobiografico che scrive dopo il tentativo di colpo di Stato fallito a Monaco nei pochi mesi di detenzione.

Piuttosto, Hitler scrittore appare in pubblico come un monaco di clausura, assume toni da Santo e da angelo vendicatore, tanto da far massacrare dai suoi fedelissimi, ben 1100 compagni di un partito analogo rivoluzionario, le famose S.A. di Röhm, episodio che Ludwig chiamerà con fortuna editoriale la strage dei Lunghi coltelli. Un uomo furbo, crudele e senza morale, ma che si presenta come un uomo d’onore, contro i porci industriali che vendettero la Nazione alla civilitation franco-britannico e al capitale plutocrato – comunista… Il saggio su Hitler secondo sempre Ludwig, lucidamente così descritto alla fine della sua parabola (1946) – lo mostra fin dal 1925 concentrato contro gli Ebrei, i Comunisti, i Preti Cattolici e Protestanti, i pacifisti ed i repubblicani.

Un quadro desolante per la Germania che Brecht riassume nel 1933, nella splendida Ode O Germania. E la vulgata che Hitler in economia e nel lavoro ha fatto cose buone, come lo si dice per Mussolini e Stalin, viene clamorosamente nel 1946 contraddetta da Ludwig, ma anche da Meinecke e Ritter, storiografi di varie tendenze che hanno rinnovato le perplessità estreme di quel personaggio e della sua classe dirigente, militare o civile che fosse. Qui è impossibile sintetizzare il ruolo negativo della classe imperiale e nobiliare fra il 1918 ed il 1933, nonché del popolo tedesco rispetto alla questione antisemita, nonché alla situazione fra il 1920 ed il 1933 (vd. su questo blog, in merito alla Repubblica di Weimar, un nostro intervento in data 1.1.2023).

Quanto agli intellettuali ed alla loro reazione in difesa della democrazia e dei diritti civili conquistati con la Costituzione di Weimar nel 1918; la loro posizione anodina e superficiale, se non puramente servile, non è nuova. La domanda sul forte consenso popolare per il Nazismo  trova solo  l’illustre teologo – Karl Barth – e l’archeologo Ernst Robert Curtius per esempio – come primo noto contestatore del Regime interno ed internazionale. Tace la scuola luterana di Heidelberg. E tace buona parte della classe universitaria professionale, dove Heidegger diventa rettore a Friburgo suonando il piffero di Hitler.

Come è avvenuto un secolo prima a Gottinga, quando solo 7 professori nel 1837 rifiutano di obbedire alle leggi reazionarie antiliberali emanate dal Re Augusto di Hannover, che abroga la Costituzione liberale emanata nel 1831 sull’onda della Rivoluzione Francese di Luglio di Luigi Filippo. Lo stesso atteggiamento repressivo, con scarsa partecipazione della classe colta lo si ha nel 1848 da parte del partito conservatore prussiano e del Re Federico Guglielmo IV, fautore di una legge autoritaria che non permette ai cittadini di criticare perché sudditi le decisioni del supremo Potere.

E Heine lo sferza con la massima dove si bruciano i libri, ben presto si bruceranno gli uomini, anticipando di un secolo il rogo dei libri operato dai Nazisti dinanzi all’Università di Berlino la notte del 10 maggio 1933, ora ricordato da una lapide che andrebbe meglio oggi illuminata. Lo storico Taine (Francia, 1828-1893) all’epoca rileva che nel 1843, prima dell’Unità imperiale circolano 14.000 pubblicazioni; mentre nell’impero di Bismarck se ne hanno solo 11.000… A Vienna, dopo l’Anschluss del 1938 alla Germania, non si esegue più Beethoven e nelle università nazificate perfino il polacco Keplero viene ostracizzato. Le soggezioni di Lutero all’Impero diviene un canone delle Chiese Protestanti; malgrado l’opposizione della Chiesa confessante di Bonhoeffer.

Il Papa Pio XI° è contestato a Worms ed anche di Kant vengono ripubblicati solo gli scritti antisemiti. Insomma, l’abilità della propaganda nazista – e di Goebbels in particolare – è quello di determinare il carattere del teutone perfetto cui propinare ogni cosa ed il contrario, vale a dire la obbedienza, anche a costo di tradire l’ormai collaudata cultura dei diritti civili. E poi, a cascata, Goebbels individua il suo popolo da ammaestrare come appunto un nuovo Praeceptor Germaniae: classi sociali ben distinte e bloccate ai punti di partenza; studiosi dipendenti dallo Spirito e dalla Spada; separazione dell’Idea assoluta dello Stato Etico affidato ad un Führer ed alla sua esclusiva potestà di nomina di uomini fidati ad eseguire i suoi ordini fino alla morte senza alcuna loro resistenza, come è stato per Adolf Eichmann, il boia di Auschwitz.

Una condizione di impotenza e di sistema mentale di massa che appare di tutta evidenza nell’ipotesi della tragica relazione fra Ebrei e Tedeschi, presenti in Germania fin dall’anno 1000 e che dal decimo secolo nono subiscono una progressiva decadenza della loro millenaria integrazione con le popolazione teutoniche stanziali. Le fonti altomedievali, per esempio, li citano all’epoca di Carlo Magno come ambasciatori in oriente, senza contare la loro partecipazione politica nella gestione del Regno meridionale d’Italia in occasione degli anni di governo di Federico di Svevia (secoli IX-XII).

Medici, mercanti ed abili combattenti assimilati nei comuni germanici e nelle città imperiali, oppure nelle Corti renane, sempre con funzioni di mediazione politica e sociale al fianco dei regnanti legati al Sacro Romano Impero. Una prima loro segnalazione negativa emerge però nel XVI secolo in relazione alla Riforma di Lutero, che nelle sue filippiche contro la Chiesa Cattolica sferza il loro praticare dell’usura ed addirittura in alcuni sermoni non esita di dare fuoco alle case pignorate dagli Ebrei usurai e cattivi tedeschi. Nel secolo della guerra dei 30 anni la fuga dalle campagne verso le città aumenta ed i pogromo – linciaggi di ebrei per motivi di pura razza – sono ricordati in Boemia ed in Baviera, a Spira ed a Vienna, con la complicità di Carlo IV d’Asburgo.

Il fenomeno della violenza di massa contro le comunità ebraiche sfocia nell’intolleranza connessa all’alleanza che queste perseguono con la Chiesa cattolica nelle guerre di religione del XVI° secolo, per poi proseguire nelle tremenda mattanza della citata guerra dei 30 anni, dove i Principi tedeschi trovano nella banche ebree i nemici della loro indipendenza dall’Imperatore d’Austria. Il segno di tale intolleranza e del venire meno del principio di assimilazione – già maturato in Inghilterra e peraltro peggiorato nella Russia di Pietro il grande già nel XVIII° secolo – trova ampia traccia nella letteratura tedesca razionalista (per es. Leibnitz e Kant), mentre sarà oggetto di una celeberrima commedia di Lessing – Nathan il saggio (1779) – che ha per tema un episodio significativo a Gerusalemme durante la terza crociata.

L’azione rappresenta il saggio mercante ebreo Nathan, l’illuminato Saladino ed un anonimo templare cristiano che dialogano sulle verità di ciascuna delle tre religioni moniste del Mediterraneo. Il lungo capitolo della fiaba dei tre anelli di un unico braccialetto è il modello di convivenza pacifica fra le tre comunità che credono in un solo Dio. In età romantica, però, l’appello alla tolleranza comincia a non funzionare in Germania: se Disraeli nel 1868 diventa Capo del governo nel regno di Vittoria; già Bismarck decreta l’esclusione da ogni carica politica dei Capi di quella religione.

Di più: Heine, il maggiore poeta dopo Goethe, deve battezzarsi ed uscire dall’ebraismo per continuare ad esercitare l’attività bancaria di famiglia. Proprio la loro massiccia presenza nel mondo della finanza provoca guerre, diffidenza ed invidia, anche per essere abili nell’accumulazione di capitali e nell’arrecare i giusti investimenti produttivi, accaparrando mercati ed ottenendo spesso alti profitti. Disobbedivano al Potere, si rifiutavano di combattere e sobillavano rivolte.

L’accusa  di pacifismo, di socialismo, di essere nell’animo dei traditori della Patria, genera progressivamente l’accusa di parassitismo e di loro abituale delinquenza che Bertold Brecht porterà sulle scene nel primo dopoguerra con l’Opera da 3 soldi, dove il protagonista è un ladro che non nasconde di essere un ebreo. Da qui, la propaganda di Goebbels e le leggi razziali di Norimberga (1933-1935), emanate con l’avvento al Governo di Hitler; nonché il sentimento diffuso che la crisi del ’29 sia stata provocata dall’Internazionale ebraica angloamericana; motivi che costituiscono passi ineluttabili verso la mattanza ebraica del decennio successivo nei campi di internamento, poi di concentramento ed infine di sterminio, adottati dal Governo nazista nel 1942 con la conferenza di Wannsee presso Berlino, dove viene legiferata la tragedia della Shoah.

Fra il 1929 ed il 1933, avviene una lenta crisi della democrazia della Repubblica di Weimar (1918-1933) ed il parallelo arrivo del Nazionalsocialismo, siglato dalla volontà popolare, unico esempio nel ‘900 di Dittatura avallata da elezioni popolari. Seguirà un dodicennio di potere ed una guerra mondiale, che a parere degli storici altro non è che la prosecuzione, dopo un armistizio di appena 20 anni dalla prima, una vera e propria guerra civile europea.

Il secondo dopoguerra in Germania. L’occupazione alleata, la guerra fredda e le due Germanie (1946-1949)

Ma nel 1945, cessata la guerra ed occupata dalle forze alleata l’odiata Germania, l’opinione pubblica vincitrice e vinta, da New York, a Londra, da Parigi a Mosca, da Berlino semidistrutta a Tokyo martoriata dall’atomica, da Roma non più città aperta, fino a Pechino dilaniata dalla guerra civile, una domanda si fa: tornare al Capitalismo di pace o riprendere a produrre per il Bene comune? Cosa immettere nel Mercato, cuscinetti a sfera o cannoni? Quando dovrà durare l’occupazione in Germania? Si celebra intanto un processo molto famoso quello di Norimberga ai gerarchi nazisti, ma trionfa nelle cronache d’Europa non con minore intensità, quello a lungo aperto contro un tal dott. Schmidt, imprenditore e chimico di gas tossici, capo della I.G. Farben, utilizzato a Dachau e dintorni, per insetticida. Zyklon B, è stato spruzzato sugli ebrei colà deportati, visti dai Nazisti come una specie animale da sterminare.

Photograph of National Archives Visit by Theodor Heuss, President of the Federal German Republic (Pubblico dominio)

Processo che si conclude con una condanna mite e che produce una semplice divisione del conglomerato industriale spartito fra le industrie vincitrici. Una prima decisione a freddo della nuova giustizia penale della Repubblica Federale tedesca, emblematica del silenzio colpevole sulle vicenda delle responsabilità nazionali connesse alla guerra. Tanto più che uno dei principali fautori dell’ascesa del nazismo, Franz von Papen, agevolatore politico di Hitler, malgrado la condanna a 8 anni di carcere a Norimberga, sarà assolto in appello nel 1949 e poi addirittura nel 1969 verrà nominato Cavaliere di Malta e gentiluomo del Papa.

Invero in quella Repubblica, la Storia a scuola subisce un taglio di programma significativo: dal 1932 al 1938 non si scrive un riga sull’ascesa e sul consolidamento del Partito Nazista e sulla cancellazione di fatto della Repubblica di Weimar. Infatti, il manuale di Storia per i licei Deutsche Geschichte: Vom alten Reich zum vereinten Deutschland di Diether Raff, edizione del 1985, dedica appena una decina di pagine sugli avvenimenti essenziali di quegli anni. Emil Ludwig uno degli intellettuali più popolari dell’epoca, anch’egli esule in Svizzera, si distingue da due storici di orientamento diverso che predicano una tolleranza ed un’indulgenza per la Germania sicuramente legata a permettere una ripresa della Nazione.

In particolare, Gerhard Ritter nello studio in Luther Gestalt u. Symbol (ideologia e simbolo, 1928, nonché Il volto demoniaco del Potere, 1958) tenta di instaurare una tendenza buonista, rivolta più a perdonare che a punire, puntando su una politica della Germania federale influenzata nel passato dal Luteranesimo nazionalista ma non autoritario, onde invita a rinvigorire il senso di identità della Germania piuttosto che condannare quella Nazione a forme di servilismo analoghe alla soluzione di Versailles del 1918. Al contrario, Friedrich Meinecke, in un libretto (La catastrofe della Germania, 1947), facendo leva sulla sua inconfondibile aderenza allo Storicismo, insiste nella punibilità del popolo tedesco, nella misura in cui la politica di Potenza è stata la vera radice della disgraziata avventura nazista.

L’autodeterminazione e la autoconservazione dello Stato e la sua eticità assoluta, avrebbe prodotto un eccessivo senso di dominio che ha trasceso la normale figura dello Stato, nel consenso internazionale. Il successo della politica di equilibrio di Bismarck non può essere prevaricato dalla follia di una parte, per di più subdolamente teleguidata da una classe dirigente perfida ed ipocrita che guarda al proprio interesse privato. Ora, però premerebbe nella immediatezza della caduta del 3° Reich, il fatto sia che il Nazismo è stato solo una parentesi, che si necessita perdonare ed andare avanti, come dice all’epoca una  notissima canzone napoletana, una concreta azione disintossicante, che è invece ciò che Emil Ludwig propone alla nuova Germania del 1946, quella cioè di avviare una svolta morale del popolo tedesco.

Un’educazione etica alla libertà ed alla pace, cioè rinunziare al mito dell’invincibile esercito, riconoscere la sconfitta, rispettare i Trattati per essere a loro volta rispettati, porre in essere ogni mezzo per impedire un terzo tentativo di vendetta, nonché favorire la loro rapida riammissione nel consesso internazionale. Una tattica del sorvegliare e punire, ma anche la promozione di una nuova Germania senza egemonia. Idea raccolta da Thomas Mann al suo rientro dall’America nel 1953, che così la riformula: Occorre ricostruire una Germania europea ed abbandonare l’idea di un Europa Germanica.

Opinione che rivela una profonda sfiducia del nuovo Praeceptor Germaniae di fronte al Trattato di Jalta del 11.02.1945 fra le Potenze vincitrici.  Si dispone soprattutto: la separazione della Germania e di Berlino in quattro aree di occupazione, dove l’area renana orientale è occupata anche dalla Francia. Altri ampi territori della Prussia vengono ceduti alla Polonia ed all’URSS, onde scatta il processo di espulsione di non pochi tedeschi dalle aree di Danzica, Vilnius e Königsberg, cui seguirà un altrettanto rapido processo di insediamento nelle regioni tedesche vicine di Slavi provenienti dai Balcani, senza contare fughe di massa ed insediamenti coatti.

Una radice non indifferente del malcontento sociale che con frequenza fino ad oggi ripropone rigurgiti di Neonazismo. Due ulteriori eventi successivi e la rispettiva proclamazione di due Repubbliche tedesche ormai contrapposte tra loro, produrrà un quarantennio di Guerra Fredda fra Occidente democratico ed Oriente comunista nel cuore d’Europa, che rimarrà a lungo col fiato sospeso di fronte ad uno scontro epocale tra fratelli di lingua germanica. In particolare, l’esclusione della zona russa dal Piano Marshall (1947); la riforma monetaria di Ludwig Erhard che estende al marco nelle tre aree occidentali ed introduce una moderata economia sociale di mercato (1948); il Blocco di accesso a Berlino Ovest da parte dei Sovietici da Berlino Est come ritorsione ai precedenti provvedimenti (giugno 1948) e la risposta Alleata di un ponte aereo alle città occidentali per scongiurare una terribile carestia; costituiscono le cause immediate della nascita ufficiale di una improvvisa separazione del territorio tedesco.

Il 23.5.1949 nasce la Repubblica federale di Germania, renana e danubiana, erede della vecchia Repubblica di Weimar, federale e liberaldemocratica. Presidente della Repubblica è il principale giurista che redige quella Repubblica, Theodor Heuss. Capo dal governo è Konrad Adenauer, cattolico progressista, collaborato da Ludwig Erhardt, cattolico conservatore però aperto alla modernizzazione del paese. A stretto giro di Posta (7.10.1949) risponderà la Germania Orientale sovietica, guidata dalla Sed Comunista di Wilhelm Pieck e Walter Ulbricht di netta impronta dittatoriale sul modello di Stalin. E qualche anno dopo (26.5.1952) il Trattato sulla Germania prevede l’abolizione dell’occupazione militare, la sovranità della R.F.T. e la concessione di privilegi agli Alleati. Per quasi 4 decenni, fino al 1989, la capitale della guerra fredda sarà Berlino. Ma di questo torneremo a parlare.

Bibliografia

  • Oltre alle fonti citate nel testo, vd. EMIL LUDWIG, La conquista morale della Germania, Milano, 1946.
  • HANS KOHN, I tedeschi, Milano, 1963.
  • DIETHER RAFF, Deutsche Geschichte. Vom Alten Reich zur Zweiten Republik, Hueber, München, 1985.
  • RAYMOND POIDEVIN – SYLVAIN SCHIRMANN, Storia della Germania. Dal Medioevo alla caduta del Muro, Milano.
  • THOMAS MANN, Moniti all’Europa, Milano, 2017.
  • Altresì, i nr. 1/2024 e nr. 4/2024 dalla rivista Spiegel Geschichte, dedicati alla storia della Germania ed ai rapporti fra Germania ed U.S.A. negli anni 1945-1955.
Giuseppe Moscatt

Giuseppe Moscatt

Laureato in giurisprudenza con tesi in diritto fallimentare (1982) e laureato in scienze politiche, indirizzo di storia contemporanea (2010), con tesi in su Pietro Germi, presso l'Università di Catania. Iscritto all'albo degli Avvocati di Siracusa e Presidente Associazione Culturale Italo/tedesca di Siracusa a far data dal 2008. E’ stato docente di Diritto dei Trasporti presso il corso di Diploma Universitario in Economia dei Servizi Turistici presso la Facoltà di Economia dell'Università di Catania, a decorrere dal 1999 al 2002, con sede in Caltagirone. Ha collaborato in qualità di cultore, dal 1983 al 2004, alla cattedra di Diritto della Navigazione, presso l'Università di Catania, Facoltà di Economia e Commercio. Già presidente del “Centro studi Marittimi ed Aerei”, organo del Collegio Nazionale capitani di Lungo Corso e Direttori di macchina, delegazione di Siracusa, Augusta e Pozzallo. Dopo avere svolto vari incarichi ministeriali dal 1982 al 1995, dal 1996 al 2019 ha prestato servizio presso la Provincia Regionale di Siracusa e al successivo Libero Consorzio Comunale.

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