CONTENUTO
La diplomazia fra idealismo e realismo
Non è la prima volta che si studia la storia diplomatica: gli studenti e i politici – primi destinatari del sapere storico – si chiedono perché la si studia. Domande e risposte che a loro volta sono storiche e che danno luogo alla storiografia. E uno spettro si aggira oggi per l’Europa, o meglio per le società civili globalizzate: c’è del buono o del marcio nella storia passata che può essere ancora opportuno e validamente sostenibile? Soprattutto, in presenza di eventi che colpiscono la vita quotidiana – guerre epidemie, carestie, gravissimi eventi naturali – che fare? Ricorrere alla storia, al precedente, e alle scelte di sanatoria e di contenimento; nessuno lo nega.
Tutti i pensatori da Socrate a Sartre ne hanno proposto letture e soluzioni; tutti i politici hanno in varie occasioni – solo per gli ultimi secoli – si sono specializzati a dare il loro contributo e a formulare ipotesi di salvaguardia per i pericoli che investono la vita quotidiana di sempre più numerosi milioni di persone, dal Villaggio agli Stati, dalle città alle megalopoli, dalle foreste ai mari glaciali del pianeta.
E negli anni ’70 dell’800, vi sono pensatori che razionalizzano la necessità di disegnare i confini del perché della storia, sfidando le correnti critiche del problema, tornate ad essere sensibili sul lato delle guerre nel vecchio continente e non solo, visto che gli Stati Uniti d’America (il nuovo continente) esce da una guerra civile terribile e che non sembra ancora risolta, malgrado “un cessate il fuoco” firmato nel 1865. Invece la storiografia superficiale analizza il passato e assume esclusivamente il presente come metodo di lettura dei fatti.
In altri termini, occorre che lo storico non faccia il geopolitico puro e semplice, esca dallo schema apparente “aggredito e aggressore” per accedere ad un’analisi a tutto campo, valutando le ragioni e le situazioni maturate da ambedue le parti. Ciò che ha voluto dire implicitamente il filosofo Nietzsche che parla di storiografia critica e che Bloch ribadisce dando allo storico la patente di giudice istruttore penale, che nel valutare per esempio le ragioni della vittima, deve comunque valutare le circostanze aggravanti o attenuanti a favore dell’aggressione al fine della giusta punizione di chi ha violato la legge.
Orbene, a fronte di questa premessa, si esamineranno brevemente i Trattati di pace più significativi degli scorsi due secoli e diversificare i modelli raggiunti, di valutare l’evoluzione dei principì che li hanno regolati, nonché di dare un giudizio critico su ciascuno di essi. E se è vero che lo storico deve limitarsi a fotografare l’evento senza formulare alcun giudizio morale o ideologico di parte; è anche vero che occorrerà verificare di fatto la tenuta reale di ogni Trattato, visto che essendo un accordo di pace, occorrerà spiegare le cause perché non sia stato anche un accordo per la pace, spesso precipitata in guerra dopo poco tempo dalla stipula.
A meno di non ritornare alla nostalgia di un uomo naturalmente guerrafondaio e deterministicamente rivolto alla aggressività ineluttabile. Certamente al riguardo diviene essenziale una conoscenza storica che condizioni ogni evento in via non accidentale, una filosofia della storia che esuli da un destino scontato e volontariamente dipenda dall’uomo, sia uno statista del calibro di un Cavour, o di un Metternich, o di un Bismarck, o di un Napoleone terzo. Oppure di gruppi dirigenti espressione di nuove classi sociali comparsi sul palcoscenico della storia.
Dal congresso di Vienna a Verona (1815-1822)
Chi ha pensato che dopo Waterloo tutto sia tornato come prima a favore delle corti legittimiste e che la Rivoluzione Francese sia stato un incidente della storia, è della stessa scuola ottimista che crede che la pandemia da Covid -19 sia stata una parentesi, chiusa la quale il mondo occidentale sarebbe ritornato tranquillamente ai livelli di progresso economico e sociale del 2019.
Del resto la scuola liberale di storia moderna, con Benedetto Croce in testa, ha ritenuto che il Fascismo sia stato una mera parentesi della storia nel nostro Paese. A confermare l’opinione di un Chateaubriand sulla validità della Restaurazione conservatrice, è lo stesso principe Metternich, il famoso cancelliere dell’Imperial Regio Governo austriaco, che nei quattro congressi dopo Vienna mostra una forte polemica col fautore dello strumento operativo creato proprio all’indomani, vale a dire lo zar Alessandro I di Russia, che fa sua la definizione di “Santa Alleanza”, il Patto fra lo stesso Zar, Federico Guglielmo I di Prussia e Francesco II d’Austria.
Si vuole affermare da questi tre Grandi una nuova “Costituzione Europea”, antinapoleonica e antirivoluzionaria, dove le suddette Potenze – vertici laici delle tre confessioni religiose, l’ortodossa, la protestante e la cattolica – giurano il diritto di intervento in ogni paese europeo per governare con paterna sollecitudine e per garantire nei loro Regni lo spirito di fratellanza evangelica e di mantenere la Religione, la Pace e la Giustizia. Piuttosto, il laico Metternich parla di “Quadruplice Alleanza”, perché intende mantenere la Gran Bretagna nella cerchia delle potenze vincitrici e perché desidera isolare la Francia monarchica di Luigi XVIII, temendo che la politica russa accerchi il mondo tedesco, la vecchia paura dei Borboni d’Austria fin dalla guerra dei 7 anni (1756-1763) e la stessa paura anti-Nato che sta affliggendo l’attuale pace europea.
Perciò Metternich già nel 1818 promuove ad Aquisgrana la prima grande operazione unitaria della Quadruplice Alleanza, allargata alla Gran Bretagna di Castlereagh e di Wellington. Si ha però l’esclusione della Francia in funzione preventiva, stante il pericolo di un rigurgito bonapartista, bilanciato da un formale disimpegno e abbandono del territorio al di là del Reno da parte delle truppe alleate. Fondamentale è la dichiarazione unitaria di azione diretta repressiva dei “4” governi ove la Rivoluzione del ’89 si riaccenda. Massoneria francese e i Giacobini di Saint Simon, ma anche i moderati costituzionalisti di Costant e Lafayette, devono per il momento tacere e rimandare la loro riforma elettorale fondata sul censo borghese di modello inglese.
Il Congresso di Troppau: 23 ottobre-17 dicembre 1820
Non passano che meno di due anni dal Congresso di Aquisgrana, quando il 1° gennaio 1820 scoppia la prima grande rivoluzione liberale dopo Waterloo, il cd. moto di Spagna a Cadice, con la pedissequa rinnovazione della Costituzione liberale del 1812, mentre una Giunta militare conquista il Governo. Iniziava così il periodo più complicato per il grande Cancelliere, cosa che si avverte nel suo epistolario.
Nel biennio 1920-1921, Palermo, Napoli e Torino reclamano una Costituzione liberale sul modello spagnolo e tali episodi impongono l’intervento dell’Austria, su impulso russo, per contenere il contagio liberale. I dubbi di Metternich emergono chiaramente in più punti in merito alla solidarietà degli alleati. La ferrea volontà interventista dello Zar, come dimostrano i dispacci spediti a Guglielmo Federico a Berlino, lo spingono ad attivare la Quadruplice Alleanza, più di una mistica “Santa Alleanza”. La spina più dura da addolcire è la Gran Bretagna di Castlereagh, il ministro liberale che recalcitra per un intervento negli altri stati non aderenti alla politica legittimista, non solo per la evidente conflittualità col diritto internazionale vigente fin dal trattato di Westfalia, che nel 1648 ha posto fine alla guerra dei 30 anni, dove la teoria dell’intervento di una nazione nell’altra anche a fini preventivi non era sostenibile per garantire la pace, principio che ancora oggi pare inapplicato.
All’opposto occorre mantenere comunque il Sistema, in armonia alla tradizione britannica, il paese della “Magna Carta” e dell’“habeas corpus”, cui ripugna l’intervento esterno a danno della libera volontà dei popoli. E’ vero che Metternich cita la recente condotta alleata della Gran Bretagna contro la Francia di Napoleone; ma la stessa Francia oppone la deroga di quella realtà eccezionale e la Gran Bretagna con Wellington insiste per l’astensione.
Tuttavia il brutale assassinio dello scrittore e diplomatico tedesco August von Kotzebue, molto amato in Russia, per mano di un anarchico, accelera la volontà d’intervento proprio a Napoli e a Palermo, dove fra il giugno e il luglio del 1820, si hanno moti costituzionali per ottenere una Costituzione liberale sul modello spagnolo. Lo zar Alessandro I, un po’ tentennante negli anni precedenti, a Troppau propone con successo ai colleghi austriaco e prussiano l’intervento diretto, malgrado la freddezza francese e la netta opposizione inglese. La Quadruplice alleanza di origine antinapoleonica si muta in Triplice: la Prussia si dedica a reprimere i moti liberali nella zona alto-renana; la Russia nei Balcani e in Valacchia, oggi Romania; l’Austria in Italia, fra il Regno di Sardegna, il Lombardo/Veneto, e il Regno delle due Sicilie.
In realtà, al Kaiser Guglielmo si dà mano libera nella zona della Ruhr, già chiaramente fondamentale per la gestione del carbone; alla Russia basta un primo porto sul Mar Nero e quindi di fatto la protezione sull’Impero Ottomano. L’Austria assume il patrocinio dell’espressione geografica “Italia”. Era una tripartizione dell’Europa che però ancora lascia libera la Spagna e i suoi satelliti sudamericani; la Grecia rimane nell’orbita della Turchia ottomana, mentre la Sicilia viene offerta agli inglesi che hanno le concessioni minerarie dello zolfo, il nuovo combustibile per le acciaierie di Manchester.
L’unica a resistere sembra appunto la Spagna e i suoi satelliti. Nondimeno, occorre difendere le Nazioni cadute nella peste liberale, prima fra tutte il Regno borbonico del sud, dove il famoso Ferdinando I ha concesso una Costituzione liberale, mentre la Sicilia era in fiamme in mano ai Carbonari. Si rinvia a Lubiana la parte pratica, cioè “come ripristinare lo statu quo”, perché “l’Alleanza deve esercitare un compito che può essere paragonato alla Provvidenza che rettifica l’ordine morale”, regola che Alessandro di Russia difende a spada tratta e che Metternich approva con poca soddisfazione, lui che è un aristocratico ateo ed illuminista, che però sfrutta le fedi religiose conservatrici dell’ordine sociale antecedenti alla Grande Rivoluzione, al fine di salvaguardare la ricca borghesia bavarese e danubiana.
Il congresso di Lubiana del 26 gennaio 1821
Non è subito chiara la ragione per cui improvvisamente viene interrotta la Conferenza di Troppau. Ma come si è anticipato, un duello diplomatico si svolge fra le due ali della vecchia Santa Alleanza. Se l’ala liberale è restia all’intervento diretto e l’inglese Castlereagh preme per concedere a Napoli – e anche alla Sicilia – una Costituzione liberale sul modello francese attuata da Napoleone al ritorno dall’Elba nel 1814 e poi confermata dal Re Luigi XVIII di Borbone; gli iper legittimisti russi e tedeschi tendono all’apposto a restaurare gli antichi imperi senza discussioni o intermediazioni.
Il loro interventismo ad oltranza mira ad ottenere i protezionismi territoriali per tacitare la domanda interna dei proprietari e dei produttori borghesi a caccia di mercati nuovi da dominare. Metternich di questo è conscio. Come pure deve negoziare con Ferdinando che in via riservata preme sulla “Quadruplice” – o sulla “Triplice” – visto che la Gran Bretagna non accetta altri interventi esterni nel Meridione d’Italia né tanto meno avalla la discesa di truppe austriache in Sicilia per restaurare l’ordine legittimista. Accetta alla fine una limitata attività di polizia militare preventiva, dove l’intervento diretto costituisce l’estrema misura.
Intanto a Lubiana, in territorio imperiale, vengono arrestati diversi ministri plenipotenziari che accompagnano il re di Napoli al Congresso, primo fra tutti il duca Sangallo, un “lord protettore” del Parlamento liberale che ha l’incarico di controllare il Re, noto fedifrago per i suoi precedenti voltafaccia causati dal suo interesse personale, come potevano testimoniare i baroni siciliani negli anni in cui Ferdinando regnò in Sicilia lontano da Napoli (1798 – 1815). Inoltre, Metternich divide il Congresso in due squadre operative: da una parte il gruppo fondatore della Quadruplice alleanza e i loro plenipotenziari; nella seconda quelli esterni, fra cui il principe Ruffo, già oppositore della Costituzione napoletana.
Nasce la figura dei diplomatici operativi chiamati a disciplinare forme di intervento politico e militare. Invece alla seconda squadra – cioè i diplomatici in odore di liberalismo, fra cui il francese Constant – non rimane che adeguarsi. E poiché quella Conferenza è mirata a reprimere i moti di Spagna e Napoli – mentre sulla Sicilia si tace per la conclamata interessenza inglese – alla Francia si concede una certa attività interventista in Spagna insieme alla Gran Bretagna, cui è confermata la potestà governativa di Gibilterra. Il Re di Napoli, per salvare la faccia di fronte al Parlamento napoletano, è autorizzato a parlare al popolo, fingendo di essere stato “costretto“ dall’Austria.
Il Papa ottiene la neutralità assoluta, malgrado che il legato Monsignor Spina abbia dato speranza a Guglielmo Pepe, capo della giunta paramilitare di Napoli che ha ottenuto la Costituzione e che nella more ha riconquistato il Regno di Sicilia, con un evidente appoggio della flotta inglese. Castlereagh, malato di nervi, lascia che il suo sostituto Lord Stewart non firmi il protocollo finale, di fatto autorizzativo all’Austria di intervenire militarmente, salvo la flebile condizione di accoglimento del Parlamento del messaggio reale.
Il duca Sangallo, liberato dagli austriaci provvisoriamente, abbandona la carriera diplomatica e il Re con faccia tosta imperturbabile, seguito dal Ruffo di Calabria, mostra al rientro a Roma una volontà di vittoria, mentre il principe vicario Francesco si limita a difendere il padre dall’accusa di tradimento. Il generale Colletta prepara un esercito di resistenza che a Rieti il 7 Marzo del 1821 è sconfitto dagli Austriaci penetrati dallo stato pontificio. Il 23 marzo del 1821 Napoli capitola e il Parlamento liberale, guidato da Giuseppe Poerio si disperde.
Nel frattempo, la Sicilia, ritornata nell’ambito del Regno del Sud anche per effetto di una precedente riconquista militare borbonica, rimane presidiata dalla flotta inglese, ormai guidata dal più flessibile Wellington, che succede al Castlereagh ritiratosi dalla politica e poi morto suicida. Rimangono pendenti la questione greca e la questione spagnola e delle relative colonie sudamericane.
Il Congresso di Verona: 9-14 ottobre 1822
Il Congresso di Lubiana ha lasciato in ombra altri temi diventati improvvisamente più urgenti, la pirateria internazionale e l’abolizione della tratta degli schiavi. Tematiche che la Gran Bretagna a Verona nel 1922 accelera nella loro attuazione, approfittando del numero non indifferente di partecipanti, tale da essere chiamato “il Congresso dei Grandi”, proprio per la partecipazione dell’Impero Ottomano e degli Stati Uniti d’America. E partecipa pure il Regno di Sardegna, con il Re Carlo Felice di Savoia, grato dell’appoggio operativo dell’Austria che l’anno precedente ha prestato a quel Sovrano dopo i moti liberali capeggiati dal Santarosa e del giovane Carlo Alberto, che ha approvato nel marzo del 1821 una Costituzione liberale simile a quella spagnola del 1812.
Le contorsioni revocatorie di Carlo Alberto, nonché l’arrivo di forze austriache di rinforzo all’esercito piemontese lealista dell’erede al Regno Carlo Felice e lo scarso impegno delle forze liberali, provocano a Novara la sconfitta di quel governo. Quanto alla pirateria e all’abolizione della schiavitù, le dichiarazioni esplicite risalgono alla politica di Lord Canning che le ha perseguite per il suo paese fin dal Congresso di Vienna. La borghesia inglese è sollecitata dalle odi libertarie di Lord Byron e dalla ancora più pericolosa domanda di apertura dei mercati asiatici, nonché dalla ricerca di nuove vie per consolidare l’impero coloniale, dall’India, al Sudafrica fino all’Egitto, senza contare la difesa delle deboli repubbliche sudamericane; è pronta a limitare le loro deboli democrazie raggiunte con le élite conservative locali, le quali consentono alla Gran Bretagna e ai giovani Stati Uniti di sfruttare le ingenti risorse minerarie di quei paesi.
In sintesi, il Congresso di Verona ratifica per altri 8 anni la “Santa Alleanza” legittimista e le pretese economiche protezioniste tessute diplomaticamente dal Metternich. Per l’Italia manca l’apporto delle masse contadine e della nascente classe borghese nel processo di indipendenza e di unità, che Grecia e Sudamerica almeno alle origini le ha viste partecipare. La maturazione di nuove forze democratiche borghesi si avrà solo a partire dal 1830. E il ruolo di grande mediatore del Metternich proprio a Verona viene progressivamente meno, sia per la comparsa della dottrina Monroe, Presidente USA – “l’America e gli americani” – sia perché dopo vari gesti ambigui dei regnanti – per esempio di Ferdinando I e di Carlo Alberto – il tradizionale odio per i tiranni fu lentamente sostituito dalla disillusione del “Principe amico del popolo, illuminato e padre dei suoi sudditi”.
Sentimento che progressivamente conquisterà anche la cultura europea fino all’esplosione della Russia nel 1917 e alle nuove prospettive nelle relazioni fra gli Stati europei dopo la Grande Guerra. Due colonne reggono per ora il sistema di governo “confederale” europeo dopo Napoleone Bonaparte: da una parte il ritorno legittimo delle corone europee alla guida delle consolidate nazioni vincitrici a Waterloo; dall’altra l’adozione dell’intervento militare repressivo nei paesi vicini europei minacciati dalla peste liberale.
In una parola, benché ancora non esplicativo, vige la regola aurea delle sfere d’influenza, ereditata dall’ideologa storica e illuminista di un Vico e di un Leibnitz. All’applicazione diretta di tali paradigmi emerge un merito inoppugnabile: per un trentennio le guerre fra stati spariscono sul territorio europeo. Ma riappaiono i contrasti interni fra le classi sociali: dalle repressioni in Italia, Germania, Francia, Polonia e Russia, fra il 1820 al 1848, alle istanze di libertà e democrazia di questi paesi “vicini” alle grandi potenze, riemergerà con forza la tragedia della guerra dei suoi derivati.
Da Verona a Parigi (1825-1856)
Non è questo il luogo di entrare nel dettaglio delle numerose rivolte nazionali che in Europa si svolgono nel trentennio successivo alla regolamentazione delle relazioni politiche fra stati dopo il Congresso di Verona. La rilevata questione delle nazionalità e del relativo intervento repressivo in Italia e Polonia, ma anche della Russia, ci porterebbe fuori dai limiti di esposizione esposti. Qui, basti fare cenno ai problemi politici e sociali che sorgono in Italia, Germania, Polonia, Grecia e Russia nel ventennio successivo.
Il decabrismo rivoluzionario russo (1825), la carboneria italiana, il mazzinianesimo e il romanticismo politico fra gli anni ’20 e ’30 dell’800, segnano la nascita del nazionalismo liberale, del liberismo economico e del liberalismo politico, in cui la domanda di una Costituzione democratica si intreccia con l’idealismo filosofico e con la ricerca di una nuova economia fondata sulla libera concorrenza, contro ogni forma di protezionismo doganale, alla ricerca di un mercato aperto disposto alla libertà degli scambi commerciali, dove già emerge la società industriale di massa.
E’ il primo capitalismo di David Ricardo, di Say e di Carlo Cattaneo, quando dietro la bandiera di Napoleone, Wellington e di Guglielmo Pepe – ma anche di Giuseppe Mazzini, di Lord Byron, dal poeta polacco Mikiewicz, di Chopin, del greco Karaiskakis e del belga Rogier – Grecia e Belgio raggiungono l’indipendenza (1829-1830), mentre Italia e Germania tentano con moti popolari, che falliscono rapidamente, l’adozione di Costituzioni liberali nei rispettivi Paesi.
Russia e Polonia seguono invero una strada senza uscita: nella prima nel 1825 i militari che hanno sconfitto Napoleone, organizzano un colpo di stato che viene represso rapidamente dal nuovo zar Nicola I. In Polonia, l’obiettivo unitario è ancora più difficile, malgrado la loro storia nel 17° e 18° secolo abbia avuto una fortissima esperienza unitaria. La rivoluzione è soffocata dalle tre tradizionali Potenze della Santa Alleanza. Nel 1831, Mazzini con il sul movimento della “Giovine Italia”, ci prova in Emilia Romagna e nel Lombardo – Veneto, province austriache per effetto della spartizione di influenze regolate a Verona. E’ sempre lo stesso fallimento. Manca una borghesia agguerrita che vuole essere alla guida del futuro regime, come pure manca una classe contadina e operaia che abbia coscienza del suo stato sociale.
Al contrario, Francia e Gran Bretagna hanno già la prima e si indirizzano per la seconda componente sociale. Nel 1830 la borghesia imprenditrice industriale francese guidata da Luigi Filippo d’Orleans, si riprende la Francia di Napoleone I e non mancano autori, da Hugo a Balzac, da Dumas padre a Flaubert, disposti a narrare la situazione sociale di quel periodo, benché alla industrializzazione nascente, seguano gravissimi problemi di sanità pubblica, di delinquenza minorile, di sfruttamento del lavoro, di prostituzione e di corruzione politica. I Miserabili di Hugo rappresentano intramontabili figure sociali dell’epoca; in Inghilterra, Dickens è il narratore per eccellenza di una società liberale dotata di un regime parlamentare collaudato da più di un secolo, ma priva di un diritto protettivo delle classi più deboli analogo alla realtà francese.
Comune é lo spirito capitalista di ricerca del profitto, rivolto alla acquisizione di nuovi mercati idonei a soddisfare la progressiva crescita della produzione, ma statico nella incentivazione di una domanda che la indirizzi a tutela delle classi più deboli. L’esubero di produzione impone nuovi mercati, la cui conquista chiede pace sociale interna fra le classi detentori del potere – gli agrari capitalisti, gli imprenditori e i possessori delle materie prime, peraltro sempre più scarse – e l’acquisizione di territori esteri vicini a volte non ottenibili col mero commercio e con lo scambio.
Il primo capitalismo impone la conquista di territori necessari al suo mantenimento. Di qui la tendenza imperialista rivolta ad assorbire le nazioni vicine, spesso motivata da presunte presenze di aree abitate da fratelli di lingua e di religione, anzi domina la tradizionale regola delle sfere di influenza già acquisite a “Vienna”. Neppure l’ondata democratica del 1848 -1849 spezza questa tendenza: le Rivoluzioni di quegli anni, infuocano le regioni europee in nome della democrazia e della tutela dei diritti liberali, in difesa della salute e delle persone ormai incatenate alla fabbrica di massa.
I Nazionalismi si tramutano in Imperialismi che vengono sempre fra loro violento contatto. E’ questo il contesto storico fra il 1849 e il 1853: Napoleone III per la Francia, Nicola I per la Russia, la regina Vittoria di Gran Bretagna, invocano il monopolio della difesa dei Luoghi sacri del Medio Oriente contro la tradizionale protezione della Porta Ottomana; ma in verità aspirano alla circolazione esclusiva nel Mar Nero per favorire i collegamenti marittimi e terrestri con le Colonie e con i Balcani. Ma andiamo con ordine.
Lo storico Thomas Carlyle scrive uno dei suoi saggi di critica storica meno noti, se non per la suggestione di titolo ancora oggi in voga – “Passato e presente” (edizione originale, Londra, 1849 e prima traduzione in Italia edizione Bocca, Milano, 1905) – che impressionano Carlo Luigi Napoleone, il futuro Presidente della Seconda Repubblica francese e poi Imperatore dei Francesi dal 2 dicembre 1852. Nel carcere a vita di Ham, dove l’allora regime parlamentare democratico moderato lo ha recluso, il maturo mazziniano legge estasiato la massima dello storico inglese “nessuno fra i grandi uomini vive invano: la storia del mondo non è che la biografia di tali individui”.
A 35 anni, si chiede perché il suo programma politico non possa replicare la somma grandezza dello zio Bonaparte. Come scriverà la storiografia di metà ‘900, varie questioni europee lo vedono protagonista sulle ceneri del 1848-1849, nel momento in cui “l’età degli Imperi” succede all’”età delle Nazioni”, che altri chiameranno la “belle-Epoque”. Ebbene, Carlo Luigi scalerà il fragile potere repubblicano, divenendo Presidente della Repubblica, per poi col colpo di stato del 1852, tramutarla in Impero, suscitando le notissime critiche di Marx e Hugo. Si può dire che la nozione di “Grandeur” della Francia di De Gaulle ha in lui un precoce quanto audace iniziatore.
E’ nazionalista, conservatore e cattolico, ma anche paladino delle popolazioni oppresse dagli schemi rigidi del Congresso di Vienna del 1815, nonché continuatore del governo liberale di Luigi Filippo. La nuova classe capitalista industriale preme alle porte e la democrazia sociale e parlamentare va spazzata via. In fondo, la centralità del Governo voluta dallo zio Bonaparte il 18 Brumaio del 1799 sembra al nipote più conveniente di fronte alla domanda di libertà economica che ritorna dal vecchio impero e che ora è attuata con spregiudicate interpretazioni costituzionali rivolte a mutare gli equilibri di forza da “sinistra” a “destra”, dopo la fine del governo radicale del ’48.
Formule legislative superficiali non ancora idonee a consentire una Costituzione democratica dotata di contrappesi idonei a bloccare tentativi eversivi. Peraltro nel 1849 i liberali della Valacchia insorgono e chiedono la Costituzione e l’indipendenza dal sultano turco. Il Principato Slavo si trova stretto da due fuochi: da una parte la rapida repressione ottomana e dall’altra il grande abbraccio dello zar russo Nicola I, che fin dal 1829, in nome della “madre ortodossa”, è venuto loro incontro, liberando quella provincia, oggi rumena, solo dal lato religioso e non certo dal lato laico e democratico.
Con l’accordo russo-ottomano di Balta – Liman del 1 maggio 1849, di fatto quest’ultimo accetta il protettorato Russo e apre le porte del Mar Nero alla flotta russa. Cosa che provoca sconcerto a Parigi e Londra, perché l’agognata “quarta sponda” della Russia verso il Mediterraneo sembra essere raggiunta, con il pericolo di una profonda limitazione all’espansione dei traffici coloniali verso l’India per la Gran Bretagna e la parallela minaccia per la colonizzazione del Mediterraneo centrale della Francia da Algeri a Tunisi. Ma la questione d’Oriente si aggrava con virulenza qualche anno dopo a Gerusalemme: la debole gestione dei Luoghi Santi da parte del governo Ottomano, lacerata dagli scontri fra Ortodossi, Cattolici e Maomettani, fa il gioco di Nicola I.
Nel 1852 questi ottiene il privilegio per la Chiesa ortodossa della loro gestione. Il vaso è colmo: per un anno intero, le cancellerie europee – segnatamente quella francese e inglese – protestano diplomaticamente contro l’antico orientamento di Pietro e Caterina di Russia di dividere e assorbire l’Impero Ottomano, nonché di cacciare da Gerusalemme le Chiese cattolica e protestante. Chi legge i diari del ministro degli Esteri francese Waleswski e dell’omologo inglese Russell, scoprirebbe vere e proprie acrobazie diplomatiche per sottrarre l’Austria e la Prussia dal tentativo di essere attratte dalle promesse dell’”Orso Russo” di ottenere territori balcanici in cambio di una loro neutralità, analoghe alle contorsioni che stiamo osservando oggi per la questione Ucraina.
Ma è Napoleone III a dire che “la probabile guerra nella penisola della Crimea, fra la Russia e la Francia potrebbe essere quella nuova Rivoluzione europea svanita nel 1848 e ora più che mai attesa…Io l’ho ideata e io la perseguirò con tale speranza, fino ad acquisire nuovi territori di cui la Francia ha ora bisogno”. Nell’ottobre del 1853 la Francia Imperiale, insieme alla Gran Bretagna di Hamilton Gordon – un liberale che temeva conseguenze per l’India e per l’Afghanistan – vengono in soccorso dell’Impero Ottomano, invaso dallo Zar Nicola che ha occupato molte aree costiere del Mar Nero col pretesto di tutelare le minoranze ortodosse minacciate dall’intolleranza musulmana.
Diamo al lettore la possibilità di approfondire la prima parte della campagna militare franco-inglese, favorevole fino al 1855 per gli alleati occidentali, benché la flotta turca subisca non poche sconfitte sul Mar Nero. Fatto si è che da allora la guerra da movimento divenne di posizione. Il baricentro diventa la fortezza di Sebastopoli in Crimea in mano al generale russo Menšikov che con la sua artiglieria blocca le forze alleate in trincee a ridosso delle mura.
Nei lunghi mesi di assedio però il vero nemico è il colera: le cronache dello storico inglese Kinglake narrano di una terribile epidemia che colse ambedue le truppe in assedio, calcolate dai 30.000 ai 40.000 morti, vicenda che porta alla nascita del volontariato femminile nelle zone di guerra per la prima volta e alla coeva formazione del corpo delle crocerossine di guerra guidate da Florence Nightingale. Ma proprio sotto quelle mura, Napoleone III e Camillo Benso di Cavour intessono l’improvvisa alleanza che dà larghissime speranze per la soluzione di quella questione italiana che parimenti affligge l’Europa da 50 anni.
Il piano politico di Cavour: rischi e speranze di uno Statista
Non è questo il luogo per esprimere un parere completo su Colui che è considerato il grande “tessitore” della nostra nazione. Sicuramente l’idea politica che lo contraddistingue è quella di uscire dalle mura di casa e di aprire le porte alla politica estera. Al governo nel piccolo paese piemontese, Cavour lo trasforma nelle più industrializzato della penisola e anche per merito suo di esperto dell’economia liberista fin dal 1850.
Cavour ha ben chiara la scelta di fare una unica strategia politica finora mai perseguita, vale a dire “l’unità di azione interna ed estera”. Da un lato, almeno fino al 1856, non ha alcuna idea unificativa dell’intera penisola, limitando la sua politica liberista alle regioni del Nord Italia; ma dall’altro le regole liberoscambiste lo portano lontano dal clericalismo conservatore austriaco. Guardava proprio alla Francia di Napoleone e all’Inghilterra di Palmerston, nuovo astro nascente della politica inglese di adesione alle idee di Ricardo, economista classico fautore del commercio internazionale quale fonte primaria della crescita nazionale.
E’ però fortemente antisocialista dopo il fallimento della rivoluzione a Parigi del 1848 e molto attento alla evoluzione dell’economia borghese di Napoleone e del relativo asse politico formato sulla centralità politica del Parlamento, fulcro della democrazia, sede ideale per le libertà formali costituzionali. In fondo, la democrazia parlamentare anglosassone garantiva “il libero scambio e la libera chiesa nel libero stato borghese”, cioè quella monarchia costituzionale centrista che reggerà l’Italia fino al 1922.
Ha di fronte il pericolo di una nuova Santa Alleanza fra Nicola I e Francesco Giuseppe D’Austria e Ungheria senza contare il rischio nazionalista prussiano di un suo omologo nell’idea unificatrice, cioè di un Otto von Bismarck. Ma è altrettanto convinto nel favorire la caduta delle barriere commerciali interne, restando coerente con la visione globalizzata che ha vissuto da giovane nel Belgio appena indipendente, dove una nuova classe dirigente mercantile ed industriale, insieme al vicino modello olandese, garantisce una non indifferente politica coloniale di positivo sfruttamento e di scambi di materie prime energetiche.
Intanto, nel languore delle trincee attorno a Sebastopoli, la situazione militare si sta aggravando a favore della Russia zarista, che da assediata sta per trasformarsi in assediante, come avverrà quasi un secolo dopo a Stalingrado. Lord Palmerston corre ai ripari. Dalla Crimea gli perviene la notizia che il porto di Balaclava – una via di scampo del contingente inglese attestato sulle alture di fronte a Sebastopoli e luogo di deposito dei rifornimenti – sta per essere preso dai Russi, circondando il corpo di spedizione inglese. E mentre pensa di come rompere quel terribile accerchiamento; Austria e Francia trattano per l’entrata della prima in guerra. Anzi Francia e Inghilterra, ormai esauste, promettono a Francesco Giuseppe mano libera in Italia.
Che fare? Cavour ha dato la sua parola a Napoleone III e a Palmerston di intervenire in quella lontana guerra, apparentemente estranea ai nostri interessi. Ma poi addirittura sta per allearsi con l’odiato Imperial Regio Governo di Vienna. E poi, veramente Vienna è per la libertà dei popoli balcanici? “L’aquila imperiale” non è meno tirannica dall’orso russo. Ma un passo indietro rispetto alla promessa di aiutare le grandi potenze democratiche impaludate nelle secche di Balaclava, lascia Cavour nella stessa tempesta del dubbio di Mazzini un decennio prima quando ha notizia della tragica morte dei fratelli Bandiera.
Nella notte fra il 9 e il 10 aprile del 1855, Cavour mette sul piatto della bilancia le possibili conseguenze e accetta il rischio di firmare al buio un Trattato di alleanza che lo obbliga ad inviare un corpo d’armata di 15.000 uomini guidati dal generale Alfonso Lamarmora, che pur obbedendo, non lo comprende, come tanti politici del Parlamento sardo. Ci si chiede la ragione di quella guerra mentre sul fiume Cernaia, il 16 agosto del 1855 – lo stesso giorno della carica dei 600 cavalieri inglesi nella più famosa cavalcata militare della storia – migliaia di bersaglieri cadono a favore di un popolo così lontano e così diverso.
Tuttavia, la posizione dell’Austria-Ungheria si raffredda rapidamente: la corrente ecclesiastica convince Francesco Giuseppe a non rompere del tutto con la Russia e il governo di Vienna preferisce non aderire ad alcuna alleanza coi Russi. Solo nel 1914 quella politica di neutralità in un caso simile venne meno. Così “la diplomatizzazione del Risorgimento” – secondo la tesi caustica del Crispi – dà i suoi frutti. Alla Conferenza di pace di Parigi nel 1856 Cavour mette all’accettazione la cambiale che ha preteso in cambio della strage sulla “Cernaia“, cioè l’appoggio della Francia e Inghilterra nella c.d. questione italiana. I numerosi morti piemontesi anticipa i tantissimi francesi che caddero nel 1859 a Solferino e garantiscono anche la protezione dell’Inghilterra durante la spedizione dei Mille nel sud dell’Italia nel 1860.
L’intervento di Cavour nella seduta integrativa della Conferenza di Parigi, in cui espresse in modo impetuoso le colpe dell’impero austroungarico fin dal Congresso di Vienna, per aver tollerato il malgoverno di Ferdinando II di Borbone e la protezione interessata dello Stato Pontificio; costituiscono una netta vittoria morale della diplomazia piemontese, foriera dei suggerivi passaggi unificativi del 1859 e dl 1860. L’Indipendenza e l’Unità italiana, è ottenuta per via diplomatica ed internazionale piuttosto delle limitate rivolte popolari che sono state inefficaci nel 1848. Cavour sceglie la prima strada e vince.
Napoleone, da parte sua, ha due risultati notevoli: a Sebastopoli ottiene la fine dell’Impero turco, destinato a diventare “il malato d’Europa”, senza però alcun guadagno sui Balcani, dove rimane pendente il duello fra impero asburgico e impero russo. Napoleone III ha più successo nella questione italiana, ma dopo Solferino verrà nel 1870 Sedan, quando lo sconfiggerà la Germania imperiale. A Parigi, nel 1856, comunque entra in scena una parziale revisione dei principi generali di “Vienna/1815”.
In particolare lungo la conferenza – che si svolge fra il 25 febbraio e il 16 aprile 1856 – dopo più di 40 anni di pace del Congresso di Vienna – circostanza temporale che va segnalata a sostegno di quanto diremo – non solo si vede la partecipazione delle Potenze vincitrici – Inghilterra, Francia, Impero Ottomano e Regno di Piemonte – ma anche del grande sconfitto, l’impero Russo, e delle due grandi potenze che sono in varie occasioni poste a mediare nei tre lunghi anni di guerra, l’Impero Austro – Ungarico e il regno di Prussia di Bismarck, appena divenuto Cancelliere.
Un “nuovo ordine” è nell’aria, non certo quello del 1848-1849, dove la libertà dei popoli è stata sconfitta a vantaggio del più tangibile interesse della nuova borghesia industriale diretta ad accaparrarsi rotte commerciali e materie prime. Intanto, i Principati danubiani di Serbia, Moldavia e di Valacchia, occupati dall’Orso Russo, e primo passo della guerra, vengono liberati e restituiti alle case regnanti locali. Il fatto che garante sia l’Austria/Ungheria fa pensare a quale livello di ambiguità sia la qualità del rispetto della menzionata autonomia, che rimane invero inalterata nel vecchio spirito perché i tre Principati rimangano sotto l’alta protezione della Sublime Porta, ma cresce il protettorato austriaco, salvo la concessione sul punto della libertà religiosa e un generico impegno a consultare le popolazioni.
Non solo le libertà democratiche rimangono teoriche; ma anche la tutela delle minoranze slave è debole. I diritti di commercio e di navigazione vengono rinviati a Protocolli successivi che continuano ad essere invocati per un altro decennio. Quanto al Mar Nero, viene smilitarizzato e le Isole Åland nel golfo di Finlandia passano alla Russia, una minaccia nel Baltico di fronte alle provincie orientali della Prussia. La Bessarabia – oggi quel Dombass preda della discordia fra Ucraina e Russia – ritorna alla Russia. Tutti i Cristiani ottengono la protezione dei Luoghi Santi e non solo quindi gli ortodossi (altra causa della guerra).
Resta ancora una timida accettazione del libero transito nelle vie d’acqua del Danubio fino al Mar Nero, ma la regolamentazione della navigazione è solo un principio, perché si consente un libero accesso “anarchico” immediato, foriero di future guerre. In sostanza, l’esperienza della Russia all’orlo del Mar Nero è spostata più a Nord e la vecchia frontiera con la Turchia della Russia riappare nelle nuove cartine. Al di là delle rettifiche di territorio a danno della potenza perdente, certamente un migliore equilibrio fra le Nazionalità del territorio balcanico non è stato raggiunto.
E meno che mai è abbandonato il principio di intervento. Solo che quest’ultimo ora è inteso come sfera di influenza progressiva a vantaggio delle nuove potenze all’avanguardia industriale – la Francia e l’Inghilterra – perché la libera navigazione sul Danubio consente la conquista delle materie prime presenti nelle colonie asiatiche. E lo stesso Piemonte fa capolino nell’assise dei grandi per mettere la sua ipoteca sul Lombardo/Veneto. Il principio di “autonomia dei popoli”, elaborato dal Mazzini e dal Carlyle, nelle cene al caminetto di casa Dickens a Londra, per ore è una utopia.
Da Parigi a Berlino (1859-1878)
Benché nella maggior parte dei casi in esame, il periodo intercorso da un Trattato di Pace ad una nuova guerra in Europa non sia breve – con l’effetto non indifferente di una guerra moderna (per esempio dalla conferenza di Verona del 1822 alla Conferenza di Parigi del 1856 siano passati più di 30 anni) – stupisce comunque che dopo appena tre anni dalla conclusione del trattato di Parigi (16.4.1856), sia scoppiata una guerra fra Francia e Regno di Piemonte contro l’Austria (Aprile-Luglio del 1859).
Nondimeno, nel decennio successivo il suolo europeo è ulteriormente insanguinato da una serie di guerre con i paesi di confine alla Confederazione germanica degli Stati minori al qua del Reno istituita dall’atto finale del Congresso di Vienna (1815). Fautore di queste vicende è Otto von Bismarck, olimpico politico tedesco che adotta – parallelamente al nostro Cavour – una politica di annessione della miriade di Stati che la predetta Confederazione aveva affidato alla guida dell’impero austriaco sotto la direzione di Klemens von Metternich.
Non è un’aggregazione pacifica quella del Regno di Prussia: dopo una costante “politica del carciofo”, cioè Stato dopo Stato minore che entra a far parte della c.d. Confederazione tedesca del nord (dall’Assia, alla Sassonia, fino alla Baviera, a volte dopo cruenti scontri militari), nel 1967 nasce un Reichstag, un nuovo Stato Prussiano eletto a suffragio universale. Di qui, due guerre con la Danimarca e poi con la Baviera; poi una guerra contro l’Austria e poi infine contro la Francia di Napoleone III nel 1870 – 1871.
Ovvi limiti di spazio limitano l’analisi di queste guerre interne all’area Mitteleuropea. Fin dal 1872 la presenza dei due nuovi Stati nel consesso europeo – il Regno d’Italia e l’Impero tedesco – impone a Bismarck – e agli epigoni della Destra Italiana, da Depretis a Crispi, fra il 1873 e il 1890 di congelare l’equilibrio europeo, tanto più che la Francia ha assunto una forma repubblicana peraltro autoritaria e militarista orientata alla rivincita sulla Germania per riottenere l’Alsazia e la Lorena, germanofona, ma non germanofila. Unico nemico che è rimasto a Bismarck da contenere è lo stesso avversario di Napoleone III, “l’Orso russo” di Alessandro II e Alessandro III.
Tutti gli storici concordano che la crisi depressiva in economia – la c. d seconda crisi industriale del 1873 dopo il boom degli anni 1830/1870 – va sanata da un periodo di pace e di globalizzazione del mercato europeo, da impostare come libera concorrenza sul mercato non solo europeo per incrementare la produzione e quindi il consumo di merci e servizi. L’industrializzazione, i trasporti, la fine dei dazi doganali e l’economia finanziaria devono riprendere il decollo frenato dalla crisi sociale del 1848-1849. Espansione continentale o allargamento coloniale? Due facce della stessa medaglia per la nuova classe borghese industriale e finanziaria, nel campo dell’industria pesante, manifatturiera, in agricoltura e nei servizi.
Il colosso russo e quello austro-ungarico tendono ad espandersi nei Balcani e vanno allora di nuovo alla guerra. La Francia vuole il mediterraneo centrale e si scontra con l’Italia umbertina; la Gran Bretagna esige più rapidi legami con l’India e chiede la libera circolazione nel Mar Nero per le sue rotte commerciali e per avere materie prime necessarie alla produzione; la Russia però non manca di espandersi nei Balcani e l’Austria Ungheria teme lo scoppio della polveriera. La guerra rischiata per Tunisi fra Italia e Francia e gli scontri di frontiera con la Sublime Porta aumentano. Guarda caso, Romania, Polonia, Bessarabia (Ucraina del sud), Bulgaria, Serbia, Macedonia, Slovacchia e Istria – e chi più ne ha più ne metta! – ribollono all’interno dell’Imperial Regio Governo di Vienna.
Le Nazionalità ritornano a premere; la Francia rivendica l’Alsazia e la Lorena occupate dalla Germania; l’Italia chiede Trieste e Trento; la Gran Bretagna domanda di essere lasciata libera nelle colonie d’Asia e d’Africa; e l’Egitto va aperto alla navigazione della nuova borghesia occidentale. 1877 – 1878: lo zar Alessandro II attacca gli Ottomani e giunge alle porte di Costantinopoli. Che forse il panslavismo – e il pangermanismo che lo segue a ruota – siano le cause di nuove guerre infinite come quelle di Napoleone di inizio secolo? Bismarck, guerrafondaio fino al 1870 per l’unificazione tedesca, da genio della politica e della diplomazia, si affida ora alla esperienza storica del suo collega Metternich.
Comprende che dietro l’Europa delle dinastie ci sta lo stesso interesse di quello delle Nazioni appena ricostituite, col fine di ritrovare un lungo periodo di pace idoneo alla crescita parallela in economia per le rispettive classi dirigenti, al di là di lotte ideologiche foriere di morte e con funzione politica e sociale. Kulturkampf, caso Dreyfuss, irredentismo balcanico, diffidenza fra i paesi occidentali, alleanze tra agrari e autoritarismo conservatore, frazionamento fra Stati con tendenze sovraniste, cessazione del sistema delle influenze e tentativi di fare da soli per proteggere le economie nazionali; non erano le strategie che rendevano maggiori profitti, ulteriori risparmi e investimenti in mercati esteri.
Né favoriscono lo sviluppo tecnico e quello delle scienze. Piuttosto, è più opportuno un nuovo ordine internazionale di stabilità, una progressiva apertura di mercati esteri, fondata sull’equilibrio fra gli Imperi europei, sorretto da una comune borghesia industriale e finanziaria. Questa è la ricetta per allontanare lo spettro della guerra continentale. Bismarck capisce ciò e si comporta di conseguenza: prima tenta di riannodare le fila della unione tra i vecchi imperi postnapoleonici. Di qui, Dreikaiserbund, il patto fra i tre imperatori – il russo, l’austriaco, il prussiano ora tedesco – del 1872 che frenerà i rigurgiti democratici dei popoli, dalla Polonia ai Balcani. Sembra un gioco da tavolo: la Germania blocca la Polonia in rivolta con la Russia; la Prussia vigila sull’Austria; e la Russia si interessa della Turchia (vecchio obiettivo è il Mar Nero, ma anche il Baltico, nonché un po’ di Manciuria sotto la Siberia…). Un gioco delle parti, che vede la Francia repubblicana avvicinarsi ad Alessandro III, autocrate del Cremlino ormai divenuto il Santo Protettore dei “fratelli slavi del sud”.
Resta fuori la Gran Bretagna della Regina Vittoria, tutta protesa sul mare atlantico, sul Pacifico e soprattutto sull’India, il tesoro del suo potere dei mari. Poi, altre guerre nei Balcani e altre scaramucce in Afghanistan fra Russia e Inglesi, fanno oscillare questa politica di equilibrio. E il nostro giocoliere ne inventa un’altra: scaricare le tensioni europee nei continenti più lontani. Mentre il Sudamerica rimane terra di conquista del nascente impero statunitense. Francia, Inghilterra, Germania, perfino l’Italia, tentano con diverso successo, l’avventura africana e asiatica, riversando i loro conflitti e le loro paure fuori dal perimetro di casa e dunque, adottano un nuovo criterio figlio dell’antica regola delle sfere di influenza, con la differenza che è il giardino di casa altrui da conquistare a sud est dell’Europa.
Spicca la politica inglese: se il liberale Gladston chiama alla guerra contro la Turchia, rea di aver stuzzicato – o meglio “scannato” – 12.000 ortodossi slavi in Bosnia Erzegovina e in aree bulgare nel 1879. Nondimeno, Disraeli, premier conservatore inglese, poco si attiva per la pace e al più propone sanzioni alla Russia. Seguirà una seconda guerra balcanica fra Russia e Sublime Porta, che con un Trattato del 1877, il c.d. Trattato di S. Stefano, assegnerà alla Russia un immenso protettorato che va dalla Serbia, al Montenegro, dalla Romania alla Macedonia fino all’Egeo: un Principato di Bulgaria ortodosso sotto tutela Russa che lascia non indifferente la Francia legata finanziariamente agli industriali Renani; ma con la Turchia all’estremo limite di sopravvivenza. Rimarrebbe un’Austria Ungheria piuttosto contenuta e una Gran Bretagna ostruita nella sua ascesa coloniale verso l’Asia e l’India.
Di nuovo e peggio della guerra della Crimea …. Bismarck si rende subito conto che stavolta l’Orso Russo è dietro la porta del Baltico e dunque corre ai ripari. Da una parte denunzia il Dreikaiserbund e lo sostituisce con “la Triplice alleanza”, la cui terza colonna è l’Italia umbertina, bloccando l’espansione navale inglese nel mediterraneo attorno a Malta e con l’Italia minacciosa verso la Francia per Nizza e la Corsica. Una politica di contrappesi che andrà a radicalizzarsi dopo il ritiro forzato di Bismarck dalla Cancelleria, licenziato per contrasti col nuovo Kaiser Guglielmo II.
Eppure a Berlino nel 1878, il Cancelliere di ferro ottiene la revisione del trattato di S. Stefano, nel senso che alla Russia resterà di fatto un pezzo di Bessarabia per una striscia di Armenia e un porticciolo della Georgia caucasica (Batum). L’equilibrio torna nei Balcani e “l’onesto sensale” ha postergato la prima guerra mondiale di ben 36 anni. Qual è il guadagno della Germania Imperiale? Certamente è il prestigio della mediazione a differenziarlo dall’imperatore francese nel 1856, perché la timida partecipazione della Germania alla divisione del patrimonio coloniale fuori dall’Europa – il secondo grande tema della Conferenza di Berlino – è immensamente inferiore alla realtà di pace ottenuta.
Del resto, un ideologo nazista del ‘900, Karl Schmitt, interpretando il favore di Hitler per il grande politico prussiano, ne trae un ulteriore caratteristica che avrebbe dovuto dissuadere o allontanare l’inevitabile conflitto con l’impero britannico, che nella prospettiva del terzo Reich riserva alla Germania il dominio della terra, quello dei mari all’Inghilterra. Sembra ancora utopistico però riconoscere il diritto delle popolazioni slave, delle nazioni di lingua araba, delle stirpi africane e delle genti dell’Asia minore, dei tanti popoli oppressi, usati come merce di scambio e come aree di sfruttamento da parte di nuovi e vecchi imperi europei. Si pensi alla Cina a e al Giappone, oppure agli emergenti Stati Uniti, che addirittura nel 1901 entrano nella Cina Imperiale accanto alle potenze europee e ancora invadono quel grande paese nella guerra dei Boxers, confermando lo spirito imperialista occidentale.
Da Versailles (1919) a Monaco (1938)
Come è noto la conferenza di pace di Versailles (Gennaio – Giugno 1919) ha lo scopo di fornire una nuova assetto della carta politica europea e mondiale dopo la Grande Guerra. E’ altresì chiaro che si stabilisce dai famosi 4 Grandi rappresentanti politici delle Potenze vincitrici – Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti – un regolamento altamente punitivo per le Potenze sconfitte, i tre imperi centrali e orientale, Germania, Austria – Ungheria e l’Impero Ottomano. Molto si è scritto sul “diktat“ del trattato alla Germania imperiale, diventata ormai Repubblica.
Nondimeno, fiumi di inchiostro hanno stigmatizzato le relative condizioni di pace, sia di natura risarcitoria, che di natura amministrativa e militare, nonché i confini territoriali. Punti del trattato estremamente punitivo che sicuramente causeranno la caduta della Repubblica e l’ascesa del nazismo (vd. il nostro scritto sulla Repubblica di Weimar del 24.5.2022 su questo sito). Qui invece, occorre, verificare la “messa a terra” dei famosi 14 punti che il Presidente americano Wilson, intesa come decalogo dei futuri Trattati di Pace che dovranno regolare i rapporti internazionali e prevenire od allontanare le minacce alla pace.
E’ questa una radicale rivoluzione delle regole internazionali anche connesse alla esecuzione dei Trattati, che cerca di risolvere le origini dei conflitti fra gli stati europei, finora risolti col metodo delle sfere di influenza e dell’intervento diretto, evolutesi però con Bismarck nella pericolosa contrapposizione fra triplici blocchi di nazioni (“l’Intesa e l”Alleanza”), sfociata nel tragico scontro del 1914. Mutamento di indirizzo che produrrà alla fine l’emersione di nuove Nazionalità, soffocate per più di un secolo all’interno degli Imperi crollati fra il 1917-1918. In particolare, il nuovo diritto internazionale, patrocinato dal Presidente Wilson, consta di 14 principi qui in breve riassunti:
- “Formazione pubblica dei Trattati, obbligatoriamente soggetti al controllo dell’opinione pubblica. Divieto di trattati segreti e relativo controllo parlamentare”. E’ una solenne negazione alla prassi governativa di Bismarck e una marcia indietro rispetto al “Patto di Londra” del 1915 che i nostri Salandra e Sonnino stipulano in segreto con le potenze dell’Intesa, creando un risentimento con gli ex alleati della Triplice, non dimenticato dai tedeschi l’8 settembre del 1943.
- “Libertà assoluta di navigazione dei mari fuori dalle acque territoriali anche in tempi di guerra”. Il caso “Lusitania”, nave civile di trasporto di persone silurata da sommergibili tedeschi nel 1915, lungo la rotta New York/Londra, aveva fatto scuola…
- “Libertà di commercio assoluta, purché le Nazioni associate rispettino la pace”, principio da rivedere in positivo per la notoria attuale guerra del gas fra Russia e Europa occidentale.
- “Riduzione parallela degli armamenti; salvo il limite della sicurezza nazionale”, anche se la generalità del limite è del tutto evidente.
- Il punto più incisivo: “legittimo diritto di autodecisione dei Popoli e delle Nazioni sul loro destino politico ed istituzionale anche in opposizione al Governo di appartenenza attuale”. Punto che darà la spinta al movimento di liberazione dal Colonialismo per buona parte del ‘900 e che dovrebbe essere valido per le aree dell’Europa fino al 1989 soggette all’ ex Unione Sovietica.
- Riconoscimento della Unione Sovietica (ex Russia) nei confini anteriori alla Rivoluzione, con l’effetto di cooperazione paritaria in tutte le organizzazioni internazionali e nei successivi consessi di Nazioni”. Regola che dovremmo mantenere alla fine dell’attuale conflitto fra Ucraina e Russia.
- Il Belgio e ogni altra nazione occupata da stati aggressori dovranno esser evacuati. Ogni aggressione dovrà essere sanzionata e risarcita dei danni”. Monito che resta ancora lettera morta.
- “La Francia dovrà essere pure liberata e le si dovrà restituire il territorio dell’Alsazia – Lorena occupato nel 1871 dalla Germania”, causa della guerra del 1914.
- “La sistemazione delle frontiere dell’Italia dovrà essere effettuata secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Principio ambiguo, la cui realizzazione troverà nella questione istriana e di Fiume un ulteriore motivo che genererà a breve l’ascesa della dittatura fascista.
- /11: “Ai popoli della Austria e Ungheria, dei Balcani (Romania, Serbia, Montenegro) dovrà essere restituita Sovranità, accesso al mare, libertà democratiche e giusti confini di nazionalità e appartenenza, nonché indipendenza politica ed economica”.
- “Mantenimento delle parti turche dell’Impero ottomano. Per le altre nazionalità di origine soggette all’Impero, sarà garantito il principio di nazionalità e di autonomia. Sarà inoltre garantito il passaggio libero per le navi commerciali di tutte le Nazioni in armonia ai Protocolli internazionali.
- “Dovrà essere costituito uno stato polacco indipendente” vale a dire la prima reintegrazione della Polonia prima della spartizione fra Russia, Prussia e Austria del 1762. Tuttavia, la conclamata autodeterminazione dei popoli e la relativa ricostituzione istituzionale e politica, il loro riconoscimento fra le Nazioni, proprio nel caso della Polonia, manca di chiara definizione reale di alcune particolarità formatosi nella loro storia. La “enclave” di Danzica, di lingua e nazionalità tedesca, circondata da territorio polacco, sarà la miccia del Secondo Conflitto Mondiale.
- “Una Società delle Nazioni dovrà essere istituita per mezzo di protocolli speciali al fine di salvaguardare l’indipendenza e l’integrità territoriale degli Stati aderenti qualunque sia la loro estensione e potenza economica e statale”. Istituzione che durerà meno di 20 anni e che non riuscirà a limitare l’espansione tedesca e italiana nazifascista nel territorio europeo e africano.
Non è questa la sede per convalidare gli effetti di questi principì, che sulla carta avallano una vera rivoluzione della tradizionale logica delle influenze e della relativa separazione in aree contrapposte, garantite dal diritto di intervento repressivo e poi delle logiche spartitorie e annessionistiche degli Stati più forti, interrotte da passaggi da una parte all’altra – i famosi” giri di valzer” dalla Triplice alleanza alla Triplice Intesa della prassi italiana, alle soglie del 1915 – che non garantiscono alcuna libertà alle popolazioni coinvolte specie se di lingua e costumi diversi spesso in rivolta, come nel caso delle popolazioni istriane e di Fiume, finite nel regno di Jugoslavia pur di lingua e tradizione italiane.
Eppure, la diplomazia tenta di applicare la dottrina Wilson, iniziando con la conferenza internazionale di Genova del 1922 (10.4-19.5), indetta per trovare soluzioni alla grave crisi economica europea dopo la Grande Guerra e rappresenta un incontro cruciale per la riapertura dei rapporti diplomatici fra le Nazioni dell’Intesa, l’Italia e il Giappone e le nazioni dell’Alleanza Mitteleuropea, decadute a repubbliche democratiche dilaniate da guerre civili interne e finalmente con la partecipazione della Unione Sovietica, figlia della temutissima Rivoluzione Russa e del movimento politico bolscevico, che produrrà poco dopo la reazione conservatrice in forme dittatoriali in Germania e in Italia.
L’aleatorietà delle risoluzioni che dalla Conferenza di Genova vengono fuori non è idonea ad evitare la crisi della Ruhr del gennaio 1923, dove la Francia si permette di occupare quel famoso bacino minerario al di là del Reno per recuperare l’enorme debito di Guerra accumulato dalla Germania sconfitta nel 1918 e che il Trattato di pace di Versailles affibbia alla Germania senza prevedere nel lungo periodo la reazione di quel paese ridotto allo stremo, tanto da cadere nel baratro ideologico del Nazionalsocialismo quasi dieci anni dopo.
Il successivo Trattato di Locarno franco-tedesco del 1925, mantiene alcune linee dialogiche fra i due paesi già nel 1923 sull’orlo di un nuovo conflitto. Ma l’attenzione della pressione economica debitoria e la pace fra Briand e Stresemann apre un breve periodo di respiro per l’Europa, anche perché nel 1924, il noto “Piano Dawes” di fonte statunitense consente di regolarizzare i pagamenti del debito di guerra, consentendo alla Repubblica di Weimar un quinquennio di relativa pace sociale.
Inoltre va detto che già una precedente Conferenza Preliminare tenuta a Cannes a gennaio dello stesso anno, promossa dalla Gran Bretagna di Lloyd George con scopi di mediazione fra Francia e Germania, ha chiuso i lavori con non poche incertezze e riserve mentali dei rappresentanti della due parti: mentre nei tre paesi vincitori della Grande Guerra una fortissima crisi sociale dilania le istituzioni liberali e democratiche (in Italia, le squadre fasciste assaltano le Camere del lavoro e le sedi dei Partiti; in Francia galoppa l’inflazione che massacra la piccola borghesia che vive a reddito fisso; in Inghilterra addirittura nel marzo del ’21 si sono contati 2 milioni di disoccupati e il famoso sciopero dei minatori del ’20 ha riempito pagine su pagine nei romanzi di Cronin, mentre in Germania la guerra civile spartachista e la Nuova Economia Politica di Lenin, provocano il rischio di reazioni a catena che spaventano la nuova classe borghese risorta dalle macerie di guerra).
Occorre la ripresa della libera circolazione commerciale che freni la ciclica caduta del prodotto interno lordo e rinforzi la produzione ed i consumi, circostanze storiche simili al momento attuale post pandemico. La Francia aspira a una maggiore coalizione antigermanica e anzi esige ad inasprire i pagamenti di guerra della Germania, peraltro ancora flagellata dal terrorismo nazionalista in un ordinamento repubblicano fragile e frammentato da un pluralismo partitico che non permette alcuna coesione democratica. Quanto alla Russia comunista, questa partecipa a Cannes per la prima volta al tavolo con le antiche potenze alleate con l’idea di infrangere il blocco economico che la opprime ormai dal 1917.
Nondimeno, mentre la Gran Bretagna spera col giovane Keynes di riaprire quel mercato, l’ingordigia del presidente francese Poincaré tenta di riavere la restituzione dei prestiti dati all’ex impero zarista e addirittura un ulteriore rimborso per le fabbriche confiscate dai bolscevichi. Neppure Lenin è favorevole a quella riapertura di rapporti se non siano prima compensate le spese per l’invasione della Russa da parte degli eserciti occidentali venuti in soccorso dei Russi bianchi legittimisti durante la guerra civile.
L’Italia nel frattempo sembra essere del tutto distratta da turbinose vicende interne: da una parte il paese ospitante, fin dall’autunno del 1921, è bloccato da disordini interni prodotti dagli scontri di piazza fra socialisti e fascisti fin dal 2 di febbraio, data di riapertura dei lavori parlamentari. Nello stesso anno i fatti di Sarzana hanno rinfocolato e moltiplicato in tutta Italia la guerriglia degli opposti estremisti. A Bologna e a Ferrara i Fascisti costringono con violenza le Giunte socialiste ad abbandonare la guida dei Comuni e impongono la chiusura delle Camere del lavoro. Diviene molto evidente l’appoggio dato dai proprietari agrari della pianura padana che concludono soltanto con i sindacati fascisti i contratti di lavoro.
Il governo Bonomi – un socialista moderato segnalato dal Giolitti e a cui l’ala parlamentare favorevole al Re guidata dal Ministro Sonnino è del tutto contraria – è sul filo del rasoio: democratici centristi; Fascisti e Socialisti tendono continui tranelli alla risibile maggioranza, che trovano sicuro consenso però nei Popolari di Sturzo. Mentre da tutte le parti salgono le critiche, non solo per la debolezza del patto di pacificazione stilato fra Mussolini e i socialisti massimalisti di Costantino Lazzari; ma anche per non aver evitato il fallimento della Banca Nazionale di Sconto, il serbatoio finanziario del Fascismo e del Nazionalismo, due gruppi politici che erano ormai diventati anche un unico partito in Parlamento.
Non poche sono le manovre di Barère, ambasciatore francese a Roma e già capo delegazione a Cannes, di spingere verso una definitiva regolarizzazione con la Germania e la nuova Russia. Lloyd George è favorevole, Briand da Parigi lo appoggia. E Roma? E’ questo il cruccio dei francesi: se Barère seguiva le aperture di Briand; Giolitti e Nitti sono dalla parte della Francia di Poincaré. A Cannes allora si rinviò a un ulteriore “giro di valzer” a Genova, nel Palazzo di S. Giorgio, quasi a respirare di intrighi alla “Fieschi contro i Doria…” Nondimeno, a Roma, Sturzo è fortemente contro Giolitti. Si cerca un Capo di governo “di alta statura morale” e imparziale. La crisi al buio diventa la regola: Sonnino, voce del Re, tenta un accomodamento, propone De Nicola o Orlando, un siparietto della vecchia politica liberale che somiglia molto ai colloqui preparatori della recentissima trattativa per la Presidenza della Repubblica.
Come oggi, prevale la regola del gioco dell’oca, quella di ritornare alla casa di partenza in caso di disaccordo. Emerge un personaggio politico onesto, ma malleabile, grande mediatore e avvocato di Pinerolo, il collegio di Giolitti, Luigi Facta. Ogni traccia di alleanza fra socialisti e cattolici popolari sparisce dal Governo. La Camera si perde in inutili ordini del giorno e una maggioranza risicata conservatrice, benedetta dal Re e da Sonnino, regge fra notevoli assenze di una maggioranza spaccata e litigiosa negli ultimi mesi del 1922, fino alla marcia su Roma di Mussolini, primo episodio della drammatica fine del regime parlamentare. Neppure i Popolari riescono a evitare quest’ultima crisi parlamentare, che è definita “la più lunga dal 1860”.
Mentre l’Italia si dibatte politicamente fra veti incrociati in Parlamento e in una conflittualità armata nelle città e nelle campagne, quasi a significare la profonda crisi economica che la attanaglia e di cui il fallimento di banche rappresenta il diffuso sentimento di sgomento per la “debacle” della Banca di sconto; mentre George, Poincarè, Čičerin e il tedesco Wirth discutono a Genova senza trovare una mediazione che soddisfacesse le legittime aspirazioni delle nazioni ancora coinvolte dagli effetti disastrosi della Grande Guerra; mentre il Trattato di Versailles del 1919 continua a minare le basi sociali della vita quotidiana in Germania afflitta da una inflazione spaventosa; mentre gli Stati Uniti precipitano in quello splendido isolamento capitalista che alcuni anni dopo avrebbe provocato la più grande crisi economica dell’età industriale; solo due geni dell’economia partecipata dallo Stato trovano “l’uovo di Colombo” per uscire dalla crisi dei rispettivi paesi.
Walther Rathenau, finanziere tedesco e Čičerin, commissario politico bolscevico, ambedue ministri degli Esteri dei rispettivi Paesi, raggiungono un’intesa in una pausa della conferenza di Genova, sottoscrivendo un patto di collaborazione economica che subito cancella il veto tedesco ad ogni rapporto con i Soviet. E’ un patto di collaborazione fra le Nazioni sconfitte che mette in soffitta lo spirito di Brest-Litovsk, che nel 1918 ha consentito alla nuova Russia di uscire dalla guerra con un danno economico non indifferente fra le due nazioni. Il fulcro di tale accordo – divulgato solo in parte dato l’oggetto principale della collaborazione non digerito da larghi strati della borghesia mercantile – riguarda l’apertura dei relativi mercati, la fine dei rispettivi dazi doganali e delle limitazioni ai contratti e alle forniture industriali.
La N.E.P. di Lenin e l’interventismo dello Stato in economia del Rathenau hanno per obiettivo di dare impulso alla produzione e il rilancio dei consumi, nonché la ripresa dell’occupazione. Si pensa che la riapertura dei mercati est/ovest favorisca l’industria civile. Ma lo scambio di tecnologie per la guerra, purtroppo non esclusa nel preliminare di accordo, è un grosso limite che emergerà nel decennio successivo, sviluppando inconsapevolmente il riarmo. Tuttavia la scelta di globalizzazione dei mercati occidentali e orientali viene subito stigmatizzata con favore dal giovane Keynes e è una delle basi della sua insuperata “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e dalla moneta”, del 1936, opera fondamentale per la ricostruzione dell’Europa dopa la catastrofica seconda guerra mondiale.
Il segnale di adesione alla nuova diplomazia della pace e del consenso reale fra le parti appare poi vincente nel Patto di Parigi fra Kellog e Briand del 27 agosto del 1928. E’ un trattato multilaterale che ha lo scopo di costituire fra le parti contraenti – Stati Uniti e Francia – una rete di protezioni internazionali contro future idee aggressive di un paese sull’altro. Dapprima il ministro nordamericano pensò al classico scontro Germania – Francia; ma poi si pensa anche all’Italia, al Giappone e alla Gran Bretagna, oltre che ai Paesi fondatori.
E’ un effetto della “Dottrina Wilson”: la guerra così cessa di essere il destino della sovranità degli Stati e dunque le potenza firmatarie sono obbligate a non difendere mai più con le armi i loro interessi peculiari. Il principio si sposa con la sempre più ferrea regola della libera autodeterminazione dei popoli e con l’assoluto divieto del diritto di intervento senza consenso nella vita interna di un altro Paese. Solo che questo “libro dei sogni” cozza con la carenza di sanzioni efficaci contro i Paesi che violano il divieto di uso delle armi.
La semplice punizione dello Stato trasgressore con mere sanzioni amministrative non militari, si dimostra presto inefficace, come quando un decennio dopo Hitler invaderà Austria, Cecoslovacchia e Polonia, malgrado l’adesione della Germania al Trattato già alla firma finale il 24.7.1929. Mancano pochi mesi al Crollo della borsa di Wall Street che sconvolge quell’equilibrio internazionale e le prospettive di pace già a rischio da parte delle Germania di Stresemann, non a caso premio Nobel per la Pace ex equo col Briand nel 1928.
La velleitarietà del Patto Kellog/Briand si evidenzia in occasione del progressivo e continuo abbandono del principio di “libera autonomia” e di ritorno al diritto di intervento più radicale di una nazione nell’altra, in virtù dell’idea panslavista, o dell’idea ben più estrema e ben più pericolosa, il Pangermanismo nazionalsocialista. Il Lebensraum, è la dottrina dello “spazio vitale” negazione di ogni autonomia dei popoli slavi e non solo, è il completamento del “Credo” pangermanico, imperialista, sovranista, antisemita, protezionista e vetero economista.
Teoria che costituisce un passo indietro illiberale e antidemocratico, ma addirittura è frutto di un’ideologia intrisa di vittimismo nazionalista e di uno spirito vendicativo contro il mondo occidentale e l’odiato popolo ebreo, colpevole della “famosa pugnalata alla schiena” vibrata dalle frange bolsceviche dell’Est comunista. Ecco dunque l’estremo tentativo diplomatico delle Potenze diplomatiche a Monaco (30.9.1938), dove i Capi di Governo di Gran Bretagna e Francia cercano di mediare la pretesa di Hitler di acquisire i Sudeti, la regione di lingua tedesca della nuova nazione cecoslovacca.
Malgrado la superficiale mediazione di Mussolini, l’accordo si conclude con l’annessione di quella regione da parte della Germania, con l’accettazione delle due potenze democratiche che la subiscono in virtù di una ambigua tolleranza al fine di una pace più lunga, ad appena un ventennio dalla fine della Grande guerra. E’ l’abbandono della logica della “dottrina Wilson”, il ritorno alle sfere di influenza e al diritto di intervento, fino alla totale annessione del territorio come è accaduto per l’Austria e per Danzica, ma che poi vedrà l’annessione perfino della regione slovacca. Alla politica del rispetto per le Nazioni, segue la tolleranza per la violazione dei confini e quindi la guerra totale come reazione delle potenze garanti della pace, come oggi si potrebbe ripetere nel caso dell’aggressione Russa all’ Ucraina.
Da Yalta (1945) a Helsinki (Luglio-Agosto 1975)
Come era stato alla fine di lunghi periodi di guerra, la necessità di un nuovo ordine mondiale alla fine della seconda guerra mondiale, emerge fra i tre grandi vincitori della stessa: Roosevelt, Churchill e Stalin. E a Yalta, nella prima settimana del 1945, i tre definiscono il problema politico della Polonia, il destino della Germania e la nascita delle Nazioni Unite. Proprio di questo, quasi a sanatoria delle già rivelate carenze del Patto Kellog/Brand – peraltro insufficienti di per sé a prevenire una guerra come quella così esiziale – occorre spendere qualche parola, perché l’etica internazionalistica racchiusa nei 14 punti di Wilson ha lasciato perplessi quegli operatori internazionali non tanto ammaliati dal sogno americano di inizio secolo.
Roosevelt crede ancora che il divieto di conquiste coloniali, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, la libertà degli scambi e i diritti civili costituzionali siano un passaporto ormai metabolizzato verso la pace e la sicurezza dei popoli. Stalin rappresenta però l’uomo realista, il Talleyrand della situazione, dove prevale la doppiezza e la violenza nei rapporti umani. Churchill lo sa bene, anche se non demorde nell’obiettivo di sostituire nelle relazioni internazionali la domanda di etica e non quella di un autocratico esercizio del potere.
La bozza della Carta atlantica – stipulata fra Roosevelt e Churchill nel 1941 a bordo della nave da guerra USS Augusta il 14.8.1941 – ha come punto focale il ripudio delle autocrazie e Stalin non la conferma, ma la accetta, al pari di Churchill che la accoglierà dubbiosamente, ricercando con gli altri due una mediazione formale anche con la Cina e la Francia, il tutto nel rispetto dei Paesi più piccoli. Comunque le diffidenze e i sospetti crescono nella misura in cui un’ombra anticolonialista emerge in Churchill nel mantenere il diritto di intervento nelle aree coloniali in rivolta, per esempio in India.
Le stesse perplessità assalgono Stalin quando teme che per qualche piega del Trattato organizzativo dell’ONU, l’Unione Sovietica si trovi in minoranza e perciò riesce ad ottenere per i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza la facoltà di apporre un diritto di veto che bloccherà ogni deliberazione, specialmente per la erogazione delle sanzioni amministrative internazionali contro i Paesi aggressori. Alle proteste di Stalin, Churchill, imperturbabile, gli oppone che una simile conseguenza non può mai scattare, giacché l’irrogazione delle sanzioni non comporta per lo Statuto alcuna espulsione dall’ONU, in quanto l’URSS e le altre quattro Nazioni fanno parte proprio del Consiglio di sicurezza (c. d. clausola americana derivata dal sistema di voto delle grandi società di capitali degli Stati Uniti).
Altra questione che li divide è la richiesta di Stalin di ammettere fra le Nazioni partecipanti a livello indipendente, la Bielorussia, l’Ucraina e la Lituania, Nazioni appartenenti alla Unione delle Repubbliche sovietiche per modo che il voto della URSS diverrebbe addirittura plurimo. Conseguenza che Roosevelt non accoglie, perché reclama la classica formula democratica “uno vale uno”, malgrado la appartenenza di quelle nazioni alla Federazione Sovietica. In modo sorprendente Churchill appoggia qui il dittatore comunista, ma non certo per democrazia e autodeterminazione riconosciuta a quei popoli slavofoni e non certo per slavofilia.
Churchill, da vecchio colonialista, accetta suo malgrado una tortuosa e complessa negoziazione, perché riconosce che la Dottrina Wilson “è come quella bella donna piacente nelle sale da ballo, ma scadente a letto…” come ha già detto a Lord Mountbatten trenta anni prima dopo aver ascoltato le parole del Presidente Wilson a Versailles. In altre parole, la diplomazia occidentale ha ancora i piedi per terra e i successivi episodi di guerra di Berlino (1948), della guerra di Corea (1950-1953) e del Vietnam (1965-1975), richiamano non senza equivoci il principio di rispetto della libera autodeterminazione dei popoli, la separazione delle sfere di influenza e il diritto di intervento nei paesi della stessa sfera, sotto l’ombrello ambiguo dell’ONU.
Invero nei decenni successivi i principì di Yalta sono stati ripetutamente violati e aggirati, pur senza trascendere in uno scontro caldo fra le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Quando però un elevato rischio di scontro diretto appare inevitabile, specie in occasione di un disastro atomico catastrofico connesso a quella evenienza, si ritorna alla diplomazia, come avviene dopo notevoli minacce alla pace dovuta alla crisi petrolifera del 1973. Ancora una volta, la diplomazia interviene a scongiurare eventi di guerra.
Nel 1975, la Conferenza di Helsinki (30.7-1.8.1975), rivolta a riavviare la sicurezza e la cooperazione in Europa dopo la guerra del Kippur del 1973, quando dal 6 al 25 di ottobre una coalizione araba guidata da Egitto e Siria attacca Israele, scatenando una reazione a catena che coinvolge pericolosamente il blocco sovietico e la Nato. Di qui, la conferenza a Helsinki. E’ noto che l’Atto finale, sottoscritto da 35 Stati e dalle due Superpotenze dell’epoca, fornisce un metodo per raffinare i rapporti tra il blocco comunista e il mondo occidentale.
E’ un tentativo che porterà alla successiva istituzione di una nuova Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), che nel momento attuale sembra purtroppo assente nella più volte citata guerra fra Ucraina e Federazione Russa, che ora procede senza alcun rispetto dei principi fondamentali espressi a Helsinki e fondanti l’OCSE. Principì che richiamano ben 10 punti della Dottrina Wilson, depurata dalle norme storicamente legate alla caduta degli Imperi centrali.
Alla fine si enuncia il paradigma che “la Eguaglianza è Sovrana, cioè il rispetto dei diritti inerenti la Sovranità” e che questa regolerà i rapporti fra Stati, peraltro nel rispetto della inviolabilità delle frontiere (IV); il rifiuto della minaccia o dell’uso della forza (II); il non intervento negli affari interni (VI); la cooperazione fra gli Stati (IX); e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (VII). ecc. ecc. In altri termini, da quanto si è detto, ad Helsinki si è rotto il circolo vizioso che da due secoli collega in modo meccanico il destino delle comunità statali locali, europee e mondiali.
Si è cioè stigmatizzato un destino che affligge le Relazioni Internazionali moderne, secondo la seguente sequenza: conflitto, aggressione, resistenza dell’aggredito, guerra di movimento e guerra di posizione, cessate il fuoco, armistizio, trattato di pace, equilibrio e stabilità, ripresa del ciclo di guerra...e così all’infinito. Anzi, si è rilevato che l’intervallo di pace dipende, per ironia della storia, nella sua lunghezza da un maggiore o minore rispetto dei diritti umani e sull’uso o abuso del principio delle sfere di influenza.
Se infatti guardiamo ai periodi stabilità e di pace fra Stati fra “Vienna e “Parigi”, trascorrono ben 30 anni; fra “Parigi e Berlino”, più di vent’anni; fra quest’ultimo Trattato e la Prima Guerra Mondiale la situazione di stabilità è di quasi 40 anni. Una lettura deterministica della storia appare presente in chi volesse rilevare come una enfatizzazione del principio di autodeterminazione dei popoli sia inversamente proporzionale alla durata della pace. Infatti non è mancato chi ha notato come il periodo intercorso fra “Versailles” e “Monaco” sia stato denso di accordi di pace e si sia concluso con il ritorno alla regola delle sfere di influenza ritornato in auge anche se in ritardo, proprio nella Capitale della Baviera, dove si è sentito presto la fine del Trattato di Versailles e l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale.
Si vi pacem para bellum, dichiara lo storico Renato Vegezio nel 5° secolo dopo Cristo, quasi alla caduta dell’Impero Romano, rilevando come la minaccia di guerra sia l’antidoto più efficace per impedirla. Di qui la tesi diffusa fino ad oggi che la “guerra fredda “sia stata un potente medicinale per allontanare le pulsioni belliche del consorzio civile, diviso dal rischio di confronto nucleare fra il blocco sovietico e quello occidentale nei 70 anni da Yalta. Tanti anni che sembrano ora però essere alla conclusione in occasione della guerra Russo-Ucraina.
Come fu per “Helsinki”, la voce del pacifismo laico e religioso si leva per tacitare i venti di guerra e invoca l’intervento della diplomazia. Malgrado la filosofia della storia giudichi inevitabile l’oscillazione fra il “ciclo in armi” e il ciclo di “concordia” fra le nazioni; la speranza che la volontà di mediazione politica fra gli Stati contendenti è oggi più forte dell’Utopia Wilsoniana o dell’appeasement anglofrancese di Daladeir e Chamberlain.
Forse un merito ha qui un nostro illustre saggista, Umberto Eco, che da romanziere e linguista, da sociologo e semiologo, anche da storico ha ricordato come in tempi di guerra di religione e di intolleranza tra Nazioni sul suolo europeo, nel buio più profondo della guerra dei 30 anni (1628-1648), sia nata a Nimega la necessità della diplomazia e la ricerca del negoziato, quando Pufendorf e Grozio indicano nel diritto naturale e non nel diritto positivo della forza, la sede per annullare i conflitti armati. Come lo scienziato prova e riprova per ottenere una legge della natura favorevole all’Uomo; così il diplomatico deve tentare ogni via per la Pace perpetua, anche se finora tale percorso appare lontano nell’attuale guerra Russo-Ucraina.
Bibliografia
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- Sulla Conferenza di Helsinki, vd. MARCELLO FLORIS, Il secolo mondo, op. cit. pagg. 485 e ss. e FEDERICO ROMERO, Guerra Fredda e decolonizzazione, in Manuale Donzelli, Storia contemporanea, Roma, 1997, pagg. 475 e ss.
- Sulla pretesa di misurare con riga e compasso lo sviluppo della storia, stante la complessità del problema del determinismo e del volontarismo nella storia, tema proprio di filosofia della storia, cfr. MICHAEL POLANYI. Conoscenza scientifica e immaginazione creativa, Studium, Roma, 1999, che nega l’assolutezza del determinismo scientifico nella storia e fa appello invece al diritto delle persone al di là delle cartine geografiche che spiegano e spesso non comprendono più profondamente la storia di un Paese nella sua evoluzione.
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- Federico Romero, Storia della guerra fredda, Einaudi, 2009;
- Sergio Romano, Disegno della storia d’Europa dal 1789 al 1989, Longanesi, 1991;
- Marcello Flores, Il secolo mondo. Storia del Novecento. 1900-1945, Il Mulino, 2005.