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A very mixed bunch
“A very mixed bunch” così viene descritta la Banda Mario da uno degli uomini che si ritrovò a farne parte. Si tratta di John Cowman, tenente britannico fatto prigioniero durante lo scontro di Ain el-Gazala in Libia nel 1942, sballottato poi da un campo d’internamento all’altro in tutta la penisola. Fino a Bologna, dove assieme a due suoi connazionali scappa e s’incammina in direzione sud, seguendo i binari della ferrovia. I tre si fermano nelle Marche, nel maceratese.
Da lì una cima spicca fra le altre dell’Appennino. È il Monte San Vicino. Il suo profilo diventa in breve tempo punto di riferimento per la lotta armata antifascista e la base di un battaglione multiculturale di partigiani provenienti da ogni parte d’Europa e dal Corno d’Africa.
La mostra delle Terre italiane d’Oltremare
La storia della Banda Mario si sviluppa come un rizoma, orizzontalmente e da più linee parallele, autonome e anche molto distanti tra di loro, con qualcosa in comune: la volontà di resistere e di lottare per la liberazione dal nazifascismo che a un certo punto le fece incrociare tutte.
Per comodità partiremo dalla radice di Napoli, città che nel 1940 fa da cornice a una singolare esposizione atta a celebrare il dominio italiano sulle colonie africane. Le atroci campagne militari di Benito Mussolini sul territorio del Corno d’Africa incominciate nel 1935 avevano portato all’annessione della tanto agognata Etiopia, che ora spiccava tra le conquiste militari dell’ormai non più liberale ma fascista Italia, insieme all’Eritrea e alla Somalia.
Per il regime è di fondamentale importanza sottolineare tramite ogni mezzo di comunicazione a disposizione l’assoluta dominanza e prevaricazione del popolo italiano su quelli assoggettati. È per questo che viene creata la Mostra triennale delle terre d’Oltremare, che vuole essere una vera e propria esposizione umana con l’intento di sottolineare l’arretratezza dei popoli colonizzati e quindi giustificare l’annessione al Regno d’Italia, quasi a volerlo far sembrare un atto magnanimo.
Nel marzo 1940 vengono dunque condotte circa sessanta persone tra cui somali, eritrei ed etiopi in uno spazio appositamente creato nella zona dei Campi Flegrei a Napoli, dove le stesse avrebbero dovuto costruirsi autonomamente degli spazi abitativi secondo le loro tradizioni, e viverci finché la mostra non avrebbe chiuso i battenti. Si trattava in alcuni casi di famiglie con bambini, in altri di operai e artigiani presi singolarmente dalla strada per garantire una più proficua manodopera.
Il Ministero dell’Africa Italiana si premurò di far partire dall’Etiopia anche due ragazze con l’intento di adibirle al ruolo di prostitute per tutto il gruppo, perché sotto il regime fascista non erano permessi rapporti misti e quindi era impossibile mettere a disposizione delle vere prostitute in loco. (I rapporti misti non erano permessi tra donne bianche e uomini neri; erano però ammessi rapporti tra donne nere e uomini bianchi. Con l’accortezza di non generare prole.) La mostra ha vita breve; viene inaugurata il 9 maggio 1940 e un mese dopo chiude i battenti, il 10 giugno 1940, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale.
Dallo scoppio della guerra alle Marche
Sin da subito i neri imprigionati in questa sorta di zoo umano capiscono che le loro sorti si sarebbero complicate con l’avvenire della guerra. Il tanto agognato rimpatrio non sarebbe avvenuto perché il canale di Suez, tappa obbligatoria del percorso verso le loro zone di provenienza, si trovava in quel momento sotto il pieno controllo britannico; l’alternativa sarebbe stata circumnavigare il continente, operazione a dir poco lunga e rischiosa.
Il gruppo rimane a Napoli per tre anni, in condizioni che rasentano quelle dei campi d’internamento, costretto per tutto il periodo in uno spazio circoscritto e circondato da reti e filo spinato, per scongiurare ogni rischio di contatti con l’esterno, e in delle baracche di legno, assolutamente inadatte ad affrontare i mesi invernali e soprattutto i bombardamenti che interessano la città di Napoli tra l’estate e l’inverno del 1941.
Alcuni neri vengono ingaggiati come attori e comparse in film di propaganda fascista e razziale come Knock out! Harlem di Carmine Gallone. Solo nel gennaio 1943 diventa necessario trovare una sistemazione per gli oltre sessanta neri della Mostra. Viene individuato un ex campo d’internamento femminile nelle Marche. Si tratta di Villa Spada, nel comune di Treia, dove il gruppo viene scortato dalla Polizia dell’Africa Italiana nell’aprile dello stesso anno.
Qui le condizioni di vita migliorano: gli spazi a loro disposizione sono più ampi e per la prima volta si ha testimonianza di contatti con la popolazione locale, che andavano dall’acquisto di bestiame a partite di pallone “miste”.
La scintilla che innesca il fuoco
Il loro arrivo combacia con un rinato fervore antifascista nella popolazione. Negli stessi mesi, precisamente il 25 luglio 1943, Mussolini viene destituito e arrestato, per poi essere liberato il 12 settembre con un blitz delle SS a Campo Imperatore. Si proclama immediatamente capo della Repubblica Sociale Italiana. Il 16 settembre i tedeschi invadono Macerata, a pochi chilometri da Treia. Il malcontento e la paura si diffondono tra la popolazione che pensava di poter tornare a vivere serenamente dopo l’armistizio dell’8 settembre.
In questo contesto il 5 ottobre dello stesso anno tre etiopi, Mohamed Abbasimbo, Scifarrà Abbadicà e Abbagirù Abbauagi scappano da Villa Spada e si danno alla macchia. Si rifugiano nelle campagne, tra eremi abbandonati e i ruderi della rocca di San Lorenzo, poi decidono di seguire la sagoma del Monte San Vicino, dove era stato detto loro si trovasse un rifugio partigiano.
Lì, tra il comune di Valdiola e i ruderi dell’Abbazia di Roti si era infatti raccolto un nucleo di combattenti antifascisti italiani, britannici e jugoslavi tra gli altri, capitanati da Mario Depangher. I tre etiopi non esitano a rivelare loro che Villa Spada è anche un deposito di armi e munizioni e in poche settimane si organizza un assalto che ebbe luogo il 28 ottobre, a seguito del quale altri dieci neri si uniscono al battaglione di Depangher.
Nascita della Banda Mario
Va detto che l’avvicinamento dei neri al gruppo dei partigiani non avviene in seguito a fattori d’interesse, anzi: chi si offre di prendere parte alla resistenza armata lascia un rifugio sicuro e dei pasti giornalieri assicurati. Queste persone si uniscono di loro spontanea volontà alla Banda Mario per combattere l’occupazione nazifascista.
A questo punto la Banda del Monte San Vicino è un’amalgama di culture. Abbiamo britannici, scozzesi, jugoslavi, sovietici, polacchi, oltre i nuovi venuti africani. La lingua prevalente è l’italiano, anche se il partigiano Franco Cingolani ricorda il “ricomporsi di una lingua universale”, un doveroso capirsi sotto l’obiettivo della liberazione delle terre occupate. Nelle memorie di altri riaffiorano pomeriggi passati a tenere lezioni d’italiano a dei compagni stranieri usando le pareti di un eremo, rifugio temporaneo, come lavagna.
In ogni caso non è la prima volta che dei neri combattono a fianco della Resistenza. Stava già succedendo nella Francia di Vichy, anche se in maniera diversa perché si trattava di soldati provenienti dalle colonie francesi; accade nello stesso momento in varie zone d’Italia, coi casi isolati di Italo Caracul, libico, Alessandro Sinigaglia a Firenze, Giorgio Marincola a Roma, Brahame Segain in Liguria, Joseph Besonces in Umbria.
Ad ogni modo il caso della Banda Mario rimane unico nel suo genere. Ai primi nuclei autoctoni di ribelli armati per cacciare gli occupanti confluisce un’onda propizia di partigiani stranieri. I neri scappati da Villa Spada, i britannici scappati dai campi d’internamento in Emilia Romagna, persone in fuga dalla Cecoslovacchia, sloveni e croati catturati e poi fuggiti dalla cruenta occupazione italiana in Slovenia, prigionieri di guerra sovietici.
Una delle cause di questa peculiare concentrazione di ribelli al regime è da ricercarsi nel fatto che nella sola provincia di Macerata in quel momento esistono più di trenta campi d’internamento per prigionieri di guerra e persone che semplicemente si trovavano ad attraversare la penisola nel momento sbagliato, e non sono rari i casi di evasioni di massa, con l’appoggio della popolazione. Tra i contadini si crea infatti una fitta rete di appoggio. I partigiani vengono favoriti, aiutati, indirizzati alle basi, rifocillati, tutto ciò sotto minacce di fucilazione e promesse di ricompense previe informazioni. La popolazione locale diventa un motore attivo della resistenza.
Mario Depangher
Nel 1943 un campo d’internamento a San Severino Marche trattiene l’uomo che dà il nome alla Banda del San Vicino. Si tratta di Mario Depangher, attivista triestino, figlio di socialisti, disertore scappato in Unione Sovietica e rientrato in Italia come “fenicottero”, col compito cioè di attraversare la penisola per raccogliere informazioni tra le bande resistenti. Arrestato dapprima a Reggio Emilia nel 1931, rilasciato in seguito all’amnistia per il decennale della marcia su Roma, viene nuovamente fermato a Ventotene e trasferito con sua moglie a San Severino Marche. Qui entra in contatto con il medico sloveno Jule Kačič.
Complice l’armistizio dell’8 settembre i due decidono di scappare e di dar vita a una banda armata, incominciando a raccogliere disertori, internati evasi e chiunque volesse aggiungere il proprio contributo alla lotta armata. Qui si ricongiunge la storia dei neri di Villa Spada. A fine ottobre il gruppo dispone già di un fitto armamentario e di molti uomini a Valdiola, un piccolo borgo alle pendici del Monte San Vicino, scelto come base operativa. Al suo apice la banda Mario conta poco meno di 200 combattenti divisi in tre brigate: Stigliano, Valdiola ed Elcito. Anche Enrico Mattei, della vicina Matelica, fece brevemente parte della Banda.
Resistenza e liberazione
Il Monte San Vicino diviene quindi la base d’azione per l’attività sovversiva della Banda Mario, che si rende protagonista di diversi altri scontri e sabotaggi nei mesi successivi ai fatti di Villa Spada. Con l’arrivo dell’inverno il gruppo comincia a disperdersi, chi si rifugia tra i contadini, altri lasciano il gruppo, come alcuni britannici. I rapporti interni in alcuni casi iniziano a deteriorarsi in concomitanza con l’inasprirsi dei rastrellamenti nazisti e fascisti, soprattutto dopo i fatti di Via Rasella a Roma.
Vengono impiantati reparti di unità delle Waffen SS anche nelle cittadine più piccole, sia per terrorizzare la popolazione che per contrastare la formazione di gruppi ribelli. Iniziano fucilazioni di massa e rastrellamenti a tappeto. Individuate le basi della Banda Mario, il 23 marzo 1944 i tedeschi avviano un’operazione di rastrellamento a morsa con l’obiettivo di annientare le difese del gruppo e poi i ribelli stessi. Presa l’Abbazia di Roti, una delle loro basi, i partigiani si disperdono per le montagne circostanti, combattendo i tedeschi tra i boschi lungo il perimetro del San Vicino.
Corsi in aiuto molti partigiani di bande vicine, come quella di Cingoli, i tedeschi si ritirano, avendo comunque l’accortezza di torturare i partigiani fatti prigionieri prima di ucciderli e di fucilare anche contadini innocenti, razziare e successivamente distruggere case coloniche per lasciare un’ulteriore ombra di terrore sul territorio occupato. L’operazione viene ricordata come la Battaglia di Valdiola, luogo in cui si concentrarono le uccisioni.
Dopo qualche settimana di sospensione, la Banda Mario si riattiva nella zona di Elcito. Ricominciano i sabotaggi e le interruzioni alle linee radiofoniche nemiche, nonché gli attacchi al nemico, i sequestri di armi e le esecuzioni. I duri rastrellamenti della primavera del 1944 non fanno che rinfervorire lo spirito di resistenza. Depangher divide ulteriormente il gruppo per manovrare al meglio possibili future offensive.
Tra il 4 e il 6 giugno Roma viene liberata, e la Banda Mario scende in strada a presidiare le strade e ostacolare in ogni modo possibile le truppe tedesche. I primi di luglio vedono la liberazione di San Severino marche, Matelica e Camerino. La banda Mario consegna le armi alla Brigata Maiella, che si muove sotto il comando del polacco Władysław Anders in direzione di Ancona, che vide la sua liberazione dall’occupazione nazifascista il 17 luglio 1944, per mano proprio dei polacchi e dei gruppi partigiani.
Del lento tornare alla normalità del dopoguerra, per quanto riguarda il particolare episodio della Banda Mario, sappiamo che Villa Spada fu sgomberata a fine luglio del 1944, il rimpatrio dei neri rimasti fu gestito dagli Alleati. La parentesi della Banda Mario rimane un luminoso esempio di fratellanza multietnica, la dimostrazione di quanto la spinta verso un ideale possa far fronte a qualsiasi differenza, persino (e soprattutto) nel mezzo di un regime razzializzante come quello fascista.
Nel 2018 viene fondato a Braccano il Museo della Resistenza e del territorio, intitolato a Don Enrico Pocognoni, parroco di Braccano e militante nella Banda Mario, ucciso assieme a cinque suoi compagni durante la battaglia di Valdiola. Nel 2019 lo storico Matteo Petracci pubblica Partigiani d’Oltremare, dal corno d’Africa alla Resistenza italiana, in cui ripercorre nel dettaglio le gesta della Banda Mario.
Per approfondire Passato e Presente 2020/21 – Il Battaglione Mario, RaiPlay.
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- Matteo Petracci, Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana, Pacini editore, 2019.