CONTENUTO
Il Periodo Edo
Tokugawa Ieyasu appartiene nel XVI secolo ad una famiglia proprietaria di un modesto daimyo (carica feudale di più alto livello), nella provincia di Mikawa. Nel giro di tre decenni la famiglia Tokugawa diventa una delle più potenti del Giappone. Sotto il dominio di Hideyoshi, assumono il controllo di una vasta regione centrale del Paese, il cui quartier generale è rappresentato dalla città di Edo, l’attuale Tokyo. Alla morte di Hideyoshi, nonostante gli anziani avessero dovuto garantire il passaggio dei poteri a suo figlio, si riapre la contesa per la supremazia militare sul paese. Lo scontro decisivo, avvenuto nel 1600 con la battaglia di Sekigahara, permette a Ieyasu di diventare il daimyo più potente di tutto il Giappone.
La sua ascesa a capo assoluto del Paese, anche se formalmente esisteva un imperatore a cui doveva i propri servigi, viene sancita tre anni più tardi con l’ottenimento della carica di shogun (letteralmente comandante dell’esercito, rappresenta la più alta carica politica e militare del Giappone dal XII al XIX secolo), con la quale assume i diritti del governo nazionale, esercitati da Edo, sede del bakufu, ovvero dello shogunato, il governo militare.
Alla morte di Ieyasu, capo indiscusso del Paese, le basi per l’egemonia della famiglia Tokugawa sono state fondate e il sistema di controllo del bakufu sugli han è oramai istituzionalizzato. Dopo la vittoria a Sekigahara, lo shogun ha proceduto ad una riorganizzazione dei possedimenti feudali in tutto il territorio giapponese, ridimensionando i territori degli sconfitti e modificando a proprio vantaggio l’assetto territoriale. Viene messo a punto un sistema di controllo capace di garantire l’equilibrio tra i vari daymio e tra essi e l’autorità centrale.
In primo luogo, gli shogun Tokugawa stabiliscono un equilibrio di potere tra loro e i daimyo fondato sulla concessione delle investiture, cui corrisponde l’impegno di fedeltà ad Edo, sull’assegnazione dei territori e sulla loro distribuzione strategica nelle varie aree del Paese. La distribuzione dei daimyo è concepita in modo tale da evitare che si potessero formare delle coalizione tra vari signori della guerra vicini tra loro e per avere sempre il controllo sulle vie di comunicazioni importanti, soprattutto quelle di accesso alla capitale. La revisione continua dell’assetto dei daimyo concede ai Tokugawa la possibilità di avere sempre una situazione favorevole dopo l’avvenuta ricollocazione dei daimyo sul territorio.
Su questa struttura di potere essi fondano la loro autorità, legittimata dalla delega dei pieni diritti di governo concessa dall’imperatore allo shogun. Anche se si tratta di un riconoscimento formale, in quanto non dipende dalla volontà del sovrano data la sua poca influenza politica, lo shogunato contribuisce attivamente a fare in modo che la Corte potesse continuare a mantenere uno stile di vita consono alla propria posizione, poiché dal prestigio di questa istituzione deriva la legittimità del loro stesso potere. D’altra parte, l’azione dello shogun è diretta a limitare il potere dell’imperatore, imbrigliando la sua autonomia.
Il Sistema Bakuhan
In questo sistema politico creato sotto i Tokugawa, dove la compresenza tra un’autorità centrale rappresentata dal bakufu e di un certo numero di han gestiti autonomamente, si riscontra il carattere di un feudalesimo centralizzato designato come sistema bakuhan. L’efficacia del sistema deriva dalla capacità dei Tokugawa di garantire un equilibrio nei rapporti di potere con i grandi signori feudali ed è sorretto dall’adozione di appropriate misure sociali e di un’ideologia di regime finalizzate a mantenere lo status quo.
Innanzitutto, il processo di differenziazione delle classi su ruolo occupazionale viene portato a termine con l’adozione del modello shinokosho: ispirato all’esempio cinese e finalizzato a organizzare, su una scala gerarchica e in ordine di importanza, rispettivamente i guerrieri, gli agricoltori, gli artigiani e i mercanti, questo modello prevede anche l’esistenza di classi privilegiate, i kuge, e una classe di soggetti di infima reputazione, i senmin, ovvero le persone di basso rango, coloro che svolgono quelle occupazioni disprezzate dalla cultura dominante.
Per ciascun livello vengono elaborate regole adeguate allo status, mentre il rafforzamento delle regole endogame contribuisce ad ostacolare la mobilità sociale, facendo scaturire una società fortemente differenziata oltre che un ordine sociale molto rigido. Alla rigidità di questo ordine sociale contribuisce oltretutto la concezione secondo cui esso sia regolato da una legge naturale, che non consente all’individuo di cambiare la condizione sociale ereditata sin dalla nascita, cui egli è vincolato per l’intera esistenza.
Il pilastro ideologico fondamentale dell’ordinamento politico e sociale è rappresentato dalla dottrina sociale neoconfuciana. L’elaborazione ultima di questa dottrina, che prevede un dualismo tra il «principio» o «norma» e la «materia», permette, attraverso una trasposizione di questi concetti in ambito etico-politico, di suggerire la via di condotta ideale sia dei governanti che del popolo.
La dottrina conferisce staticità all’ordine sociale e politico e pertanto viene assunto dal regime di Edo come fondamento del regime e messo al servizio dello Stato, avallando il potere dei governanti e fornendo delle regole di condotta sia per la vita pubblica che per quella privata dei giapponesi. L’aspetto religioso non era di certo secondario. La divinizzazione di Ieyasu in un imponente mausoleo a Nikko sottolinea il tentativo di porre la politica come ricettacolo dei sentimenti religiosi della nazione e di sottoporre le istituzioni religiose al servizio del bakufu.
Mentre il Neoconfucianesimo diviene dottrina ufficiale del regime Tokugawa, Buddhismo e Shintoismo vengono limitati e isolati, anche se protetti dal governo centrale poiché rappresentano un ostacolo alla diffusione del Cristianesimo. Proprio contro quest’ultimo lo shogunato mette in piedi una crociata che ha un fine sociale ed uno economico, portando, oltretutto, a conseguenze politiche ancora di più ampia scala. Limitare la diffusione del Cristianesimo permette, in primo luogo, al regime di evitare che ci potesse essere una pericolosa dottrina eversiva all’interno del Paese che potesse minare lo status quo politico, sociale e religioso. La limitazione dei rapporti con l’estero non può essere che la diretta conseguenza di questo modo di pensare.
L’imposizione di un monopolio sui commerci permette al regime di Edo di imbrigliare gli han al proprio volere, poiché nessuno poteva ora ottenere profitti dal commercio estero se non sotto l’occhio del governo, evitando quindi che qualche feudo potesse creare una coalizione che potesse mettere in pericolo il potere centrale dello shogun. Tuttavia, a livello politico, questo si traduce in un imperturbabile isolazionismo, che condanna il Giappone dal XVII secolo fino alla Restaurazione Meiji a rimanere chiuso in sé stesso. Il Giappone entrava così nell’era Sakoku – «Paese chiuso» -, nel corso della quale i contatti con il mondo esterno furono controllati da Edo e limitati, oltre che a Nagasaki, ad altre tre località: l’estremità meridionale dello Hokkaidō; Tsushima; e Satsuma.
La fine della «Pax Tokugawa» e la Restaurazione Meiji
Nell’ultima parte del periodo Edo germinano i semi della crisi del sistema del feudalesimo centralizzato. Nonostante il Giappone dei Tokugawa si presenti come un sistema perfetto, esso porta con sé le motivazione per le quali, sul lungo periodo, è caduto in rovina. Le disuguaglianze a livello sociale, che hanno un riflesso diretto su quello economico, portano ben presto ad una insoddisfazione della popolazione. Le rivolte nelle zone rurali, solo per fare un esempio, diventano un fenomeno endemico, impossibile da debellare per il bakufu. Tuttavia, questi episodi non si tradurranno mai in un movimento politico in grado di sovvertire lo stato delle cose.
Tutt’altra eco hanno invece i movimenti culturali ed ideologici che crescono parallelamente a questo malcontento generalizzato. Gli intellettuali appartenenti alla Scuola di Mito, primo fra tutti Aizawa Seishisai, e i kokugakusha (letteralemente studi nazionali) si adoperano per sviluppare una ideologia nazionalista e antifeudale. I pensieri delle due correnti si distinguono perché la riflessione dei kokugakusha è mossa dalla volontà di difendere l’identità nazionale e il patrimonio tradizionale contro il predominio culturale cinese, mentre quella degli studiosi della scuola di Mito, scevra da toni anticonfuciani, è diretta in primo luogo contro la minaccia occidentale, tanto che l’incontro ed il confronto con quest’ultima possa rappresentare un momento di spinta al rinnovamento morale del popolo giapponese.
Ciò che invece tende ad accomunare la loro opera è il contributo che essi fornirono alla rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno, così come il rilievo politico che ebbero come precursori della restaurazione del ruolo storico del tennō (ovvero imperatore, letteralmente sovrano celeste), della promozione dello shintō a culto ufficiale dello Stato e dell’affermazione di un nazionalismo incentrato attorno all’idea di unicità e al carattere divino del popolo e della Nazione giapponese.
Negli ultimi anni dell’epoca Tokugawa o periodo bakumatsu (ovvero della «fine del bakufu»), esistono tensioni profonde nella società, tali tuttavia da preparare il terreno per la svolta nazionale futura. Per trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, sarebbe stato necessario creare una nuova forma di potere capace di garantire la sicurezza territoriale, di gestire l’amministrazione e le risorse umane e materiali del Paese, e di dotare le masse di una solida coscienza nazionale e di un’ideologia nazionalista in grado di assicurare il loro appoggio e consenso agli imperativi dello Stato.
Il Giappone appare comunque facilitato su questa via per diversi motivi: in primo luogo, le frontiere storiche dello Stato non hanno subito negli ultimi secoli significative modifiche; secondariamente, questo spazio geografico comprende elementi che possono essere usati come simboli di unità nel presente e di continuità con il passato – la storia dell’impero, la sacralità dell’autorità sovrana, il patrimonio ideale dello scintoismo; in ultimo, la società si presentava come un’unità etnica e razziale. Non va poi dimenticata la situazione asiatica in quel periodo. La non presenza a livello regionale di uno Stato in grado di dominare la politica mette in evidenza una serie di possibilità che il Giappone avrebbe potuto sfruttare solo con l’apertura all’occidente e al sistema-mondo capitalistico.
I primi tentativi russi di aprire i porti giapponesi alle navi straniere non andarono in porto. La Prima guerra dell’oppio, tuttavia, rende lo shogunato, anche per timore, più attento nei confronti della sicurezza e della difesa del Paese. Non volendo gli toccasse la stessa sorte dei cinesi il bakufu decide così di mitigare i provvedimenti e ad acconsentire almeno l’approvvigionamento delle navi straniere nei porti giapponesi. È il primo passo per la riapertura (kaikoku) del Giappone al mondo esterno. Da lì a poco tempo il tentativo di negoziazione da parte degli Stati Uniti ha esito positivo e nel 1854 con il Trattato di Kanagawa il Giappone riapre le sue porte al mondo.
Questo evento, che segna un netto mutamento della politica estera, è anche la scintilla che fa esplodere gli equilibri interni. La pressione esterna e la conseguente accettazione della proposta di una potenza straniera ha messo in evidenza la fragilità del sistema bakuhan, evidentemente impreparato a livello economico ed organizzativo a muoversi unitariamente per affrontare un pericolo proveniente dall’esterno. Si innesca dunque un effetto domino che travolge il regime feudale e che funge da stimolo a rivolgere le attenzioni e la fiducia del caso all’istituto imperiale. I trattati seguenti firmati con altre potenze come Gran Bretagna e Russia non migliorarono certo la situazione, mentre ogni mossa del bakufu risultava tardiva e inutile.
Con la stipula dei cosiddetti «trattati ineguali» – così chiamati perché concedono, oltre l’apertura di nuovi porti e il diritto di stabilire rappresentanti diplomatici, la limitazione dei dazi sulle merci di importazione; il diritto di extraterritorialità; e la garanzia alle potenze occidentali di nazioni favorite – la situazione deflagra definitivamente. Dopo la firma del primo con gli Stati Uniti nel 1858 e i seguenti con altre potenze occidentali, il Giappone stabilisce un rapporto di interdipendenza con sistema economico e di rapporti tra Stati che ha assunto un carattere internazionale, coinvolgendo le potenze occidentali e i Paesi oggetto della loro politica coloniale.
Di fronte a questa situazione il Giappone ha due alternative: divenire un soggetto attivo nel sistema economico mondiale e nella rete dei rapporti internazionali, oppure mantenere un ruolo subalterno e periferico rispetto a essi, con seri rischi per l’incolumità politica e territoriale.
L’accettazione delle clausole dei trattati spinge definitivamente gli oppositori del sistema feudale a raccogliersi attorno alla figura imperiale, che grazie all’appoggio di vari feudatari del regno, orami in aperta rottura con lo shogun, riesce a costruire una coalizione in grado di lì a poco tempo di sconfiggere il bakufu.
Nel novembre del 1867, l’ultimo shogun dell’era Tokugawa, Yoshinobu, fa atto di rinuncia della sua carica e dei suoi poteri all’imperatore. Il 3 gennaio 1868 viene definitivamente proclamata la restaurazione del potere imperiale, che si insedia nella città di Edo, cambiandole il nome in Tokyo.
Ha così inizio l’era Meiji, ovvero del «governo illuminato». Questo periodo, che gli storici giapponesi identificano come Meiji ishin (rinnovamento) e viene da noi comunemente tradotto come Restaurazione Meiji, durerà fino alla morte dell’imperatore Mutsuhito nel 1912.
La costruzione dello Stato moderno
Sotto il governo di Mutsuhito prende avvio l’edificazione dello Stato moderno fondata sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica delle istituzioni economico-sociali. Più che segnare un «ritorno al passato», il ripristino del ruolo e delle prerogative imperiali coincide quindi con l’avvio di un’opera di rinnovamento (ishin) per vari aspetti radicale. Appare opportuno parlare di una «rivoluzione dall’alto» che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei «trattati ineguali» con i prerequisiti endogeni, poté governare il processo di transizione capitalistica.
L’opera di centralizzazione si concentra, in primo luogo, sull’eliminazione del sistema bakuhan a favore di una costruzione di uno Stato nazionale. E, a questo fine, nel 1871 viene promulgata una legge che procedeva alla definitiva abolizione del sistema feudale, istituendo in parallelo il sistema basato sulla ripartizione del territorio in province. Un ulteriore passo verso lo Stato moderno è la promulgazione della Costituzione nel 1868, e subito revisionata a favore del potere centrale nel 1869.
Proprio queste modifiche permettono di approfondire il concetto di «rivoluzione dall’alto», poiché viene respinta l’idea di separazione dei poteri e assunta una struttura più autoritaria e simile a quella del periodo antico, il Dajōkan (Gran Consiglio si Stato) divenne l’unico e supremo organo esecutivo e fu affiancato dall’ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all’esecuzione dei riti e al controllo della sfera spirituale e, pertanto, ritenuto come il più alto organo dello Stato. Si profila così la nascita di una vera e propria oligarchia formata da un ristretto numero di energici capi, provenienti per lo più dalla Corte e dai quattro han più importanti, decisi a far prevalere gli interessi nazionali rispetto a quelli particolaristici.
Le prime opere dell’era Meiji si concentrarono su due aspetti: uno economico e l’altro politico. A livello economico, il nuovo Stato giapponese cerca di rafforzare le finanze e l’economia nazionale al fine di riuscire ad entrare nei meccanismi capitalistici, sfruttandoli per un più veloce sviluppo. Molti sono gli investimenti in infrastrutture ed industrie di base, anche se gli obiettivi primari rimangono la difesa e il rafforzamento militare. Aprirsi all’Occidente non rappresenta quindi una sottomissione ad un modello imposto, ma il tentativo di sfruttare le nuove possibilità che il mondo esterno offre al fine di rendere ricco il Paese e costruire un forte esercito.
Dal punto di vista politico, infatti, il Giappone, anche se non è immediatamente predisposto all’espansionismo, pone su esso un obiettivo a lungo termine. La perdita di potere della Cina e della Russia nella regione in seguito alle sempre maggiori influenze occidentali, danno la possibilità al Giappone di poter occupare un vuoto di potere che era ora vacante. Tutto questo, tuttavia, non sarebbe stato possibile se prima però non fossero stati messi in discussione i «trattati ineguali» e rinegoziati, rendendo lo Stato di pari rango con le potenze occidentali. Questo l’obiettivo politico a breve termine che il nuovo Stato giapponese si trova ad affrontare. Il consolidamento delle istituzioni politiche ed economiche oltre che la promulgazione della Costituzione Meiji concorrono fortemente all’obiettivo di dimostrare all’Occidente di essere uno Stato moderno.
Come accennato prima, tuttavia, la costituzione non rappresenta l’immagine di uno stato laico costruito su ideali liberali. Anzi, l’apertura ai valori e alle forme occidentali ha causato in Giappone un movimento di repulsa che si tradusse in una limitazione dei concetti moderni di Stato. Gli oligarchi preferiscono in questo momento limitare la validità del modello occidentale al sapere, difendendo invece lo spirito giapponese.
La Costituzione Meiji, infatti, riconosce i giapponesi come sudditi di un sovrano divino «discendente dal Cielo», mostrando come nell’idea di suddito fosse confluito quel patrimonio shintoista che in passato i kokugakusha avevano contribuito a far resuscitare, assieme al mito dell’unità etnica e razziale dei giapponesi. In altre parole, l’esistenza del popolo sembra giustificata in termini etici più che politici, dato che l’Imperatore costituisce il fulcro attraverso cui il popolo stabilisce la propria appartenenza allo Stato.
Rifiutata ogni possibilità di accogliere la visione laica dello Stato consolidatasi in Occidente e riaffermato il tradizionale principio secondo cui il potere politico si basa sulla legittimazione divina, lo Stato continua ad essere concepito in termini confuciani, specie per quel che riguarda i valori etici che regolano il rapporto tra sovrano e sudditi. Trasformato ormai in una vera e propria ideologia di Stato, lo Shintoismo svolge un ruolo primario nella costruzione dell’identità nazionale nella misura in cui esso si rivolgeva al popolo giapponese nella sua totalità e, allo stesso tempo, nella sua specificità, rinsaldando così l’intima comunione spirituale che lo legava al tennō.
Fino alla fine degli anni Ottanta, pertanto, si riscontra un ritorno alla tradizione, che interessa il piano politico e ideologico, in sintonia con le scelte economiche. La reazione seguita alla fase di relativa apertura alle idee e alle concezioni occidentali porta a una riaffermazione dei valori tradizionali, mentre lo Shintoismo viene messo al servizio dello Stato e usato come uno strumento di controllo sul popolo.
La politica espansionista e la guerra
Nel 1890 il Giappone è diventato uno stato moderno, il feudalesimo è definitivamente superato e il capitalismo ha completato il processo di consolidamento, mentre il blocco di potere dell’oligarchia «rivoluzionaria» è saldo al comando del Paese.
L’ideologia dominante ha peraltro avviato negli anni precedenti un processo di nazionalizzazione delle masse che in questi anni si è velocizzato, grazie all’aumento della scolarizzazione e alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, e che ha portato interessanti risultati sulla formazione di un nazionalismo giapponese basato su ideali condivisi. Lo Stato del Sol Levante si è impegnato fin dal primo giorno a creare un popolo di sudditi, piuttosto che di cittadini, postulando una nazione senza contraddizioni devota e unita attorno alla sacra figura dell’imperatore.
Funzionale al fine di mantenere la coesione sociale attorno al blocco politico, la politica espansionista che si sviluppa durante gli anni Novanta riflette, tuttavia, anche le difficoltà del Giappone di riuscire a mantenersi una potenza in continuo sviluppo nel mondo capitalistico, senza avere materie prime. Il capitalismo del Giappone risulta quindi un «capitalismo senza capitali», tanto da costringerlo a guardare all’estero per procurarseli. Per difendere gli interessi del capitale e per riuscire a diventare una potenza in grado di trattare da pari con l’Occidente, tentando di riempire il vuoto politico creatosi in Asia, lo Stato Meiji intraprende la guerra contro la Cina nel 1894.
Conclusa vittoriosamente, il positivo risultato non si tramuta in un riconoscimento internazionale. Le clausole imposte allo sconfitto Impero cinese non possono essere soddisfatte a causa del «Triplice intervento» di Russia, Francia e Germania che impedirono al Giappone l’annessione del Liandong, che avrebbe messo in pericolo l’indipendenza della Corea. Di fronte alla disparità delle forze il Giappone si arrende, ma si rende conto ancora di più che soltanto la forza militare e le alleanze diplomatiche costituiscono una garanzia per la difesa dei propri interessi in Asia.
Dopo il riconoscimento definitivo dello status del Giappone come grande potenza in seguito all’aiuto per sopprimere la rivolta dei boxers, i governi di Londra e Tokyo firmano un Trattato di alleanza in funzione antirussa. Entrato in vigore nel 1902, l’accordo prevede il condiviso obiettivo di opporsi all’espansione russa in Asia; il reciproco aiuto nella salvaguardia degli interessi di entrambe le nazioni; e la neutralità in caso di conflitto contro la Russia o l’entrata in guerra a fianco dell’alleato nel caso in cui il numero dei nemici sia pari o superiore a due. Diretta conseguenza di questo Trattato fu il riconoscimento del Giappone anche dalle altre potenze come pari, tanto che da quel momento inizia la revisione dei «trattati ineguali».
Da quel momento, per lo Stato giapponese è possibile guardare all’esterno in ottica espansionistica in maniera ancora più convincente. Se, da una parte, la potenza statunitense, conquistando l’arcipelago filippino, ribalta gli equilibri nel pacifico impedendo una possibile conquista verso l’arcipelago neozelandese e l’Australia; d’altra parte, le conquiste continentali sembrano più a portata di mano. In quest’ottica il nemico principale per il Giappone è rappresentato dall’Impero zarista, che con l’ultima occupazione della Manciuria è arrivato a minacciare fortemente gli interessi giapponesi nella penisola coreana.
Nel 1904 l’esercito giapponese attacca le posizioni russe nel Liandong e Tokyo dichiara guerra a Mosca. I giapponesi conseguono una serie di vittorie fondamentali. Quella decisiva, dopo quella a Port Arthur, risulta essere la battaglia navale di Tsushima. In questo caso, si rivela di importanza fondamentale l’alleanza con la Gran Bretagna. Infatti, poiché la Marina giapponese ha bloccato nel porto di Vladivostok la flotta russa del Pacifico, lo Zar Nicola II invia contro i giapponesi la flotta del Baltico. La Gran Bretagna, che controlla il Mediterraneo attraverso Gibilterra e il canale di Suez, tenendo fede al trattato con il Giappone, impedisce l’accesso alla squadra navale russa, la quale è perciò costretta a circumnavigare l’Africa. La flotta del Baltico, giunta nelle acque di Tsushima gravemente inefficiente a causa della lunga navigazione, viene con facilità sconfitta.
La vittoria del Giappone contro la Russia rappresenta la definitiva consacrazione del Giappone come potenza sul piano internazionale, oltre che la data della sua decisiva sprovincializzazione. Sul piano politico la vittoria è un successo, poiché per la prima volta uno Stato asiatico sconfigge uno Stato occidentale. Il Giappone diventa quindi in questi anni il paradigma da seguire per gli altri Stati asiatici.
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- R. Cairoli, F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza.
- F. Arzeni, L’immagine e il segno: il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, Il Mulino.
- W. G. Beasley, Storia del Giappone moderno, Stanford UP.
- Ian Nish, Japanese Foreign Policy, 1869-1942. Kasumigaseki to Miyakezaka, Routledge and Kegan Paul.