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La banda della Magliana: misteri, violenza, potenza, sfrontatezza e criminalità in salsa romana
Il quartiere Magliana è situato nella zona urbanistica 15E del Municipio Roma XI ed è caratterizzato dal passaggio dell’omonimo torrente (Magliana) che bagna il quartiere sfociando, infine, nel Tevere. Situato nella zona sud di Roma tra i quartieri EUR e San Paolo, questo quartiere è nato nel secondo dopoguerra. Era una zona povera, lontana dal centro e senza servizi di ogni tipo.
Un posto dimenticato e abbandonato, un quartiere popolare, densamente abitato, senza plessi scolastici e con poco verde. Un quartiere difficile, dove si faticava a mettere insieme pranzo e cena e dove lo skyline era composto da palazzi enormi non particolarmente belli e le strade erano dissestate e sterrate. In questo contesto, la delinquenza la faceva da padrona.
Quella parte di Roma, lontana chilometri dal Colosseo e dal centro della “Città eterna” è stata la “casa” della banda della Magliana, il gruppo criminale più forte e temuto d’Italia. Una banda nata nell’autunno 1977 grazie all’intuito di un piccolo delinquente di Trastevere, Franco Giuseppucci, che decide di unire in un unico gruppo tutte le “batterie” romane del tempo per prendere il potere criminale assoluto, incondizionato ed indipendente sulla città.
Questo gruppo criminale “comandò” tra le fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, gestendo tutti i traffici illeciti gravitanti sulla città come corse di cavalli, gioco d’azzardo, traffico di droga, sfruttamento della prostituzione, usura, rapine, traffico di armi, riciclaggio di denaro: era meglio allearsi con loro che essere contro di loro.
Un gruppo così potente da fare affari con camorra, mafia ed attirando a sé l’attenzione dei servizi segreti “deviati” e del terrorismo neofascista, venendo coinvolto, grazie ai suoi membri, negli scandali e nei misteri più torbidi del nostro Paese tra la fine dei Settanta ed i primi anni Ottanta: dal sequestro di Aldo Moro (uno dei nascondigli usati dalle Brigate rosse era nel quartiere Magliana ed il falso comunicato numero 7 del 18 aprile 1978 in cui si diceva che il cadavere di Moro era nel lago della Duchessa era stato scritto da un falsario vicino alla banda) alla strage di Bologna (il borsone contenente armi provenienti dal deposito della banda ritrovato sul treno Taranto-Milano del 13 gennaio 1981 nei pressi della stazione di Bologna), dall’omicidio di Mino Pecorelli (l’arma che uccise il giornalista proveniva anch’essa dal deposito della banda di via Liszt presso una sede distaccata del Ministero della Salute) all’attentato al vice Presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone (Danilo Abbruciati gli ha sparato rimanendo poi ucciso per mano di una guardia giurata che assistette alla scena dove il membro testaccino della banda sparò contro l’allora vice-Presidente del Banco ambrosiano), dai rapporti con l’eversione neofascista (legami intensi tra Giuseppucci e i NAR, con scambi di favori reciproci comprovati tra le parti) fino sequestro di Emanuela Orlandi avvenuto il 22 giugno 1983.
Un gruppo spietato che si è seduto al tavolo e che ha fatto affari con tutti. Un dominio assoluto imploso su sé stesso nella seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta con alcuni membri che sono diventati collaboratori di giustizia portando il gruppo a dilaniarsi. Ma per diventare quella che è diventata, la banda della Magliana ha dovuto iniziare anche lei da qualcosa. E quel “qualcosa” era una pratica molto comune nell’Italia di quel periodo: i sequestri di persona.
La situazione criminale romana fino alla metà anni 70: il clan dei “marsigliesi”
Il quartiere Magliana è nato durante il boom edilizio romano degli anni ’50-’60 che portò alla nascita delle periferie e delle borgate cittadine, le periferie delle periferie. La “dolce vita” felliniana sembrava non aver toccato quella parte della capitale. Inoltre, gli anni Settanta vedono la violenza politica spostarsi da Milano alla capitale, rendendo tutto ancora più complesso e violento: si entrava nella seconda parte degli “anni di piombo”.
Quando nacque il quartiere Magliana, la criminalità romana era fondata su truffe, riciclaggio, rapine, contrabbando di sigarette. La malavita romana era sempre stata composta da “batterie”, gruppi di quattro o cinque elementi che si riunivano per realizzare un colpo sciogliendosi dopo averlo effettuato per formare successivamente un’altra “batteria”.
A dare una “scossa” a questa situazione ci pensarono i “marsigliesi”, specializzati in sequestri di persona, spaccio di sostanza stupefacenti, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione ed avevano preso il comando criminale della città, tra il 1975 ed il 1976, facendole fare il “salto di qualità”: mai in città un gruppo criminale aveva preso il controllo totale su tutto ciò che era illegale. Divennero ricchissimi.
I capi dei “marsigliesi” erano Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer, le “3B”. Era gente molto spiccia: le controversie le risolvevano con le armi da fuoco. La novità era nel fatto che spacciavano enormi quantitativi di droga, la vera novità degli anni Settanta, che portò nelle loro casse tantissimi soldi. Per fare questo, eliminarono fisicamente chi si opponeva alle loro idee. I “marsigliesi” praticavano anche i sequestri di persona: tra il 1975 ed il 1976 ne compirono cinque, con vittime sane e salve a casa e loro che incassarono oltre 2,65 miliardi di lire.
L’esperienza dei “marsigliesi” terminò con gli arresti del 1976. Con loro fuori dalla scena criminale, qualcuno doveva prendere il loro posto: era impossibile tornare al concetto di “batterie” che aveva caratterizzato la “mala” romana fino all’arrivo di quei criminali d’Oltralpe. Il dado era tratto: un gruppo criminale doveva prendere il comando sulla città. Con i “marsigliesi” in carcere, Roma era tutta da conquistare. Un ragazzo di 30 anni, di professione fornaio, a capo di una “batteria” e con il gusto delle scommesse per i cavalli ed i soldi facili si era messo in testa di creare un gruppo criminale guidato esclusivamente da romani che comandasse sulla città. Quel ragazzo si chiamava Franco Giuseppucci.
La prima idea di “banda” a Roma. La figura di Franco Giuseppucci
Nato nel 1947 nel quartiere di Trastevere, Franco Giuseppucci aveva lavorato per qualche tempo nel forno di famiglia: per questa attività, era conosciuto con il soprannome di “fornaretto”. Ma a Giuseppucci non piaceva lavorare nell’attività di famiglia: tanta fatica e poco guadagno uniti a poca voglia di lavorare e tanta voglia di fare soldi erano uno dei suoi tratti caratterizzanti. Era uno capace il “fornaretto”, dotato di leadership e carisma, nonché essere molto intraprendente. A 24 anni prese la prima denuncia per detenzione e porto illegale di pistola: non un malavitoso di primo piano, ma il suo nome iniziava a girare nella “mala” romana e tra le forze dell’ordine.
Giuseppucci era molto apprezzato dai “colleghi”, tanto che molti affidarono a lui alcuni “depositi” poiché disponeva di una roulotte sul Gianicolo: quel mezzo, un po’ malmesso, negli anni ha visto al suo interno di tutto. Il 17 gennaio 1976 però Giuseppucci viene arrestato: le forze dell’ordine trovarono delle armi al suo interno e per il “fornaretto” scattarono le manette. Il suo avvocato però giocò d’astuzia: riuscì a far assolvere il suo assistito perché la roulotte aveva dei vetri rotti e questo convinse la corte che qualcuno, rompendo i vetri della roulotte, avrebbe messo le armi al suo interno incastrandolo.
Giuseppucci tornò libero e continuò a curare materiale per altri “colleghi”, ma da quel momento non usò più la roulotte, ma le armi le portava con sé dentro una borsa. Finché un giorno a Giuseppucci venne rubata la macchina dove al suo interno c’era una borsa piena di armi (ancora una volta) che appartenevano al suo amico Enrico de Pedis detto “Renatino”, trasteverino anche lui e nome noto nella “mala” romana.
Giuseppucci scoprì, attraverso i suoi “giri”, che la macchina e la valigia era finita nelle mani di un piccolo delinquente e che aveva venduto quest’ultima a tale Emilio Castelletti facente parte di una batteria che operava nel quartiere Magliana guidata dal 23enne Maurizio Abbatino detto “Crispino”, nome molto noto nell’ambiente criminale della capitale per affidabilità e freddezza nelle azioni.
Giuseppucci andò dal gruppo maglianese con un obiettivo: tornare a casa con tutte le armi di de Pedis. Il gruppo si incontrò ed iniziò a discutere. Si potrebbe pensare ad un incontro molto violento, invece Giuseppucci non tornò a casa con le armi (comprate da colui che aveva rubato la macchina di Giuseppucci e subito vendute), ma tornò a casa con la stretta di mano di Abbatino e dei suoi: “non facciamoci la guerra, conosciamo tutti de Pedis, prendiamo il posto dei “marsigliesi” e conquistiamo Roma come la camorra ha conquistato Napoli e come la mafia la Sicilia”. Una stretta di mano ed una promessa che valevano più delle pistole da riportare a casa.
L’idea che un gruppo criminale romano dovesse conquistare Roma era un’idea che da tempo balenava nella testa di Giuseppucci. Un’idea che, però, aveva avuto anche Nicolino Selis, 25enne criminale di origine sarda ma “operante” tra le zone di Acilia e Ostia. L’idea gli venne dopo aver conosciuto in carcere Raffaele Cutolo, un (allora) giovane boss emergente della camorra che voleva prendere il comando (criminale) sulla città partenopea eliminando la concorrenza.
L’idea del gruppo di Giuseppucci (che non vedeva ancora protagonista de Pedis in quel momento in carcere) era quella di abbandonare il discorso delle “batterie” e creare una banda, un gruppo criminale molto più ampio e basato su “obiettivi”, non indirizzata allo sciogliersi mai e basata sull’aiuto reciproco: il core business non era più la semplice rapina, la truffa, lo strozzinaggio e altre attività criminali di piccolo cabotaggio, ma dedicarsi a molteplici attività criminali più lucrose. Selis seppe dell’idea di Giuseppucci e soci e si unì a loro.
A questo folto gruppo si unirono in poco tempo molte altre persone di altre zone della città: del gruppo maglianese originario fecero parte sin da subito Giuseppucci, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli, Antonio Mancini, Claudio Sicilia, Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti; da Testaccio e Trastevere Enrico de Pedis, Danilo Abbruciati e Raffaele Pernasetti; da Acilia e Ostia Nicolino Selis, Antonio Leccese, Giuseppe Magliolo, i fratelli Vittorio e Giuseppe Carnovale, Giovanni Girlando, Libero Mancone e Fulvio Lucioli; da Tufello e Alberone Angelo de Angelis, Roberto Fittirillo e Gianfranco Urbani.
Un gruppo di giovani malavitosi si era messo in testa di prendere il potere e comandare su Roma. Ma come fare per iniziare? Ci volevano “li sordi” per iniziare e per farsi conoscere. Ed il gruppo criminale decise di fare una cosa che allora, a Roma come nel resto d’Italia, era molto in voga: i sequestri di persona. E Giuseppucci aveva già in mente chi sequestrare.
7 novembre 1977, il colpo: il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere è sequestrato
I sequestri di persona sono stati una “caratteristica” criminale degli anni Settanta (e di tutti gli Ottanta): portare via dai loro affetti padri industriali o figli/e di questi era l’obiettivo della criminalità che sapeva che, pur di averli a casa sani e salvi, avrebbero pagato quanto richiesto, i miliardi. I equestri di persona tennero l’Italia con il fiato sospeso, interessata alle vicende di queste persone (molti ragazzini) e delle loro famiglie con la speranza di vedere questi criminali in carcere.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 furono rapite 489 persone: fino a metà autunno 1977, l’Anonima sequestri ne aveva compiuti sessantasei. I gruppi criminali specializzati in questa pratica erano l’Anonima sarda e la ‘ndrangheta, ma molti sequestratori erano dei gruppi nati con lo scopo del rapimento ed una volta incassato il denaro e liberato l’ostaggio si scioglievano. Molti sequestrati tornarono a casa, altri no.
Anche Franco Giuseppucci (che nel frattempo si era visto cambiare il soprannome in “negro”) volle tentare di fare “carriera” nel crimine partendo con un sequestro di persona. E pensò di sequestrare il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, erede della nobile famiglia romana. Il duca aveva 66 anni ed era marito di Isabella Perrone, la cui famiglia aveva guidato per oltre venti anni “Il Messaggero”, era stato ceduto alla Montedison nel 1974 portando alla famiglia Perrone un ingente quantità di liquidità.
Cosa spinse il “Negro” a indentificare nel nobile romano la persona giusta da rapire? Giuseppucci bazzicava molto gli ippodromi e le sale corse ed un suo “gancio” alla sala corse di Ostia, Enrico Mariotti, era riuscito a legare con il figlio del duca, Giulio, assiduo frequentatore di Tor di Valle, sede del più noto ippodromo romano.
Giuseppucci informò il suo nuovo gruppo criminale dell’idea e, dopo un lungo periodo di pedinamenti e studio dei suoi orari e di come agire, giovedì 7 novembre 1977, intorno alle ore 18:30, scattò il rapimento del nobile romano. Parteciparono al sequestro Giuseppucci, Abbatino, Paradisi, Piconi, Castelletti e Colafigli. Per fare un sequestro c’era da essere ben equipaggiati ed in un numero congruo: al gruppo si unirono anche quattro persone facenti parte di una “batteria” di Montespaccato.
Quel lunedì sera, il gruppo di Giuseppucci si era diviso su due automobili (rubate) e si posizionò in via della Marcigliana, poco distante dalla via Salaria: il duca era solito lasciare per quell’ora la sua tenuta “Le Torrette” a Settebagni, in via del Casale di san Nicola, per tornare a casa, nel centro di Roma, in via del Plebiscito. La tenuta, a nord di Roma, era di 534 ettari ed era adibita a pascolo, grano e con annesso un allevamento di cavalli. L’agricoltura era diventata la passione del duca.
Pedinandolo e studiando come agire, si scoprì che il duca era metodico e preciso ogni giorno: anche quel 7 novembre non fece nulla di diverso rispetto ai giorni e alle settimane precedenti. Come di consueto, il duca era davanti con la sua BMW al direttore della sua azienda agricola, Luigi Nanni, che lo seguiva con la sua utilitaria.
Ad un certo punto l’auto del duca fu bloccata da una Fiat 131 e da una Alfetta: alla loro guida Abbatino e Danesi. Il gruppo, tutto incappucciato, scese dalle auto e spinse con la forza il duca all’interno di una delle due. Nanni vide il duca essere portato via, sentire degli spari in alto e lui fatto buttare in un fosso minacciato con un fucile: non poté fare altro che avvisare la famiglia di ciò che era successo. Il duca Grazioli Lante della Roma diventava l’ottava persona ad essere sequestrata dall’inizio dell’anno a Roma.
Alle 19:15 la famiglia Grazioli Lante della Rovere ricevette una telefonata da parte dei rapitori: chiedevano un riscatto di 10 miliardi. Da quel momento le telefonate tra il gruppo e la famiglia divennero frequenti, con la famiglia che chiedeva la prova che il congiunto fosse vivo. La banda la “accontentò”, facendole arrivare una polaroid del duca con in mano una copia de “La Nazione”. Inoltre per assicurarsi che stesse bene (e che fosse vivo), la famiglia chiese al telefonista di far rispondere al duca alcune domande che solo lui poteva sapere e che rispose correttamente, segno che il loro congiunto era vivo.
La polizia vedendo la fotografia del duca con in mano una copia del quotidiano capì che si trattava di un sequestro anomalo: quotidiano toscano quando le telefonate che erano captate provenivano dalla provincia romana. Il gruppo Giuseppucci però aveva fretta di chiudere le trattative per il pagamento ed incassare quanto chiesto alla famiglia o comunque più denaro possibile.
4 marzo 1978, l’accordo: la caccia al tesoro, il miliardo e mezzo incassato e la “stecca para”
Ciò che caratterizza un sequestro è la richiesta in denaro per il rilascio: il gruppo di Giuseppucci chiese inizialmente 10 miliardi, anche sapendo le disponibilità finanziarie dei Grazioli Lante della Rovere, soprattutto dopo la cessione de “Il Messaggero” da parte della moglie e dei suoi fratelli. La famiglia disse subito che poteva dare loro solo poco più di 200 milioni, ma la banda volle molto di più. Avendo il telefono sotto controllo, si scoprì che le chiamate arrivano da fuori Roma e non dalla Toscana come si pensava.
A casa del duca arrivarono anche lettere scritte a mo’ di collage con pezzi di giornali e ad ogni telefonata, il telefonista rispondeva con quanto chiesto dalla famiglia al duca per dimostrare che fosse vivo: il nome della prima balia, del falegname che aveva fatto dei lavori a casa ed il nome di una macchina usata dal duca. La famiglia si rincuorò, ma capì di avere a che fare con gente che non scherzava, perché durante una delle telefonate, il telefonista disse loro di comportarsi bene perché sennò il loro caro avrebbe fatto la fine di “Pallino”, un cavallo di proprietà del duca ucciso anni fa.
Dopo quattro mesi di trattative, il gruppo di Giuseppucci portò “a dama” i Grazioli Lante della Rovere: in cambio di 1,5 miliardi di lire, il duca sarebbe stato liberato. I Grazioli accettarono la richiesta della banda il 14 febbraio 1978 e la definitiva accettazione avvenne quando su “Il Tempo” che quel giorno uscì con un trafiletto in cui la famiglia fece capire al gruppo criminale che aveva accettato lo scambio attraverso un messaggio in codice.
Il giorno scelto per la consegna del denaro fu il 4 marzo 1978 sera, giorno dell’ultima chiamata da parte dei sequestratori. Solo che Giulio Grazioli, la persona indicata per la consegna del denaro, fece una particolare “caccia al tesoro” tra Roma e la sua periferia con una serie di messaggi che il giovane Grazioli scopriva di volta in volta: il gruppo volle metterlo in difficoltà onde evitare di facilitare il lavoro delle forze dell’ordine che, in caso di un loro errore, avrebbero potuto arrestare i malavitosi, certi che la polizia avrebbe pedinato il giovane Grazioli Lante della Rovere.
Si partì dall’uscita della metropolitana alla fermata “Magliana”, fino ad un parapetto sulla Aurelia. In mezzo: indicazioni e segnali trovati tra via Cristoforo Colombo, uno stabilimento balneare di Ostia, la Ostiense, l’autostrada per Civitavecchia e la Cerveteri-Ladispoli, tutto su di una macchina rubata e “messa a disposizione” del figlio del duca che doveva muoversi anche a velocità specifiche durante il tragitto.
Dal parapetto dell’Aurelia, Giulio Grazioli, imbeccato da tre voci sotto di lui, gettò un borsone pieno di banconote da 20mila e 100 mila come chiesto dai rapitori: a prendere il borsone ci furono Danesi, Piconi e Castelletti. Fu detto a Giulio Grazioli di tornare a casa ed aspettare a breve giro di posta una loro chiamata sul come “ritirare” il duca entro le successive 24 ore. La telefonata a casa Grazioli non arrivò mai e la banda poté godersi quella montagna di soldi.
Un miliardo e mezzo di lire del 1977 equivalgono oggi a 6 milioni di euro e Giuseppucci ebbe un’idea su come dividersi il malloppo: l’ammontare fu diviso in due parti da spartire tra il suo gruppo e quello di Montespaccato. Di quei 750 milioni, parte fu data al basista del sequestro, al telefonista, a de Pedis ed il 12% circa fu fatto “ripulire”. Il “Negro” ebbe un’idea che piacque al suo gruppo: ciò che spettava singolarmente (la “stecca”) doveva essere ripartita equamente tra tutti (la “stecca para”) in maniera inferiore rispetto a quanto pattuito in una divisione.
Ad ogni singolo membro andò una “stecca” molto meno consistente e quello che avanzava non veniva utilizzato, ma messo in una sorta di “fondo comune” da usare d’ora in avanti per i loro investimenti in diverse attività economiche criminali. Va da sé che da quel momento in poi il fondo comune si ingrossò sempre di più, e di conseguenza, la “stecca para”, scelta sempre come divisione di un guadagno, aumentò, arricchendoli in maniera incredibile. Ovviamente aumentarono le spese (avvocati, informatori, pagare le “stecche” a chi era in carcere etc.), ma aumentarono gli incassi in quanto la banda investì tutto nel traffico di stupefacenti, estromettendo con le cattive tutti quelli che fino a quel momento spacciavano, rendendo il gruppo compatto e controllore al 100% dello smercio di droga in città. Non era più una “batteria”, ma una “banda”. Il “salto di qualità” era stato fatto definitivamente.
Si decise che ogni membro della banda avrebbe avuto il controllo su una zona e doveva usare tutti i modi per convincere chi già deteneva il controllo dello spaccio in quella zona a passare sotto il suo controllo o farsi da parte, con le buone o con le cattive. Lo spaccio consisteva nel dare ad un “cavallo” (un fiancheggiatore che forniva supporto) la droga da vendere, il quale la dava alle “formiche” (gli spacciatori in strada) che la vendevano ai tossicodipendenti: Testaccio era di Abbruciati, Giuseppucci e dei fratelli Domenico e Francesco Zumpagno; Trastevere e Centocelle di de Pedis, Raffaele Pernasetti e Fabiola Moretti, compagna di Abbruciati; Magliana, Eur e Monteverde erano di Abbatino, Enzo Mastropietro e Colafigli; Ostia e Acilia erano sotto il controllo di Selis con gli apporti di Leccese, Lucioli, Toscano, Mancone e i fratelli Carnovale; Garbatella e Tor Marancia erano del neo entrato Claudio Sicilia e ancora Colafigli, mentre il trittico Portuense-Trullo-Prenestino erano affidato a Danesi, Castelletti ed Urbani.
Ma non solo: chi controllava ogni zona gestiva anche le altre “entrate” criminali, punendo con la morte chi sgarrava, stando però attento lui stesso a non “invadere” altre zone di competenza controllate da un altro membro della banda. In poco tempo al gruppo del sequestro del barone Grazioli Lante della Rovere si unirono soggetti delinquenziali provenienti da altre zone di Roma. Si decise inoltre che la banda non avrebbe avuto un capo o più capi: tutto sarebbe stato deciso all’unanimità, tutti erano a pari livello, tutti dovevano sapere tutto di tutti.
Roma aveva trovato per la prima volta nella sua storia (criminale) dei capi e nulla sarebbe stato più come prima. A guidarla, la banda della Magliana: da poveri borgatari a “imperatori” del crimine. Il “sogno” di Franco Giuseppucci si era avverato nel giro di neanche tre anni.
La banda della Magliana: misteri, accordi, regolamenti di conti, implosione, morti
Con le mani sul traffico di droga, quell’iniziale gruppo di piccoli delinquenti divenne una vera banda criminale che controllò tutti gli affari illegali della città grazie all’aiuto di mafia e camorra, facendosi largo uccidendo chi si metteva contro di lui. Come Franco Nicolini detto “Franchino il criminale”, capo delle scommesse clandestine di Tor di Valle, ucciso da sette persone della banda la sera del 25 luglio 1978. Lo scopo era che la banda prendesse, con il placet della camorra, il controllo delle corse clandestine e delle scommesse legate a questa: un’altra grandissima entrata monetaria nel fondo comune
La banda divenne ricchissima: i suoi membri cambiarono stile di vita e modo di vestirsi, con tutti al polso i Rolex e seduti su fuoriserie e moto di grossa cilindrata: tutto era partito con un sequestro finito male per inesperienza, ma che vide cadere in testa ai maglianesi un quantitativo di miliardo che loro, fino a quel momento, non avevano mai visto e che negli anni successivi li vedrà diventare ricchissimi (alle spalle di tossici, rivali in “affari”, scommettitori indebitati, prostitute e persone borderline).
Grazie ad una serie di accordi con mafia, camorra, ‘ndrangheta, servizi segreti “deviati”, terrorismo nero ed alcuni ammiccamenti con la loggia massonica P2, la banda della Magliana è entrata nell’immaginario collettivo come una delle organizzazioni criminali più tristemente note d’Italia. Definita “holding criminale” e vera agenzia del crimine al soldo di chi le chiedesse aiuto e la pagasse, la banda ha riempito pagine e pagine di cronaca nera non solo nella “Città eterna”, ma in tutta quella nazionale. Ed ogni anno la banda della Magliana era sempre più ricca e potente dell’anno prima.
Quel gruppo criminale i cui membri avevano soprannomi quasi improbabili ce l’aveva fatta: si erano presi Roma. Ed ecco che nacquero i miti (criminali) di “Marcellone”, “Operaietto”, “Accattone”, “Pantera”, “Sorcio”, “Vesuviano”, “Zanzarone”, “Palletta”, “Camaleonte”, “Gianni er roscio”, “Coniglio” e “Tronco”, “Enzetto”, “Cabbajo”, “Capece”; “Killer” E poi loro, i creatori della “holding criminale” per antonomasia: “Negro”, “Crispino” e “Renatino”. Tutti soprannomi molto “pittoreschi” e romaneschi, ma che fecero capire con chi si aveva a che fare.
Ancora oggi il nome “banda della Magliana” è una macchia della nostra storia nazionale recente, ma è anche un qualcosa che affascina ed interessa sempre grazie anche a quel livello di mistero e i tanti intrecci che ha avuto, tanto che sono stati scritti libri, pubblicati documentari, girato film ed una serie televisiva di successo. E poi quel nome, “banda della Magliana” anche se di quella borgata non erano in tanti a provenire, ma perché tra la Magliana e il quartiere San Paolo si trovavano i due bar punto di ritrovo di quella banda che era partita dalle strade povere e da situazioni borderline a “governare” il crimine cittadino arrivando a lambire le stanze dei bottoni dell’Italia.
Anche se ancora oggi si sente di qualche arresto e di qualche “ammazzamento” che vede coinvolti ex membri, o dei suoi affiliati, la banda della Magliana ha “operato” tra il 1977 ed il 1992, anno in cui Maurizio Abbatino, fuggito nel dicembre 1986 in Venezuela per chiudere i suoi rapporti con il suo passato e con la banda, fu arrestato e condotto in Italia dove divenne un collaboratore di giustizia.
Si scoprì che la banda della Magliana aveva in mano tutto: avvocati, uscieri dei tribunali, diversi membri delle forze dell’ordine, informatori vari, creando una rete corruttiva molto forte tanto da avere sempre perizie compiacenti e tanti favori ricambiati. E come se non bastasse, la banda, grazie anche a grandi appoggi, riuscì a creare un arsenale all’interno di una stanza, niente meno che in un deposito all’interno del Ministero della Salute all’EUR: una “santabarbara” scoperta a seguito di una perquisizione e che sancì, non solo, il legame tra la banda e l’estremismo di destra.
E si scoprì che la banda, dopo la morte di Giuseppucci, si scisse tra i due gruppi più forti: i maglianesi ed i testaccini, con i primi più banditi e meno “imprenditori” dei secondi che erano quelli con più conoscenze nei posti che contavano (servizi segreti, P2, Vaticano, per esempio) e facevano fruttare i soldi incassati e non li sperperavano come i primi, investendo nel “mattone” ed in attività imprenditoriali di diverso tipo.
La banda però a metà anni ’80 era sull’orlo della divisione, se non ché il 13 settembre 1980, a seguito dell’uccisione di Franco Giuseppucci, il gruppo si fortificò puntando ad uccider chi avesse ucciso il “Negro”: iniziò la guerra contro il clan rivale dei Proietti, detti “Pesciaroli”, clan romano rivale “in affari” con la banda. Furono uccisi i fratelli Fernando “Pugile” e Maurizio “Pescetto” Proietti, ma gli anni Ottanta portarono la banda ad esser invischiata nei grandi misteri nazionali e tra fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta molti membri furono uccisi in regolamenti di conti interni e per morti violente.
La banda di Giuseppucci, Abbatino, Selis (ucciso perché voleva diventare, senza meriti il nuovo leader della banda) e de Pedis era partita dai quartieri poveri e disastrati di Roma per arrivare a comandare nell’Italia criminale di quel tempo, arrivando ad essere coinvolta nei misteri e nelle tragedie italiane del tempo, tanto che dopo la sua morte Enrico de Pedis fu seppellito all’interno della basilica di Sant’Apollinare, una chiesa che faceva parte dell’omonimo complesso dove c’era la scuola di musica “Tommaso Ludovico da Victoria” che frequentava, fino al 22 giugno 1983, la 15enne cittadina vaticana Emanuela Orlandi, scomparsa proprio quel tardo pomeriggio. E ancora oggi, nel 2023, se si parla dei misteri italiani la banda della Magliana è sempre tirata in ballo.
Ed in tutto questo, che fine aveva fatto il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere? Lo si scoprì solo dopo il pentimento di Abbatino. Si aprì il processo contro i membri della banda ancora in vita e si scoprì che il duca non fu portato in Toscana, ma la copia de “La Nazione” fu acquistata in Toscana per depistare le indagini. Il duca nei mesi fu spostato tra Roma (Primavalle e Aurelia) e il Napoletano e fu ucciso nel marzo 1978 da un membro della banda di Montespaccato perché il duca lo aveva visto in faccia senza passamontagna: era troppa la paura che, in caso di liberazione, lui potesse riconoscere il rifugio ed i suoi aguzzini. Il cadavere non venne mai ritrovato. La moglie del duca morì nel 1989, Giulio dovette restituire gli 1,5 miliardi con le banche ed impiegò diversi anni per farlo.
Il processo iniziò nel 1995 e vide coinvolti i maglianesi Abbatino, Colafigli, Paradisi, Danesi, Piconi e Castelletti e quattro membri del gruppo di Montespaccato. Il Pm Giangreco chiese per tutti l’ergastolo, tranne per Abbatino che beneficiò del fatto di essere diventato un collaboratore di giustizia e “prese” otto anni e mezzo di reclusione. Nel luglio 1995 ai maglianesi furono comminati 20 anni e ad Abbatino furono confermati gli otto anni, mentre al gruppo di Montespaccato andò male in quanto a due membri di loro (Montegrande e De Gennaro) fu dato l’ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere. A Mariotti, il basista del sequestro, furono dati venti anni di reclusione.
Anche se l’omicidio di Franco Nicolini viene considerato come il vero momento della nascita della banda della Magliana perché si era aggraziata in poco tempo la camorra, ma se non ci fosse stato l’esito del sequestro Grazioli Lante della Rovere non ci sarebbe mai stata l’idea che un unico gruppo criminale avrebbe preso il comando criminale sulla città.
Quella che è stata definita “non un’associazione di stampo mafioso” (come da sentenza della Cassazione nel 2000 dopo che nel 1996, a seguito della celebre “Operazione Colosseo” da parte della Procura di Roma di tre anni prima a seguito delle confessioni di Abbatino, la Corte d’Assise di Roma aveva confermato quell’impianto accusatorio in primo e secondo grado anche due anni dopo), ma una “holding criminale”, un’agenzia del crimine: un qualcosa di cui tutti si servivano per i propri atti criminali puntando su un gruppo di ragazzi romani che non avevano nulla da perdere se non la consapevolezza che alla loro porta venivano a “bussare” persone insospettabili e potenti. Una potenza criminale (e di fuoco) degna dell’America di Al Capone, “Lucky” Luciano, John Dillinger, Vito Genovese e Carlo Gambino.
Quel gruppo criminale che unì in un unico blocco delinquenti provenienti da tutta Roma e che aveva trovato sede nel disastrato quartiere della Magliana generò una striscia di sangue, violenza e paura che hanno rappresentato un vero “romanzo criminale” italiano. E pensare che i “marsigliesi” definirono quelli della Magliana, dopo l’esito del sequestro Grazioli Lante della Rovere e l’ottenimento del riscatto del duca, “borgatari […] che [agiscono] senza alcuna razionalità [e] mente direttiva”. Gli allievi avevano superato di gran lunga i maestri.
Bibliografia
- Cristiano Armati, Italia criminale. Dalla Banda della Magliana a Felice Maniero e la mala del Brenta, Newton Compton Editori, Milano, 2013.
- Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita. Fatti e misfatti della banda della Magliana, Baldini Castoldi Dalai, 2005.
- Raffaella Notariale, Sabrina Minardi, Segreto criminale. La vera storia della banda della Magliana, Newton Compton Editori, Milano, 2011.
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- Cristiano Armati, Italia criminale. Dalla Banda della Magliana a Felice Maniero e la mala del Brenta, Newton Compton Editori, Milano, 2013.
- Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita. Fatti e misfatti della banda della Magliana, Baldini Castoldi Dalai, 2005.
- Raffaella Notariale, Sabrina Minardi, Segreto criminale. La vera storia della banda della Magliana, Newton Compton Editori, Milano, 2011.