CONTENUTO
Il solo nome di Stalin evoca immediatamente reazioni contrapposte: da un lato, gloria per l’uomo che più di ogni altro ha saputo fronteggiare e sconfiggere le armate naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, lode per il leader che ha guidato l’industrializzazione e l’alfabetizzazione in un paese rurale ed arretrato; dall’altro, condanna senza appello per il leader del comunismo che ha creato il sistema dei gulag, decimato i vertici del PCUS e causato fame e miseria negli anni della collettivizzazione delle terre.
In questo articolo cercheremo di tratteggiare una breve biografia – evitando di scivolare in una polarizzazione che, troppo spesso, ha finito per oscurare la lucida analisi storica – di un personaggio che ha plasmato la storia del Novecento.
1. I primi anni di Stalin: dall’infanzia alla Rivoluzione d’ottobre
Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto come Iosif Stalin, nasce a Gori, in Georgia, nel 1879. Figlio di un calzolaio e di una lavandaia, nel 1895 Stalin si iscrive al seminario ortodosso di Tbilisi, periodo nel quale produce i suoi primi versi di ispirazione patriottica. L’attività seminariale del giovane Stalin dura però molto poco in quanto nel 1898 si iscrive al partito socialdemocratico, una scelta che comporta la sua espulsione dal seminario.
Con i socialdemocratici, Stalin inizia la sua attività politica in clandestinità che gli causa diversi esili. Nel Caucaso, prima in Georgia e poi in Azerbaigian, il giovane Stalin assiste ai grandi scioperi e inizia le letture di Karl Marx, avvicinandosi così al socialismo. Gli scioperi nel Caucaso sono condotti da una massa di lavoratori di differenti nazionalità ai quali fanno da contraltare numerosi pogrom anti-armeni e anti-azeri.
E’ in questo contesto che Stalin inizia a percepire la fondamentale importanza della questione nazionale nei territori dell’Europa orientale. La continua attività politica in clandestinità lo porta ad essere esiliato in Siberia, tornato dalla quale – nel 1904 – aderisce al bolscevismo, emergendo lentamente come leader locale nella zona del Caucaso.
La formazione teorica di Stalin fino a questo momento è totalmente auto-didatta ma dal 1906, anno in cui conosce Lenin in Finlandia, inizia ad acquisire un sempre maggiore spessore intellettuale. Sia Lenin che Stalin riconoscono che la questione nazionale, con i differenti gruppi linguistici e religiosi che convivono in uno stesso territorio, è uno dei temi chiave con il quale il nascente movimento rivoluzionario deve fare i conti.
Non è per caso, quindi, che la prima e forse più importante opera scritta da Stalin nel 1913 sia “Il marxismo e la questione nazionale“, un testo nel quale viene analizzato il concetto di nazione e di linguistica con le chiavi analitico-teoriche del darwinismo e del marxismo. La pubblicazione di questo importante testo segue ad un altro notevole traguardo raggiunto da Iosif Stalin l’anno precedente, ovvero la nomina – da parte di Lenin – a membro del primo Comitato Centrale del Partito bolscevico.
Nel febbraio del 1917, tornato dall’ennesimo esilio, Stalin nel giro di un mese diviene – assieme a Kamenev – direttore della Pravda, l’organo di stampa dei bolscevichi, e in ottobre membro del Politbjuro. La vittoriosa rivoluzione d’ottobre e la presa del potere da parte dei bolscevichi vedono l’ascesa di Stalin a Commissario del popolo alle nazionalità, il tema che da anni lo vedeva impegnato nella sua comprensione e risoluzione.

2. Morte di Lenin e ascesa di Stalin
Durante gli anni della guerra civile e del comunismo di guerra, Stalin apprende da Lenin l’arte della gestione del potere e l’utilizzo dei fondamenti ideologici in base alle condizioni materiali nelle quali si agisce, la determinazione e la spietatezza nel controllo del partito e sul partito, oltre alla complicata questione dei contadini.
Negli anni della guerra civile e nel difficile cammino verso la costruzione dello stato sovietico, i principali vertici del partito iniziano a crearsi una cerchia di uomini a loro fedeli; Stalin non fa eccezione. Affiancato principalmente da Mikojan e Ordžonikidze, che finiranno la loro vita in sua opposizione, Stalin riesce a scalzare Trockji dalla lotta per la successione a Lenin, morto nel gennaio del 1924 a seguito delle complicazioni di un ictus che lo aveva colpito nel maggio del 1922.
La disputa tra Trockji e Stalin esplode con Brest-Litovsk, il trattato di pace con il quale la neonata Russia bolscevica si tira fuori dal primo conflitto mondiale. Com’è noto, Lenin e Stalin sono fermamente convinti della necessità di una fuoriuscita imminente dal conflitto bellico mentre su posizioni contrarie – tanto da dare le proprie dimissioni – è Trockji. Zinoviev e Kamenev invece rimangono molto scettici.
E’ qui che si ha il primo riconoscimento della nuova politica estera sovietica, una politica improntata alla difesa degli interessi del nuovo stato in un contesto assai critico. Stalin e Lenin tendono così ad essere concordi nell’analizzare i rapporti di forza interni ed internazionali allora vigenti, un’analisi che li porta a rafforzare il loro controllo sul nuovo stato e perciò a difenderne l’integrità. Sul fronte opposto si trova Trockji, convinto che la rivoluzione debba estendersi anche fuori dai confini dell’ex impero zarista.
Su quale delle due posizioni la storia abbia dato il suo giudizio lo spiega Luciano Canfora, nel saggio conclusivo al libro di Domenico Losurdo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008).
Il fallimento dell’ondata rivoluzionaria del 1919-20 (occupazione delle fabbriche in Italia, Repubblica bavarese dei Consigli, Ungheria di Béla Kun, sconfitta militare nel conflitto con la Polonia) confermava in via definitiva alla dirigenza sovietica la giustezza delle proprie scelte di politica estera.
La disputa con Trockji si risolve definitivamente con l’espulsione di quest’ultimo nel 1927, permettendo a Stalin di consolidare la sua posizione di potere, marginalizzare qualsiasi opposizione e di divenire definitivamente il successore di Lenin.

3. Politica di Stalin tra industrializzazione e collettivizzazione
Caratteristiche fondamentali degli anni di Stalin sono la rapida e massiccia industrializzazione del paese nonché la collettivizzazione forzata delle terre con la creazione delle fattorie collettive. La Conferenza del PCUS dell’aprile del 1929 vara così il primo dei Piani Quinquiennali, con lo scopo di avviare una gigantesca industrializzazione nel paese. Nella pratica, la prima fase dell’industrializzazione era partita ad ottobre del 1928 e sarebbe durata fino al dicembre del 1932.
Il piano prevede una crescita industriale spaventosa del 230%, da ottenere attraverso l’utilizzo delle risorse per lo sviluppo dell’industria pesante e dei mezzi di produzione, sacrificando così i beni di consumo. Tra i settori oggetto di questa vera e propria rivoluzione industriale sovietica ci sono l’energia, in particolare quella elettrica con lo sviluppo della Diga del Dnepr, l’estrazione di carbone e del petrolio.
La congiuntura economica, in forte peggioramento a causa della Grande Depressione che ha colpito i paesi capitalistici, di certo non aiuta e l’idea di una pianificazione centralizzata sembra non avere alternative. Gli obiettivi esposti nel primo piano quinquiennale non vengono raggiunti; stime di crescita tali sono irrealizzabili sia a causa del ritardo tecnologico scontato dall’URSS e sia per una gestione carente delle imprese, guidate da personale ancora poco specializzato e da una manodopera senza grandi qualifiche, spesso presa dalla campagne dove, nel frattempo, si sta avviando la collettivizzazione delle terre.
Lo storico Andrea Graziosi così riassume il processo di industrializzazione negli anni di Stalin:
L’industrializzazione fu lanciata utilizzando, oltre alla retorica della costruzione del socialismo, quella del nazionalismo russo, già usata nel 1920 in occasione della guerra con la Polonia. Stalin, che negli anni seguenti avrebbe fatto sempre più ricorso ai temi nazionali grande-russi, di cui non poteva fare a meno di notare il buon funzionamento, si presentò allora come il nuovo Pietro il Grande, capace di costruire un’industria in grado di fare della «Russia», prima battuta da polacchi, tedeschi e giapponesi, una potenza invincibile.
Come dimostrano per esempio le grandi acciaierie di Magnitogorsk negli Urali, copia fedele di quelle americane di Gary, sul breve-medio periodo l’obbiettivo fu raggiunto. A prezzo di enormi sacrifici umani e naturali, l’Urss fu dotata velocemente di una grande industria pesante, di un livello tecnologico pari a quello dei più avanzati paesi occidentali perché ne era, appunto, la copia. Alla fine del decennio i carri armati prodotti con il suo acciaio erano, come è noto, migliori di quelli nazisti, come nel 1941 i tedeschi scoprirono con amara sorpresa.
Il rapido processo di industrializzazione produce anche l’ascesa sociale di diversi milioni di persone, occupate nei nuovi settori tecnici e amministrativi richiesti dal nuovo complesso industriale sovietico. La maggioranza di questi uomini sono di umile origine e, nonostante vengano presi contro di loro diversi provvedimenti, rimangono fedeli a Stalin.

Di pari passo si procede alla collettivizzazione delle terre e all’inevitabile scontro con i contadini e i kulaki. Questi ultimi sono i contadini benestanti, proprietari di bestiame e che possono permettersi di assumere lavoratori salariati. Contro di loro, Stalin sferra una vera e propria guerra volta non a renderli parte delle nuove fattorie collettive bensì alla loro liquidazione. Tra il 1928 e il 1933 ai contadini e ai nomadi dell’Asia centrale vengono così tolti grano, bestiame e terra e spinti verso le nuove fattorie collettive.
I contadini, dinanzi alla macchina della collettivizzazione, tentano disperatamente di difendersi in ogni modo ma ogni sacca di resistenza viene rapidamente annientata. Ciò è possibile anche grazie all’utilizzo di uomini – oltre alla polizia politica – che, forgiatisi nell’asprezza della guerra civile, non esitano ad utilizzare i metodi più brutali e violenti per raggiungere lo scopo finale.
Una forma di resistenza estrema attuata dai contadini è quella dell’uccisione del proprio bestiame; piuttosto che farlo confiscare si preferisce ucciderlo e mangiarlo nel giro di pochissimo tempo. Una strategia che, però, ha un pesantissimo impatto sociale e zootecnico. Dinanzi ad una vera e propria ecatombe di animali, si decide di permettere ai colcosiani, i contadini delle fattorie collettive, di poter tenere per sé un piccolo orto e qualche bestia.
Nel 1934, dopo aver definitivamente annientato le resistenze contadine, si giunge così ad una percentuale di circa il 70% delle terre collettivizzate, sia in forma di Kolchozy sia in quella di Sovchozy. Questi ultimi, a differenza dei primi, sono vere e proprie aziende di Stato, i cui lavoratori vengono classificati come operai e non contadini; inoltre, eventuali perdite vengono coperte interamente dallo Stato.
I costi umani e sociali della collettivizzazione sono pesantissimi ma Stalin può ritenersi soddisfatto dei risultati raggiunti. Infatti, le crisi degli ammassi di grano e bestiame sono terminate, l’industria può attingere da un enorme esercito di nuovi lavoratori provenienti anche dalle campagne ed, infine, la resistenza contadina è definitivamente piegata.
Di drammatiche conseguenze umane ed economiche è la carestia che scoppia in Ucraina nel 1932-1933, che vede circa 6 milioni di morti. Propagatasi in numerose regioni, giungendo fino alla Siberia, la carestia – oltre ai terribili costi umani – frena pesantemente l’economia sovietica.
Sulle responsabilità di questa carestia si è scritto molto e, sebbene diversi storici, tra i quali Robert Conquest, la descrivano come un genocidio internazionale deliberatamente voluto da Stalin per piegare la resistenza contadina, studiosi più cauti affermano – a seguito di un’accurato studio dei documenti – che le cause principali furono i due pessimi raccolti del 1931 e del 1932 dovuti a circostanze naturali assai negative, le quali non furono riconosciute come tali dalle autorità sovietiche le quali, anzi, diffondevano dati più che alterati.
Come scrive la storica Giovanna Cigliano nel suo La Russia Contemporanea. Un profilo storico 1855-2005 (Carocci, 2012):
Per giungere a una spiegazione storica soddisfacente è probabilmente necessario […] superare la contrapposizione netta tra intenzionalità umana e catastrofe naturale. La carestia fu il prodotto di un intreccio complesso di fattori: le conseguenze della siccità e dei cattivi raccolti furono aggravate dalle campagne di confisca forzata del grano e dagli sconvolgimenti creati dalla collettivizzazione. Informati di quanto stava accadendo sin dalla primavera del 1932, Stalin e il Politbjuro vararono alcuni provvedimenti insufficienti per tamponare la crisi – invio di grano nelle regioni in crisi, sospensione temporanea delle requisizioni, riduzioni delle esportazioni di grano all’estero – dai quali però le regioni ucraine furono generalmente escluse; la situazione fu ulteriormente aggravata da dirottamento dei carichi di grano dai porti ucraini per fronteggiare l’emergenza in Estremo Oriente, dove la minacciosa presenza giapponese in Manciuria imponeva all’Unione Sovietica di mascherare le proprie debolezze […] In conclusione, sembra poco credibile che Stalin e i suoi collaboratori avessero provocato intenzionalmente la carestia per sterminare gli ucraini. E’ invece evidente che la loro responsabilità politica e morale per quanto accadde fu gravissima.
4. Stalin negli anni del Terrore. Le purghe e il sistema dei Gulag
Nella prima metà degli anni Trenta alcuni membri del Partito intendono apportare delle modifiche alla linea fin qui adottata da Stalin, soprattutto per via degli altissimi costi umani e sociali del processo di collettivizzazione. Alcuni uomini, organizzatisi intorno a Martem’jan Rjutin arrivano persino a chiedere la destituzione di Stalin, trovando invece l’espulsione dal Partito.
E’ in questo clima di contrasto e di ostilità che sopraggiunge uno degli eventi più significativi degli anni Trenta e che, storicamente, viene spiegato come la miccia che fa esplodere il periodo delle Grandi Purghe contro i vertici del Partito Comunista dell’Unione Sovietica: l’assassinio di Kirov. Sergej Kirov è un alto funzionario del Partito, membro del Politbjuro e capo del Partito a Leningrado.
Kirov inoltre era stato sostenitore di Stalin dopo la morte di Lenin e ne aveva condiviso la linea anche in occasione dell’espulsione di Trockji. Il primo dicembre del 1934, però, un giovane comunista di nome Leonid Nikolaev uccide a sangue freddo Kirov con diversi colpi d’arma da fuoco. La sua uccisione segna l’inizio del periodo del terrore e delle purghe contro le più alte schiere del PCUS.
L’omicidio di un membro del Politbjuro fa scattare l’allarme contro possibili attentati contro lo stato sovietico e potenziali infiltrazioni, permettendo così a Stalin di procedere con le epurazioni dei quadri del Partito. In pochissimo tempo, Kamenev, Zinov’ev e molti altri importanti funzionari del PCUS vengono arrestati, accusati di tradimento e resi bersaglio dell’NKVD, la polizia segreta sovietica che, nel 1934, aveva assorbito anche l’OGPU (l’Amministrazione Politica Unificata dello Stato). Nel giro di qualche anno, e raggiungendo il suo apice nel 1937-1938, la repressione colpisce tutta l’elite del PCUS, compresi coloro che avevano fatto la rivoluzione nel 1917, e numerosi dissidenti politici.

Negli stessi anni inizia a prendere forma anche il nuovo sistema penale sovietico caratterizzato – tra le altre cose – dagli ormai noti Gulag. Quando si parla di sistema penale sovietico è bene fare alcune precisazioni, in quanto si tende a pensare solamente all’universo dei gulag, come se essi inglobassero qualsiasi dissidente o “nemico del popolo”.
Gli storici J. Arch Getty, Gàbor Rittersporn e Viktor Zemskov – in un lavoro intitolato “Victims of the Soviet Penal System in the Pre-War Years: A First Approach on the Basis of Archival Evidence” e pubblicato nell’ottobre 1993 sulla American Historical Review – hanno esposto chiaramente la composizione e suddivisione del sistema penale gestito dalla NKVD (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni). Le componenti di questo complesso sistema erano: prigioni, campi di lavoro e colonie di lavoro oltre a vari insediamenti speciali e a regimi di supervisione senza custodia.
Generalmente, una persona arrestata veniva mandata in carcere in attesa del verdetto di colpevolezza o innocenza. Dopodiché, la maggior parte dei colpevoli veniva mandato in uno dei campi o colonie di lavoro per scontare la loro pena.
Successivamente, troviamo il sistema dei campi di lavoro. Queste erano realtà molto dure, nei quali si potevano trovare condannati per crimini politici, criminali comuni e chiunque avesse ricevuto una condanna superiore ai tre anni. I tre studiosi riportano che nel marzo 1940, alla fine delle grandi purghe, ci fossero 53 campi di lavoro appartenenti al sistema dei gulag e che vi fossero rinchiusi circa 1,3 milioni di persone.
Dopo i campi di lavoro venivano le colonie di lavoro, generalmente progettate per detenere persone condannate a pene più brevi. I prigionieri nelle colonie di lavoro venivano utilizzati per aumentare la produzione e far crescere l’economia sovietica. Nel 1940 si stima che vi fossero circa 315.000 detenuti.
Oltre ai campi e alle colonie di lavoro, vi erano i cosiddetti “special settlements” o insediamenti speciali, nei quali si trovavano le famiglie dei kulaki, deportati in questi campi negli anni della collettivizzazione delle terre.
Infine, stando alla ricostruzione dei tre storici che abbiamo citato, vi era il sistema del lavoro correttivo non sorvegliato (originale non-custodial).
Nel 1935 le condanne al lavoro correttivo costituivano circa il 48% di tutte le sentenze emesse dalle corti e crescevano mano a mano che le leggi riguardanti la disciplina sul lavoro mutavano con l’avvicinarsi della guerra. La condanna al lavoro correttivo consisteva, in sostanza, nel continuare a lavorare dove il condannato era occupato ma con una riduzione del salario del 25% oltre alla perdita, per la durata della condanna, di pensione, vacanze e altri benefici. Quasi due milioni di persone furono condannate a scontare la pena tramite lavori correttivi nel 1940 ma nessuno di loro, scrivono ancora i tre studiosi, ha subito “privazioni alla libertà”.
Sebbene la vulgata comune intenda dipingere tutti i detenuti nel sistema penale sovietico come nemici di Stalin o condannati per ragioni politiche, i dati pubblicati nello studio di Getty, Rittersporn e Zemskov e raccolti tra i documenti del Secretariat of Gulag (ora parte degli Archivi di Stato della Federazione Russa), mostra come
Dal 1934 al 1953, una minoranza dei detenuti nei campi di lavoro era stata formalmente condannata per crimini contro-rivoluzionari […] Circa l’11% dei più di 5,3 milioni di condannati dalle corti o da corpi extra-giudiziali tra il 1933 e il 1935 rappresentavano casi del NKVD dei quali la gran parte non era da considerarsi [per crimini, n.d.t.] politici.
Riguardo i numeri dei detenuti nel sistema concentrazionario dei gulag, a differenza delle cifre pubblicate da Conquest, Shatunovskaia e Ovseenko – che vanno dagli 8 milioni fino a raggiungere quasi i 20 milioni di prigionieri annui – i dati raccolti da Getty, Rittersporn e Zemskov ci dicono che non si sono mai superati i 3,5 milioni negli anni precedenti al conflitto e che, nel periodo delle grandi purghe, il totale della popolazione detenuta fosse di circa 3 milioni.
Giunti a conclusione del loro lavoro, i tre storici concludono come segue:
La frequente affermazione che la maggior parte dei prigionieri fossero [prigionieri, n.d.t.] politici sembra non essere vera […] Il sistema penale stalinista contava moltissimi criminali comuni che stavano scontando pene relativamente brevi e molti di loro venivano liberati ogni anno e rimpiazzati con nuovi condannati. Per costoro esso era in tutto e per tutto un sistema penale: un sistema particolarmente duro, crudele e arbitrario, ad essere onesti, ma non necessariamente un biglietto di sola andata per la maggioranza dei detenuti. E’ importante [infine, n.d.t.] sottolineare tre principali caratteristiche [del sistema penale stalinista, n.d.t.]: Primo, l’uso della pena di morte tra le misure di difesa sociale, distingueva il sistema penale sovietico dagli altri, sebbene il numero delle esecuzioni subì un consistente crollo dopo il 1937-1938; secondo, il sistema di detenzione nella seconda metà degli anni Trenta fu diretto contro i membri istruiti dell’elite; terzo, aveva chiaramente uno scopo politico e fu utilizzato dal regime per silenziare oppositori reali o immaginari.
Nell’universo dei gulag, lo scopo era quello di stimolare tra i detenuti “l’emulazione socialista”, rieducarli e trasformarli in artefici della costruzione del paese. Scrive Anne Applebaum in proposito:
Nei campi, come nel mondo esterno, continuavano a svolgersi le “competizioni socialiste”, gare di lavoro in cui i detenuti si misuravano su chi riusciva a produrre di più. Inoltre festeggiavano i lavoratori d’assalto per la loro presunta capacità di triplicare o quadruplicare le norme.
Ed inoltre, anche durante gli anni della guerra:
Solo tra le carte dell’amministrazione del Gulag, ci sono centinaia e centinaia di documenti attestanti l’intensa attività della Sezione educativo-culturale. Nei primi tre mesi del 1943, per esempio, nel pieno della guerra, tra i campi e Mosca avveniva un frenetico scambio di telegrammi, perché i comandanti locali cercavano con tutti i mezzi di procurarsi degli strumenti musicali per i detenuti. Intanto i campi organizzarono una gara sul tema «la Grande guerra patriottica del popolo sovietico contro gli occupanti tedeschi fascisti»: vi parteciparono cinquanta pittori e otto scultori detenuti.
Ecco la principale, sostanziale, profonda differenza storica tra il sistema, seppur duro e brutale, dei gulag e il campo di concentramento nazi-fascista. Da un lato, un sistema che, con tutte le criticità, le crudeltà e le terribili conseguenze che ha avuto, ha tentato di reinserire i condannati nel sistema sociale e produttivo sovietico, rendendoli parte integrante dello sforzo collettivo nella costruzione dello stato; dall’altro, un sistema volto allo sterminio desiderato, pianificato e giustificato su base razziale degli Untermensch (sub-umani, popoli inferiori).
Scrive in merito Domenico Losurdo nel suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera:
Il sistema carcerario riproduce i rapporti della società che lo esprime. In Urss, all’interno e all’esterno del Gulag, vediamo fondamentalmente all’opera una dittatura sviluppista che cerca di mobilitare e “rieducare” tutte Ie forze in funzione del superamento della secolare arretratezza, reso tanto più urgente dall’approssimarsi di una guerra che, per dichiarazione esplicita del Mein Kampf, vuole essere di schiavizzazione e di annientamento: in questo quadro il terrore si intreccia con l’emancipazione di nazionalità oppresse nonché con una forte mobilità sociale e con l’accesso all’istruzione, alla cultura e persino a posti di responsabilità e di direzione di strati sociali sino a quel momento del tutto emarginati. L’assillo produttivistico e pedagogico e la connessa mobilità si fanno avvertire nel bene e nel male, persino all’interno del Gulag. L’universo concentrazionario nazista rispecchia, invece, la gerarchia su base razziale che caratterizza lo Stato razziale già esistente e l’Impero razziale da edificare.
A conclusione di questo paragrafo, è bene chiarire anche un altro aspetto, ossia quello che vede, nella vulgata dominante, Stalin come unico artefice degli ordini di incarcerazione. Durante gli anni dell’industrializzazione viene a crearsi un nuovo modello di organizzazione del lavoro in fabbrica. Si iniziano ad inserire limitati processi di democratizzazione che vedono gli operai impegnati in prima linea per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per la riduzione degli incidenti.
E’ quanto emerge dal lavoro di Wendy Goldman Terror and Democracy in the Age of Stalin: The Social Dynamics of Repression, nel quale viene illustrato come ci sia stata anche una spinta dal basso nell’attuare la repressione verso funzionari corrotti e i “nemici del popolo”. Certamente, il clima di diffidenza e di caccia alle quinte colonne in un periodo dove i venti di guerra iniziano ad alzarsi, tende ad alimentare una caccia alle streghe che, il più delle volte, viene frenata proprio da Stalin e dai suoi più stretti collaboratori. L’isteria è reale come lo sono i venti di guerra che, il 1 settembre 1939, portano il mondo nell’abisso del secondo conflitto mondiale.
5. Stalin dal Patto Molotov-Ribbentrop alla Grande Guerra Patriottica
Con l’avvicinarsi della fine del decennio, i venti di guerra soffiano sempre più forti. Il Terzo Reich di Adolf Hitler non fa mistero delle sue volontà di potenza, delle sue mire espansionistiche. Le potenze occidentali, dal canto loro, praticano una politica di appeasement – come viene chiamata la politica estera inglese guidata da Chamberlain – rinunciando ad ostacolare seriamente i desideri imperialistici del Fuhrer.
In Austria, nel febbraio del 1934 sale al potere il cancelliere Engelbert Dollfuss il quale, sebbene sia un fervente antisocialista e reazionario, respinge fermamente le pretese di annessione del suo paese alla Germania nazista. Così, Hitler dispiega nel paese austriaco – con l’aiuto dei nazisti locali – una formazione paramilitare che risponde direttamente al Fuhrer. Una manovra che – dopo la morte di Dollfuss – prepara l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich nella primavera del 1938.
Non soddisfatto, pochi mesi dopo Hitler punta anche alla regione dei sudeti in Cecoslovacchia, territori nei quali risiedono numerosi cittadini di origine tedesca. Per evitare che l’annessione dei sudeti scateni un’escalation verso un conflitto bellico, nel settembre 1938 viene indetta la Conferenza di Monaco nella quale, però, Hitler riesce ad ottenere il lasciapassare per annettere anche tali territori.
In quel momento c’è solamente un paese che sta tentando di organizzare un’alleanza per fermare l’espansionismo tedesco: è l’Unione Sovietica di Stalin. Ma sia la Francia che soprattutto il Regno Unito sono assai reticenti ad intavolare una trattativa per un accordo di difesa con l’URSS.
I conservatori inglesi, infatti, da un lato temono che Hitler stia minando il loro status di potenza globale e cercano di rallentarlo, mentre dall’altro vedono il Terzo Reich, per utilizzare le parole del ministro degli Esteri inglese Lord Halifax in occasione del suo primo incontro con Hitler nel novembre del 1937, come “un baluardo dell’Occidente contro il bolscevismo”. Pertanto, la visione che gli inglesi hanno di Hitler non è così terribile e non sembra destare preoccupazione la violenta e brutale repressione contro i comunisti tedeschi che il Terzo Reich sta mandando nei campi di concentramento.
E’ solamente nella primavera del 1939 che inglesi e francesi decidono che probabilmente intavolare un’accordo di difesa con Stalin potrebbe risultare utile. Inizia così un lungo ed estenuante scambio di telegrammi tra le tre potenze che però finisce in un nulla di fatto per via delle reticenze anglo-francesi. Infatti, alla proposta di Stalin dell’agosto del 1939 di costituire un’alleanza anti-nazista che avrebbe permesso ai sovietici di mandare oltre due milioni di soldati al confine con la Germania in caso di attacco di Hitler, gli anglo-francesi non risponderanno mai.
Ma non è solamente a causa della reticenza di inglesi e francesi che Stalin decide, il 23 agosto 1939, di firmare il Patto Molotov-Ribbentrop con la Germania di Hitler. Dal 1932 e in particolar modo nei giorni dei negoziati con Francia e Regno Unito, l’Unione Sovietica sta combattendo una guerra non dichiarata contro il Giappone al confine tra la Manciuria e la Mongolia, nel nord-est dell’Asia. E’ in questo contesto che Stalin, impegnato al confine nord-orientale contro i giapponesi, decide che è di vitale importanza garantirsi la sicurezza sul confine occidentale. E la sicurezza la può garantire solamente un patto di non aggressione con Hitler.
Il patto tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista non nasce perciò, a differenza della vulgata che spesso si sente, dall’eguaglianza tra comunismo e nazismo, come vorrebbe la teoria dei totalitarismi, bensì dalla vitale necessità di sicurezza da parte di Stalin almeno sul fronte occidentale. Un patto che, nel mondo comunista e antifascista, è vissuto come un vero e proprio terremoto.
E’ proprio in questa occasione, come avvenne per Brest-Litovsk, che la politica estera sovietica si dimostra ancora una volta improntata alla sicurezza, alla difesa dei propri confini. Una scelta che, seppur pesantissima sul piano dell’immagine, garantisce a Stalin, oltre alla difesa dei confini occidentali, il tempo di organizzare ed accrescere la potenza militare sovietica la quale, qualche anno dopo, si rileva determinante nel capovolgere le sorti della seconda guerra mondiale.

L’invasione della Polonia materializza quelle che fino a poco tempo prima erano solamente paure: un nuovo conflitto mondiale è appena iniziato. Stalin, garantita la momentanea sicurezza sul confine occidentale, è comunque convinto che Adolf Hitler lo attaccherà ma non nel breve periodo.
Nel frattempo, il massiccio riarmo – frutto dell’industrializzazione avviata nel decennio precedente – procede spedito. A differenza di quanto verrà successivamente denunciato da Chruscev nell’ormai famoso Rapporto del 1956, Stalin guida un processo di riarmo di dimensioni gigantesche e, su questo piano, è tutto fuorché impreparato. Nel 1941 la spesa per la difesa ammonta al 43,4% con una produzione annua – alla vigilia dell’Operazione Barbarossa – di 2.700 aerei moderni e 4.300 carri armati, risultato delle nuove fabbriche recentemente costruite.
L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica è un duro colpo per Stalin. A differenza di ciò che comunemente si è soliti sentir dire in merito ai giorni immediatamente successivi all’avvio dell’Operazione Barbarossa, Domenico Losurdo fornisce un quadro che vede uno Stalin lungi dall’isolarsi e non ascoltare nessuno:
Per quanto scosso, il giorno dell’attacco Stalin indisse una riunione di undici ore con capi di partito, di governo e militari, e nei giorni successivi fece lo stesso. Ma ora abbiamo a disposizione il registro dei visitatori dell’ufficio di Stalin al Cremlino, scoperto agli inizi degli anni novanta: risulta che sin dalle ore immediatamente successive all’aggressione il leader sovietico si impegna in una fittissima rete di incontri e iniziative per organizzare la resistenza. Sono giorni e notti caratterizzati da un’«attività […] estenuante», ma ordinata.
Sebbene non vi sia una lettura univoca sul suo comportamento nelle ore successive all’attacco tedesco, il 30 giugno Stalin riunisce Molotov, Malenkov, Berjia e Vorosilov per dar vita al Comitato statale di difesa, presieduto da lui in persona. Inoltre, Stalin è ora anche a capo dell’Alto comando militare. Pochi giorni dopo, il leader sovietico pronuncia un discorso dalla notevole potenza emotiva ed evocativa: ricordando la campagna di Russia del 1812, quando il paese fu invaso dalle truppe francesi, Stalin, con un linguaggio patriottico e di unità dei popoli slavi, ordina di fare terra bruciata attorno al nemico, di organizzare la resistenza e combattere fino alla morte. Inizia così la Grande Guerra Patriottica.
L’avanzata tedesca è impressionante. E’ una vera e propria guerra di annientamento quella che si sta consumando nei territori occupati dalla Wermacht. Il fronte orientale si trasforma in un teatro di barbarie, di brutale violenza e sterminio delle popolazioni locali. L’Armata Rossa sembra incapace di contrattaccare con successo la potenza di fuoco tedesca. Sino a Stalingrado.
La nuova campagna di Russia sta costando ai tedeschi molto in termini di rifornimenti e l’inverno è alle porte. Fallita la conquista di Mosca nel dicembre del 1941, le truppe del Terzo Reich si dirigono verso Stalingrado, la città che porta direttamente nella regione del Caucaso. E’ qui che i tedeschi intendono arrivare per ottenere le ampie riserve petrolifere presenti nella zona. L’attacco tedesco, che tra gli altri obiettivi ha la regione del Don e il bacino del Volga, viene denominato Operazione Blu. Così, nel luglio 1942, inizia l’estenuante ed eroica battaglia di Stalingrado.

Una battaglia che viene combattuta con spirito eroico da parte dei sovietici; strada per strada, fabbrica per fabbrica, palazzo per palazzo, le truppe dell’Armata Rossa resistono ai pesantissimi attacchi tedeschi. Il generale Zukov, il principale stratega della vittoria sovietica a Stalingrado, prepara le sue nove armate all’Operazione Urano, la quale accerchia e blocca i rifornimenti delle truppe di von Paulus.
Con l’Operazione Piccolo Saturno, Zukov riesce inoltre ad isolare anche le armate romene e italiane, occupando gli aeroporti e tagliando ogni possibile linea di rifornimento. La battaglia per le strade intanto prosegue e la resistenza sovietica diviene sempre più indistruttibile. All’inizio di febbraio 1943 l’assedio di Stalingrado è spezzato.
L’Armata Rossa, dopo aver sopportato un costo umano elevatissimo, ha vinto la battaglia fondamentale della seconda guerra mondiale. D’ora in avanti, i sovietici iniziano una campagna di annientamento dell’esercito tedesco, frantumando ogni resistenza di Hitler ed arrivando nel maggio 1945 ad issare la bandiera rossa sul Reichstag.
6. Stalin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla morte
Terminata la guerra in Europa, Stalin l’8 agosto dichiara guerra ad un Giappone ormai sconfitto dalle bombe atomiche di Hiroshiima e Nagasaki. La seconda guerra mondiale, ormai giunta finalmente al tramonto, vede i rapporti di forza emersi dai campi di battaglia a favore dell’Unione Sovietica.
Gli americani perdono 415.000 soldati, gli inglesi 380.00 mentre i sovietici contano oltre 20 milioni di morti tra soldati e civili. L’Armata Rossa guidata da Stalin aveva sopportato la gran parte del devastante impatto delle forze del Terzo Reich e, da Teheran a Jalta, questi rapporti di forza entrano prepotentemente nei negoziati.
La vittoria sul nazifascismo viene celebrata da Stalin con un’immensa parata sulla Piazza Rossa la mattina del 24 giugno 1945. Così la descrive lo storico Vladislav Zubok nel suo Inside the Kremlin’s cold war: from Stalin to Khrushchev:
Lungo tutta la Piazza Rossa e la zona circostante, truppe vittoriose in uniformi decorate, con stendardi nazisti catturati, in formazioni e nelle torrette dei carri armati, tutte perfettamente immobili, aspettavano un segnale per marciare. Migliaia di persone si sono affollate nelle file degli ospiti. All’improvviso, un fragoroso applauso si è diffuso tra la folla mentre il Comitato di Difesa dello Stato al potere è emerso dal Cremlino e ha iniziato a salire le scale del Mausoleo di Lenin. Era questo gruppo che aveva sostituito il Politbjuro comunista durante i quattro anni della guerra più devastante nella storia del mondo. A guidare gli altri, camminando a una certa distanza da loro, c’era Iosif Stalin, il capo dell’URSS.
Dopo la Conferenza di Teheran del 1943, i tre grandi – Stalin, Roosevelt e Churchill – si rincontrano a Jalta. Erroneamente si tende a credere che in tale occasione le tre grandi potenze si siano accordate per spartirsi il mondo ma nelle pagine relative agli accordi non si trova nulla di tutto ciò. Nessuna spartizione del mondo in aree di influenza è stata decisa a Jalta.
In questa occasione, invece, Stalin, Roosevelt e Churchill tentano di trovare un equilibrio sulla questione tedesca, sulla Polonia, le future Nazioni Unite e la guerra contro il Giappone. La questione tedesca, che rimarrà irrisolta fino all’unificazione nell’ottobre del 1991, è la più importante. Pertanto a Jalta, tra le altre questioni, ci si accorda sulla suddivisione della Germania in 4 zone di occupazione tra sovietici, americani, inglesi e francesi.
Nelle discussioni di Jalta, Stalin solleva un’altra questione che ai sovietici, dato l’enorme sforzo bellico e l’immane prezzo pagato, interessa particolarmente: le riparazioni di guerra. A Jalta non si arriva a definire l’ammontare delle riparazioni, anche perché Roosevelt e Churchill sono d’accordo sul fatto che la Germania debba pagare ma a patto che ciò non mini l’economia tedesca e quella europea. Pertanto, nemmeno su tale questione si arriva ad una conclusione ma ci si accorda sul principio che la Germania pagherà. Ma il “che fare” dello stato tedesco viene rinviato all’incontro successivo a Potsdam, proprio in Germania.

Alla metà di luglio del 1945, quando prende il via la Conferenza di Potsdam, il quadro politico è profondamente cambiato: Roosevelt muore nel mese di aprile e il suo posto viene preso da Harry Truman; Churchill, tornato in patria, perde le elezioni a favore del laburista Clement Attlee. Tutto il rapporto di fiducia che si era venuto duramente a creare tra i tre leader inizia a deteriorarsi irrimediabilmente.
Stalin è l’unico dei tre grandi rimasto. Nonostante le difficoltà a Potsdam viene confermata la mutilazione della Germania e la creazione delle zone di occupazione. Inoltre, ci si accorda sulla creazione di una Conferenza dei ministri degli esteri il cui scopo è quello di elaborare i trattati di pace. Una soluzione che dovrebbe semplificare i lavori mentre, in realtà, li complica terribilmente.
Infine, a Potsdam Truman informa Stalin che la bomba atomica – alla cui creazione stava lavorando da anni il Progetto Manhattan – è pronta e verrà sganciata sul Giappone. Stalin, che è già a conoscenza dei progressi atomici degli americani grazie alle spie sovietiche all’interno del Progetto Manhattan, non sembra quindi per nulla intimorito dalla notizia.
All’inizio del 1946, il clima internazionale è notevolmente mutato. In Estremo Oriente iniziano a manifestarsi delle tensioni in Cina e in Corea; particolarmente in quest’ultima le parti in conflitto – comunisti e nazionalisti – sono sostenute rispettivamente da Unione Sovietica e Stati Uniti. A marzo, nel famoso discorso di Fullton, Winston Churchill parla di una cortina di ferro che è calata da Stettino a Trieste e che divide l’Europa in due.
Non molto tempo dopo, il diplomatico e consulente del Dipartimento di Stato americano George Kennan, nel suo famoso Lungo telegramma traccia un’analisi dell’Unione Sovietica come votata all’espansionismo e, pertanto, delinea una politica del containment per fermare l’avanzata comunista. Da questa lettura dell’URSS, il presidente statunitese delinea la “Dottrina Truman“, ovvero la politica estera americana volta a salvaguardare il mondo dall’espansionismo sovietico.
E’ questo il contenuto del discorso del presidente al Congresso nel marzo 1947 quando – proprio per prevenire un’avanzata comunista in Grecia e Turchia – chiede lo stanziamento di 400 milioni di dollari per aiutare i due paesi ed impedire che cadano sotto l’influenza di Mosca.
In Europa orientale, Stalin intende procedere alla sovietizzazione dei paesi ora sotto la sfera di influenza dell’URSS. Sui loro territori vengono allestiti dei campi dove rinchiudere militari tedeschi, fascisti, collaborazionisti e le borghesie nazionali. Contemporaneamente, Stalin intende portare a compimento le riforme agrarie e consentire un certo pluralismo politico che viene garantito sino al 1948, quando i paesi sotto il controllo di Mosca vengono trasformati in regimi monopartitici.
Ma c’è un paese all’interno del blocco orientale con il quale Stalin consuma la rottura: è la Jugoslavia di Tito. Leader della resistenza al nazifascismo, il maresciallo Tito è assai riluttante ad accettare la tutela e il controllo sovietico. La differenza che sussiste tra la Jugoslavia di Tito – e che permette a quest’ultima di arrivare alla rottura con Stalin – e i paesi dell’Europa orientale ora sotto il controllo di Mosca la fa la guerra di liberazione. Mentre nell’Europa orientale era stata l’Armata Rossa a liberare i paesi dall’occupazione nazista, in Jugoslavia la resistenza era stata combattuta principalmente dai partigiani guidati da Tito e pertanto la liberazione del paese era stata opera di questi ultimi e non dell’Armata Rossa.
Tra il 1948 e il 1949 si consuma la definitiva rottura tra Unione Sovietica e Stati Uniti. In Germania, questi ultimi intendono procedere alla sua ricostruzione in funzione anti-sovietica e nel dicembre vengono unificate le zone di occupazione di Stati Uniti e Gran Bretagna. Stalin, dal canto suo, risponde con il blocco di Berlino, una delle prime e più gravi crisi della Guerra Fredda, dalla quale si esce grazie al ponte aereo organizzato dagli anglo-americani per rifornire la popolazione nella parte sovietica. Nell’autunno del 1949 la questione tedesca peggiora definitivamente: nella parte occidentale viene creata la Repubblica Federale Tedesca (RFT) alla quale i sovietici rispondono con la creazione della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). La Germania è definitivamente divisa in due.
Contemporaneamente, in Cina, in un contesto di guerra civile sin dal 1946, i nazionalisti di Chiang Kai-shek vengono costretti alla fuga a Taiwan dai comunisti guidati da Mao Tse-Tung i quali, vittoriosi, proclamano la nascita della Repubblica Popolare Cinese, subito riconosciuta da Stalin.
Sul fronte interno, Stalin deve riprendere il controllo della società che, durante gli anni di guerra, ha visto in vastissimi territori dissolvere le strutture del Partito. Scioglie il Comitato di difesa dello Stato, ristabilisce il controllo del PCUS sulle forze armate e quello dei commissari politici sui comportamenti dei militari.
Inoltre, Stalin affronta immediatamente la questione del rientro dei cittadini sovietici che si trovano nelle zone sotto controllo alleato, avviando trasferimenti forzati di colcosiani, nazionalisti ucraini e dei paesi baltici, collaborazionisti dei nazisti e di altre popolazioni presenti nella zona tra il Mar Nero e le regioni transcaucasiche.
Il sistema dei gulag inizia ad allargarsi di nuovo, anche a causa della necessità di estrazione dell’uranio con il quale costruire l’ordigno atomico, fatto esplodere nell’agosto del 1949, a soliti 4 anni da quello statunitense.
Con il quarto piano quinquiennale (1946-1950) la produzione dei beni di consumo riprende a crescere dopo gli anni di guerra, sebbene non raggiunga mai livelli elevati. La crescita economica viene anche favorita dagli accordi commerciali favorevoli imposti dall’URSS ai suoi paesi satelliti in Europa orientale.
L’acuirsi dei rapporti con l’Occidente e la crisi sempre più forte con gli Stati Uniti genera in Stalin una svolta ideologica: viene ripreso un lessico nazional-patriottico e l’Unione Sovietica viene descritta come una fortezza assediata dalle potenze borghesi e capitalistiche. La lotta all’occidentalismo e al cosmopolitismo borghese colpisce anche il mondo culturale ed artistico così come quello della scienza.

7. Ultimi anni e morte di Stalin
Gli ultimi anni di Stalin sono caratterizzati da una diffidenza crescente nei confronti degli uomini che lo circondano, compresi i suoi medici personali. La morte di Ždanov, che aveva guidato la resistenza contro i nazisti a Leningrado, scatena tra il 1948 e il 1949 una rimozione totale dei vertici del Partito a Leningrado e tolto ogni incarico agli uomini vicini a Ždanov. In questi anni nessuno sembra essere certo di mantenere la propria posizione di potere. Nemmeno Molotov, rimosso da ministro degli Esteri, e Mikojan, anche lui allontanato da ministro del Commercio estero.
In un contesto di vera e propria piazza pulita dei principali vertici politici, solamente Malenkov sembrava veder accrescere il suo ruolo e candidarsi a successore di Stalin. Non a caso è lui che, in occasione del XIX Congresso del PCUS nell’ottobre 1952, tiene la relazione principale al posto di Stalin. Infine, una novità di questi anni è la crescente questione ebraica. Alimentata dalla nascita del nuovo stato di Israele, e dalla presa che quest’ultimo può esercitare sugli ebrei sovietici, questi ultimi iniziano a subire discriminazioni e persecuzioni.
All’inizio di marzo 1953, Stalin viene colpito da una emorragia cerebrale, come confermato dal Centro medico del Cremlino, che nel giro di pochissimo tempo lo porta alla morte. Le ultime ore di Stalin non sono ancora chiare. Ufficialmente, la notizia della morte del leader sovietico viene data il 6 marzo ma l’ora e il giorno effettivo del suo decesso rimangono ancora sconosciuti in quanto le testimonianze non forniscono un quadro chiaro.
I suoi funerali – ai quali partecipano anche Pietro Nenni e Palmiro Togliatti – sono tra i più solenni e imponenti mai visti. Per tre giorni centinaia di migliaia di persone si accingono a rendere omaggio al loro leader, colui che tra – tra luci ed ombre – aveva portato l’Unione Sovietica tra le più grandi potenze del mondo.
Prima che il Rapporto Chruscev arrivasse a demolire la figura di Stalin – non senza dubbi e criticità – oltre al mondo comunista anche gran parte dei leader occidentali e del mondo liberale tennero ad omaggiare il leader sovietico:
Quest’opera costò sacrifici inenarrabili e fu condotta con un rigore che non conobbe pietà. La libertà, il rispetto della persona, la tolleranza, la carità furono parole vane e furono trattate come cose morte. Solo durante la Seconda guerra mondiale si vide quanto quell’opera avesse lavorato in profondità. E’ storia di ieri. Ma quando suonò l’ora della prova suprema l’uomo si mostrò pari a se stesso e ai grandi compiti che aveva cercato, e che la storia gli aveva assegnato.
– Il Corriere della Sera, 6 marzo 1953Quando vedo che mentre Hitler e Mussolini perseguitavano degli uomini per la loro razza, e inventavano quella spaventosa legislazione antiebraica che conosciamo, e vedo contemporaneamente i russi composti di 160 razze cercare la fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa, questo tentativo, questo sforzo verso l’unificazione del consorzio umano, lasciatemi dire: questo è cristiano, questo è eminentemente universalistico nel senso del cattolicismo.
– Alcide De GasperiLo trovavo meglio informato di Roosevelt e piu realistico di Churchill, in qualche modo il piu efficiente dei leader di guerra.
– Averell Harriman, ambasciatore americano a Mosca
Anche Winston Churchill, che di certo non lo si può tacciare di simpatie filo-sovietiche, riconobbe la grandezza di Stalin. Isaac Deutscher, eminente storico polacco e naturalizzato britannico, ha scritto:
Nel giro di tre decenni, il volto dell’Unione Sovietica si è completamente trasformato. Il nocciolo dell’azione storica dello stalinismo è questo: esso ha trovato la Russia che lavorava la terra con aratri di legno e la lascia padrona della pila atomica. Ha innalzato la Russia al grado di seconda potenza industriale del mondo e non si è trattato soltanto di una questione di puro e semplice progresso materiale e di organizzazione. Un risultato simile non si sarebbe potuto ottenere senza una vasta rivoluzione culturale nel corso della quale si è mandato a scuola un paese intero per impartirgli una istruzione estensiva.
Nel mentre le ombre di crisi iniziano a calare sull’alleanza vincitrice della seconda guerra mondiale e le prime equiparazioni tra comunismo e nazismo iniziano a serpeggiare in Occidente, l’illustre scrittore tedesco e Premio Nobel per la letteratura Thomas Mann ammonisce:
Collocare sul medesimo piano morale il comunismo russo e il nazifascismo, in quanto entrambi sarebbero totalitari, nel migliore dei casi è superficialità, nel peggiore è fascismo. Chi insiste su questa equiparazione può ben ritenersi un democratico, in verità e nel fondo del cuore è in realtà già fascista, e di certo solo in modo apparente e insincero combatterà il fascismo, mentre riserverà tutto il suo odio al comunismo.
8. Conclusioni sulla vita di Iosif Stalin
In questo lungo articolo si è tentato di tracciare una biografia il quanto più possibile oggettiva e concisa di Iosif Stalin. Con l’inizio della Guerra Fredda e la pubblicazione del Rapporto Chruscev, due immagini contrapposte del leader sovietico si sono scontrate: lo Stalin duro, violento ma artefice dell’industrializzazione, del progresso tecnologico e scientifico e dell’alfabetizzazione di un paese rurale ed arretrato, il leader capace di guidare l’Armata Rossa alla vittoria contro la macchina da guerra del Terzo Reich e di condurre l’Unione Sovietica tra le più grandi potenze del mondo; dall’altra, un leader sanguinario, mediocre, quasi grottesco e paranoico, responsabile in prima persona di ogni nefandezza e violenza.
Non c’è dubbio che lo storico non debba cadere nell’elogio incondizionato di una personalità storica, seppur di grande importanza, come Stalin come non deve cadere nel facile dileggio e nel – quantomeno – sospetto e grottesco ridimensionamento adoperato nel periodo della de-stalinizzazione. Come scrive Domenico Losurdo:
Il contrasto radicale fra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte.
In conclusione, se si vuole riassumere brevemente ciò che Stalin è stato, le parole di Aldo Natoli ci vengono in aiuto:
Di fronte alla miseria e all’oppressione nella Russia zarista, feudale, capitalistica, Stalin fu un rivoluzionario convinto, ribelle indomabile; e per più di quarant’anni combattè senza respiro, certo di muoversi sulle vie inesplorate del socialismo e del comunismo. Nella spietatezza estrema della guerra civile, alla violenza oppose, immediata e centuplicata, la violenza. Più tardi, con lunga attesa e fortunata astuzia, costruì e montò pezzo per pezzo la macchina strapotente del suo potere, la massima concentrazione di violenza per la costruzione del suo socialismo. Voleva cancellare l’arretratezza, l’inferiorità, l’abiezione della vecchia Russia; raggiungere e superare i paesi capitalistici; sviluppare nel più breve tempo possibile, a ritmi folli, l’industria perché nell’industria si fondevano i miti del progresso e dell’abbondanza. Volta a volta seppe indurre ed esaltare una missione nuova, storica e nazionale, dei popoli della vecchia Russia. Virtù e ferocia di questo Principe si aguzzarono nel ferro e nel fuoco di una rivoluzione industriale che ricapitolò in un decennio i percorsi secolari delle società dell’Occidente […] Il socialismo di Stalin era il rozzo coagulo di venti anni di lotta illegale e ribelle sotto il dispotismo e nell’arretratezza della vecchia Russia. Alla violenza e oppressione dello Stato zarista egli contrappose frontalmente la violenza proletaria: all’ignoranza e all’arretratezza, il mito della scienza e della tecnica, che si incarnò nell’industria […] Stalin ha creato senza dubbio le basi della superpotenza russa: questo rimarrà, nel bene e nel male, il segno da lui lasciato nella storia.
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- Domenico Losurdo – Stalin. Storia e critica di una leggenda nera
- Andrea Graziosi – L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945
- Giovanna Cigliano – La Russia contemporanea. Un profilo storico 1855-2005
- Anna Louise Strong – L’era di Stalin
- Wendy Goldman – Terror and Democracy in the Age of Stalin: The Social Dynamics of Repression
- Vladislav Zubok – Inside the Kremlin’s Cold War: From Stalin to Krushchev