CONTENUTO
I policy maker e gli investitori hanno sempre gli occhi puntati sul trend dello spread, ovvero del gap di rendimento tra i Buoni del Tesoro Pluriennali (BTP) aventi una scadenza pari a 10 anni ed i titoli statali italiani rispetto a quelli di un Paese benchmark. Nel caso italiano si suole valutare il rischio finanziario facendo una comparazione con il Bund tedesco, ovvero i titoli statali emessi dalla “locomotiva” dell’Europa analoghi ai BTP emessi dal Tesoro italiano.
La comparazione tra BTP italiani e Bund tedesco permette di comprendere e di valutare il sentiment dei risparmiatori di un determinato Sistema-Paese. Fatta questa opportuna precisazione della definizione di spread quale termine finanziario e piuttosto ricorrente nell’attuale scenario macroeconomico, facciamo un “salto” nel passato e poniamoci una domanda di ricerca: “Quale era l’andamento dello spread nell’Italia preunitaria?”. Per rispondere a questo quesito è necessario analizzare le fonti storiografiche disponibili, che comprendono carteggi, memoriali, rielaborazioni di dati presenti negli archivi storici.
Finanza pubblica nell’Antico Regime: una disamina degli Stati preunitari
Al centro della ricerca storico-economica c’è il binomio Stato-finanza pubblica: gli studiosi di storia economica hanno analizzato i molteplici nessi di causalità intercorrenti tra l’azione delle istituzioni pubbliche ed una pluralità di eventi di natura economica. La finanza pubblica ha correlazioni dirette ed indirette con il trend dei tassi di interesse, la circolazione della moneta, con il prelievo fiscale (imposte dirette ed indirette), la formazione del risparmio e la promozione dell’integrazione dei mercati finanziari.
Debito pubblico e fiscalità nel Regno di Napoli dal XVI al XIX secolo
Nella seconda metà del XVI secolo nel Viceregno di Napoli il governo, grazie all’imposizione del “focatico” ed alla cessione in appalto di una parte consistente delle imposte indirette, poteva contare su rendite annue relativamente certe che, capitalizzate ai vigenti tassi di interesse, venivano cedute a tempo indeterminato ad una vasta platea di risparmiatori. La realizzazione di un mercato di valori mobiliari, conseguente all’emissione di obbligazioni di stato ante litteram, consentiva la formazione di un consistente debito pubblico, indispensabile alla Corona per fronteggiare le necessità di spesa in un periodo caratterizzato da onerose e lunghe operazioni militare volte a liberare il Mare Nostrum dalla soffocante presenza dei corsari musulmani e ad arginare il predominio inglese nei mari settentrionali.
Le crescenti necessità di una spesa pubblica condizionata dalle esigenze belliche del XVI secolo venivano soddisfatte dalla Corona spagnola con il ricorso ad una fiscalità piuttosto pressante. A partire dal XVI secolo, il sistema fiscale napoletano vide incrementare l’entità della sua imposta “diretta”, il “focatico”, del 230 percento dal 1542 al 1566. L’incremento dell’imposizione diretta si traduceva in un incremento più che proporzionale del gettito erariale, da 600mila ad oltre 1.500.000 ducati nell’intervallo sopra menzionato. In definitiva, la Regia Corte poteva contare annualmente su una certa entrata periodicamente predeterminata, fattore che ha costituito un elemento sostanziale per la formazione del debito pubblico di lungo termine.
All’incremento dell’imposizione diretta, dal 1554 al 1557, il quadro dell’imposizione indiretta si è arricchita dell’introduzione di un vasto ventaglio di “nuovi imposti” sul commercio di determinate commodities, tra cui lo zafferano, la sera, i saponi ed il vino[1]. Il sistema dell’”arrendamento” delle imposizioni indirette aveva il vantaggio di anticipare all’amministrazione vicereale un’entrata annua certa. Altro rilevante cespite di entrata proveniva dalla Dogana delle pecore di Foggia e cioè dall’istituzione che provvedeva alla regolazione dell’afflusso delle greggi transumanti nei pascoli del Tavoliere. In realtà non si trattava di un tributo, ma del pagamento per la locazione degli “erbaggi” posti sotto la giurisdizione dello Stato.
Il focatico, le Dogane, i nuovi imposte, le gabelle di Napoli e la Dogana delle pecore davano luogo ad una rendita annua sostanzialmente prevedibile e certa in costante aumento. Una rendita che la Regia Corte collocava sul mercato, capitalizzata ai tassi di interesse vigenti, dando origine ad un debito pubblico consolidato, che andava progressivamente assumendo dimensioni più ragguardevoli. In altre parole, una “cessione di crediti attraverso l’emissione ed il collocamento di titoli obbligazionari” corrisponde all’odierno concetto di cartolarizzazione. La pratica della cartolarizzazione della rendita pubblica napoletana richiede due interessanti: il primo attiene alla scadenza dell’emissione: la cessione della rendita era effettuata cum pacto redimendi (patto di retrovendita).
La Regia Corte si riservava la possibilità di rientrarne in possesso in qualsiasi momento avesse voluto, restituendo solo valore capitale e senza patire le conseguenze di un’eventuale riduzione del potere di acquisto della moneta determinata dal trend inflazionistico. In questo caso ne avrebbe tratto vantaggio per la possibilità di riacquisto della rendita e per la progressiva riduzione del valore del debito. Per quanto concerne l’individuazione del tasso di interesse utilizzato per effettuare la capitalizzazione della rendita, esso era condizionato dall’andamento del mercato del debito a breve termine, che vedeva la Regia Corte impegnarsi a contrarre prestiti con i banchieri genovesi, fiorentini, lombardi e napoletani. Tra il 1556 ed il 1583 la Regia Corte collocò sul mercato titoli della rendita pubblica per quasi 780.000 ducati da cui ottenne risorse per poco più di 8,5 milioni di ducati che andarono ad aumentare il debito pubblico partenopeo.
Alla formazione del debito contribuirono i “fiscali”, seguiti dalle dogane, dalle gabelle di Napoli, dai nuovi imposti e dalla dogana delle pecore. Analizzando il diffuso interesse che i titoli della rendita pubblica destavano tra i risparmiatori, è possibile individuare quali ceti sociali hanno finanziato il debito pubblico napoletano tra il 1556 ed il 1583: la nobiltà titolata, i genovesi non titolati, i comuni, gli ecclesiastici, gli enti assistenziali e altri creditori[2]. La formazione di un crescente debito pubblico ha contribuito a risolvere immediate esigenze di spesa della Corona, le entrate correnti partenopee diminuivano in misura corrispondente all’alienazione delle entrate fiscali dirette ed indirette, determinando crescenti problemi di cassa e ponendo un serio limite alle possibilità di produrre nuovo debito. Tra gli obiettivi della Corona vi era la progressiva riduzione dei saggi di interesse correnti sul mercato: a questa diminuzione ha contribuito anche un’operazione avviata dalla Regia Corona nel 1580 quando quattro banchi pubblici partenopei si impegnarono a ridurre all’8 percento il tasso delle rendite alienate ad interessi superiori.
A causa delle continue esigenze finanziarie della Corona, le operazioni di redenzione delle rendite pubbliche partenopee si risolvevano con la re-immissione di queste ultime sul mercato mobiliare a tassi di interesse più bassi e con un valore di capitalizzazione maggiore. Si trattava di quelle che oggi definiremo come manovre di ristrutturazione del debito effettuate attraverso operazioni di conversione della rendita. Da 1574 a 1602 l’ammontare delle rendite alienate aumentò del 49% a fronte di una crescita dell’85 percento del corrispondente valore capitale. Dal momento che vi era un tetto massimo alla riduzione del saggio di interesse e le esigenze finanziarie della Corona continuano a essere pressanti, gli equilibri si sono definitivamente rotti nel 1650, quando la Regia Corte si è trovata costretta a soddisfare i creditori cedendo vari arrendamenti con la formula del solutum et pro soluto[4].Finanza pubblica nel Ducato di Milano (dal 1535 al 1700)
Negli anni del dominio spagnolo (1535-1700), la finanza pubblica ha rivestito nel Ducato di Milano un ruolo rilevante, sia per il controllo politico e sociale statale sia per la modernizzazione e la crescita delle strutture economiche. La formazione del Fiscal State è stata completata dalle decisive innovazioni che hanno consentito di ampliare il livello di indebitamento, sostenendo il deficit spending. Il finanziamento statale a medio-lungo termine è stato affrontato mediante l’introduzione delle soluzioni che hanno contribuito a potenziare la raccolta di denaro e hanno contribuito a legare in maniera profonda la macchina statale al capitale finanziario ed alla società locale.
Si è assistito ad una progressiva sostituzione del meccanismo dei prestiti forzosi con l’emissione diretta dei titoli sul mercato, liberamente sottoscrivibili e garantiti per il pagamento degli interessi da un determinato cespite fiscale. La crescita di questa nuova forma di finanziamento si è realizzata grazie alla buona accoglienza da parte di una vasta pluralità di soggetti dotati di fondi. Questa forma di debito pubblico non si risolse nello sterile drenaggio d ricchezza privata verso scopi bellici, ma costituì un mezzo di redistribuzione del reddito e di consolidamento dei patrimoni. Questa forma di indebitamento pubblico a lungo termine non spiazzò gli investitori produttivi, ma I titoli pubblici aumentarono le possibilità di finanziamento privato tra seconda metà del XVI secolo il 1620.
Gli investimenti nel debito pubblico costituirono uno strumento di coinvolgimento e di integrazione dei sottoscrittori nelle strategie centrali del Ducato e svolsero un decisivo ruolo di collante sociale e politico per la conservazione della quietud del Milanesado. Nel 1535, alla morte dell’ultimo Sforza, il Ducato di Milano passò a Carlo V, il quale nel reddito ha anche la struttura fiscale: lo stato regionale che si estendeva al centro della valle padana per 16.000 kmq voi entrava a far parte dell’impero spagnolo.
Si avviava un periodo di intense trasformazioni che avrebbero finito per caratterizzare sistema fiscale dell’antico Ducato secondo i tratti tipici del Fiscal State[5], il quale si contraddistingue per un forte incremento del prelievo fiscale. Le città raccoglievano la quota del carico fiscale attraverso la tassazione indiretta, come dazi, dogane e tasse sui generi di largo consumo. La tassazione diretta sulla terra e sulle proprietà immobiliari dei cittadini aveva una funzione sussidiaria e vi si ricorreva solo per la parte dell’incarico generale non coperta dalle tariffe[6], come nel Regno di Napoli dominato dagli spagnoli.
A ogni livello, Stato, città e comunità rurali, la raccolta delle tasse non era gestita direttamente dal governo centrale ma era appaltata ad operatori privati a cui erano concessi tutti i poteri e diritti di esazione dietro il pagamento anticipato di un canone annuale. Nell’epoca di Carlo V, il sistema fiscale del Ducato subì tre cambiamenti decisivi: l’aumento della quota dell’imposizione diretta, l’inclusione del reddito manifatturiero e commerciale nella formazione della base imponibile e la riduzione progressiva della supremazia fiscale delle città nei confronti delle zone rurali. Tali cambiamenti fecero crescere in maniera consistente le entrate del Ducato durante il XVI secolo: esse passarono da 600mila scudi nel 1524 a 1.246.609 scudi nel 1600.
Il raddoppio non fu sufficiente per pareggiare le necessità della Corona ed i bilanci registrarono una serie di deficit[7]. Questa collocazione di deficit che si susseguirono dal 1548 al 1660 e l’espansione dei costi bellici spinsero verso l’indebitamento a medio-lungo termine, che venne fronteggiato mediante l’introduzione di innovazioni che contribuirono ad accrescere la raccolta di denaro e di legare il capitale finanziario alla macchina statale. Si assistette alla progressiva sostituzione del meccanismo dei prestiti forzosi con l’emissione diretta dei titoli sul mercato, liberamente sottoscritti e garantiti per il pagamento degli interessi da un determinato cespite fiscale[8]. A partire dalla dominazione spagnola l’alienazione delle entrate dello Stato ambrosiano perde il carattere di sottoscrizione cogente. Come a Napoli e nelle Fiandre, anche a Milano si diffuse questa caratteristica tipica della politica finanziaria dell’imperatore: l’alienazione delle entrate dello Stato ambrosiano diventò la chiave di un debito consolidato.
La finanza pubblica milanese durante il dominio degli spagnoli ha mostrato tutte le sue profonde e positive interrelazioni con gli aspetti, politici, economici e sociali, venendo a profilarsi come elemento determinante del processo di state-building. Il debito pubblico che si affermò nel Ducato di Milano, a partire dal terzo decennio del 1500, si pose al centro delle complesse interconnessioni che legarono la gestione del potere alla società locale, le necessità belliche agli interessi dei signorotti ed il sistema fiscale alla congiuntura economica.Il costo del credito per lo Stato fu moderato ed il commercio dei titoli statali fu il calcio di inizio alla diffusione delle forme di investimento, contribuendo a stimolare ulteriori innovazioni nel commercio del denaro[10]. Ricercare elementi di un0efficienza paragonabile a quella contemporanea è del tutto improprio. Nonostante la progressiva concentrazione del debito nelle mani dei grandi detentori, nella seconda metà del Seicento i piccoli ed i medi investitori erano una componente rilevante del mercato milanese delle entrate, contrariamente a quanto si verificava nel Regno di Napoli.
Nel 1639, nella città di Sant’Ambrogio il 24% del debito consolidato era costituito da entrate inferiori alle 150 lire ed era posseduto da oltre 4.350 soggetti. Alla metà del XVII secolo il Ducato di Milano fu l’unico dominio della Monarchia spagnola a non conoscere una rivolta politica o sociale contro la Corona. I ceti medi, i borghi, le comunità e le città, che percepivano interessi dal debito pubblico, insieme al patriziato, ai banchieri ed alle istituzioni religiose, non potevano guadagnare nulla dal ribellarsi ad un governo cui vantavano crediti. Il debito pubblico finì per essere un “collante” per la conservazione della stabilità sociopolitica, giocando un ruolo rilevante nella quietud del Milanesado.
Finanza pubblica di Roma e dello Stato Pontificio dal XVI al XIX secolo
Le innovazioni nella finanza pubblica hanno esercitato una potente influenza sullo sviluppo dell’economia comunitaria: quelle verificatesi nel XVI secolo diedero dalle case reali ed alla monarchia asburgica un notevole incentivo a perseguire progetti politici di portata mondiale, ma si sono dimostrate del tutto inadeguate a soddisfare le esigenze creditizie e monetarie. La distanza intercorrente tra necessità e possibilità ha indotto i pubblici poteri ad esercitare una forte pressione sui mercati monetari fino a quando non si verificò un rallentamento dell’espansione economica ed una serie di fallimenti[11].
Il sistema di imposizione di gabelle e di dazi sul commercio di importazione e di esportazione, tributi diretti sulla proprietà immobiliare rurale ed urbana, titoli sul debito pubblico si basava sul principio generale che le spese regolavano il flusso delle entrate. In situazioni contingenti, come guerre e carestie era necessario intervenire pe compensare le uscite aumentando il carico fiscale attraverso tributi straordinari o ricorrendo al debito pubblico. Furono soprattutto le imposte indirette ad alimentare in misura maggiore le entrate degli Stati italiani sino al XVIII secolo. Per quanto concerne lo Stato pontificio, nel corso degli ultimi anni, sono stati numerosi gli studi e le ricerche condotte sulla fiscalità pontificia, sul bilancio camerale e sul debito pubblico, oltre che sui rapporti economici tra il centro e la periferia dello Stato.
La finanza pubblica pontificia è intervenuta sulla vita economica e su quella sociale molto di più di quanto si pensi. L’organizzazione della finanza pontificia nel medio-lungo termine richiede la distinzione intercorrente tra finanza temporale e quella spirituale: le tesorerie provinciali istituite in ogni Provincia dello Stato avevano il compito di raccogliere le entrate dovute al Pontefice e le collettorie apostoliche dislocate nei paesi stranieri avevano la stessa funzione. I tesorieri provinciali e i collettori apostolici rispondevano direttamente al Tesoriere generale, uno dei più rilevanti funzionari della Camera apostolica, ovvero l’istituzione centrale che gestiva le finanze dello Stato e della Chiesa.
L’ufficio della Dataria, altra istituzione dell’amministrazione finanziaria, delle entrate per la concessione dei benefici ecclesiastici. Le istituzioni come l’Annona, il Palazzo Apostolico, le Acque e le Strade vantavano propri bilanci[12]. Per quanto concerne la registrazione del debito pubblico, se i monti camerali e gli uffici di III categoria erano amministrati dalla Camera, non lo erano i monti comunicativi, quelli baronali e del Popolo Romano[13]. Il grafico seguente mostra l’andamento delle entrate e delle uscite complessive della Camera apostolica dal 1669 al 1796. Grazie alla rielaborazione delle Tabelle[14] (così erano chiamati i bilanci) è stato possibile comprendere come ci sia stata una crescita costante delle uscite dovuta alle difficoltà interne dello Stato che nella seconda metà del secolo si sono unite ai mutamenti a livello mondiale.
Per completare il quadro delle finanze è necessario valutare il ruolo del debito pubblico pontificio: l’ammontare esatto del debito, in particolare per il Cinquecento e il Seicento è difficile da computare a causa degli innumerevoli interventi che la Camera apostolica sé riservata di compiere: dall’ampliazione dei monti fino all’estinzione ed alla conversione.
Nel grafico 3 si denota una crescita degli interessi totali del debito anche se alla fine del Seicento la quota percentuale di questi è cresciuta a favore dei luoghi di monte rispetto ai monti vacabili. Il trend evidenzia una rigidità della spesa essendo la maggior parte delle entrate (il 60 percento) legate al pagamento degli interessi e al pagamento delle pensioni e della crescente burocrazia. Si denota una poca libertà di movimento contabile e pochi margini di crescita e di investimento.
La graduale riduzione del saggio di interesse registratasi nel XVII e XVIII secolo ha permesso di raggiungere margini di redditività soddisfacenti. Oggetto di acerrima critica è stato il continuo incremento del debito avvenuto in una situazione di caos contabile e di cattiva amministrazione della res publica. Nel 1657 il totale dei capitali del debito pubblico pontificio ammontava a circa 35 milioni di scudi, quasi tutti sotto forma di debito consolidato ad un tasso di interesse annuo di 4 punti percentuali per i monti e del 7,5 percento per gli uffici[16]. Nella penisola italiana una situazione debitoria assimilabile a quella dello Stato Pontificio era quella del Regno di Napoli.I luoghi di monte, così erano denominati i titoli di debito pubblico dello Stato ecclesiastico, sono stati un capitale commerciabile, che si compravendeva liberamente tra le parti ad un prezzo concordano tra di loro. Al momento dell’emissione i titoli avevano un valore nominale pari a 100 scudi romani, sul mercato secondario la quotazione lievitava notevolmente perché la domanda si manteneva elevata e dinamica in quanto i titoli erano considerati un solido investimento per i risparmiatori romani e non solo. Ci fu da parte del governo papale un ampliamento del credito sulla piazza romana, su quella italiana e su quella straniera: l’abilità con cui le emissioni furono dosate in rapporto alla domanda è dimostrata da un vivace mercato secondario.
L’offerta di credito contribuì a contrastare l’usura, ad allentare la tensione sui tassi di interesse e ad offrire buone possibilità di investimento per i ricchi mercati e per i piccoli investitori. Le entrate derivanti dalla vendita dei titoli di debito pubblico permisero allo Stato ecclesiastico di non aumentare troppo l’imposizione fiscale[17]. Gli eventi storici che hanno investito lo Stato pontificio, dalla Repubblica romana alla fine del governo provvisorio repubblicano (1798-1800), dalla Restaurazione papale alla seconda occupazione francese, dal dominio napoleonico al rientro di Papa Pio VII sino alla seconda restaurazione del potere pontificio (1814-1820) hanno portato differenti innovazioni e ristrutturazioni nell’apparato politico-amministrativo dello Stato ecclesiastico e nelle politiche economico-finanziarie.
Proclamata la Repubblica romana il 17 marzo 1798 fu pubblicata la Costituzione repubblicana, legge fondamentale del nuovo Stato, che portò alla separazione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, caratteristica dell’ordinamento francese che trovò inserimento nel sistema costituzionale romano. Il deficit si aggravò sempre di più a causa della crescita del debito pubblico e per l’esecuzione delle convenzioni politiche di Parigi e di Milano stabilite in seguito al Congresso di Vienna e per via dei luoghi di monte non rimborsati. I moti del 1830-1831 avevano evidenziato i problemi finanziari. I motivi di questi disagi erano da ricercarsi nel numeroso ed inutile apparato militare, in fattori contingenti come il colera asiatico, nei danni causati dallo straripamento dei fiumi e dei torrenti, tra cui l’inondazione del Tevere.
Gli organi di governo dovettero ricorrere al debito redimibile che venne collocato attraverso il coinvolgimento di importanti case bancarie per la concessione di prestiti sui mercati europei. Lo Stato ricorse a differenti finanziamenti internazionali stipulando accordi con i Rothschild[18]. Col Motu Proprio dell’11 giugno 1831 fu istituita una nuova rendita interna estinguibile in dieci anni ad un interesse nominale del 5 percento. L’8 luglio 1831 fu emanato un regolamento sull’emissione ed estinzione dei certificati della nuova rendita. Fu istituita e resa operativa la Cassa di Ammortamento prevista all’articolo 246 del Motu Proprio del 1816 ed operante in altre regioni d’Italia, come il Regno di Napoli, con precisi compiti di ammortizzare le obbligazioni del vecchio e del nuovo consolidato.
Il consolidato pubblico era senza dubbio il titolo principe del mercato finanziario romano e dal 1826 al 1829 vennero quotate anche le azioni della cassa di sconto di Roma. Dal 1838 vennero quotate le prime azioni della Società pontificia di assicurazioni e verso la fine degli anni ’50 la borsa conobbe una certa vitalità e dinamismo nelle negoziazioni dei titoli azionari di società che operavano nel settore terziario, in quello bancario, finanziario e nelle ferrovie.
Finanza pubblica dal 1848 al tramonto del Granducato di Toscana
All’indomani del Congresso di Vienna la definizione del sistema finanziario operata da Ferdinando III avvenne muovendo dall’esigenza di raccordare le scelte del predecessore Pietro Leopoldo con il lascito napoleonico. La volontà di conciliare vecchio e nuovo portò al recupero degli ordinamenti lorenesi adattati alle necessità di una società puntata in una cornice di moderatismo: ciò implicava mantenere strutture amministrative il più possibile snelle. L’eredità più solida e duratura della tradizione leopoldina era rappresentata da libero scambismo, a ciò si aggiungeva Un sistema finanziario francese che aveva dato alla Toscana un’amministrazione moderna, ben organizzata con un ordine nella contabilità pubblica[19].
Esclusi gli aspetti della legislazione finanziaria legati all’inserimento della Toscana nell’impero francese, molti enorme e istituti innovativi potevano essere salvati nelle linee di fondo. Si pensi al caso dei bilanci di previsione introdotti del regime napoleonico nella finanza locale, al cui utilizzo furono obbligate le comunità per regolare l’andamento della propria amministrazione a partire dal 1818. Alcuni provvedimenti adottati da Napoleone consentivano di attuare progetti rimasti incompiuti e irrealizzati da parte di Pietro Leopoldo: si pensi all’estinzione del debito pubblico ed al Catasto, la cui formazione fu avviata nel periodo francese e ripresa durante la Restaurazione.
L’estinzione del debito pubblico, iniziato a partire dal 1778 e revocata nel 1794 da Ferdinando III, venne applicata sotto l’Impero. Le massime liberiste del Granduca erano rispondenti principi sanciti dal codice napoleonico di salvaguardia della proprietà privata e del libero agire economico. La finanza granducale fu contraddistinta da una linea di moderazione e di economia[20]. Contrario alle istituzioni militari per le spese che assorbivano gli uomini sottratti all’agricoltura e all’industria, Leopoldo credeva che i problemi della sicurezza nazionale potessero essere risolti mediante la diplomazia. Il 12 giugno 1815, tre giorni dopo la sottoscrizione dell’atto generale del Congresso di Vienna, Ferdinando III stipulò con l’Imperatore d’Austria un Trattato di amicizia, unione ed alleanza, in base al quale la Toscana si limitava a creare una forza militare di circa 6mila uomini in tempo di pace.
Per quanto concerne il sistema finanziario dal 1814 al 1847, durante il periodo napoleonico vennero gettate le fondamenta di una finanza che contemplasse i vari tipi di gettito al fine ultimo di equilibrare le imposte dirette ed indirette e legare quella fondiaria alla compilazione del Catasto. Riscossa dalle amministrazioni municipali a favore del governo, l’imposta prediale colpiva gli immobili, i terreni e le case. L’imposta fondiaria costituiva la principale entrata della Depositeria, il centro contabile e la cassa generale dello Stato, e la seconda dopo i proventi doganali. L’altra imposta diretta, l’imposta di famiglia, istituita l’11 febbraio 1815 in sostituzione della tassa personale, colpiva tutti i redditi mobiliari ed immobiliari. A fronte di un’imposizione diretta basata su due cespiti, si affiancava un’imposizione indiretta ed un sistema di entrate molto articolato. Per l’intervallo di tempo dal 1825 al 1859, Giuseppe Parenti ha effettuato uno studio suddividendo le entrate diverse dalle imposte indirette in[21]:
- imposte indirette su consumi, dogane, proventi di aziende statali, monopoli e lotterie, in media superiori al 60 percenti delle imposte totali (proventi doganali, tassa sui macelli, tassa di commercio, diritti portuali),
- imposte indirette sui trasferimenti e tasse (proventi dell’Ufficio del registro, bollo e conservazione delle ipoteche, oltre a penali e diritti vari),
- redditi patrimoniali (prodotti delle fattorie e rendita netta dei beni amministrati dalle R.R. Possessioni,
- entrate varie (contributi per la formazione del Catasto, le ritenute sugli stipendi degli impiegati di amministrazioni o dipartimenti del Granducato).
Tale sistema tributario, assai articolato, non subì variazioni fino all’Unità italiana. In Toscana “vigeva il principio che la parte ordinaria al pubblico bastasse e che della straordinaria nulla dovesse sapere”, osservò Raffaelle Busacca, ministro delle Finanze del Governo Provvisorio fino al 22 marzo 1860[22]. Straordinarie venivano considerate anche le entrate e le spese in conto capitale, oltre a quelle causate da eventi eccezionali. I bilanci di previsione registravano entrate le uscite correnti senza riferimenti alle operazioni di credito necessario a fronteggiare il disavanzo e neppure figuravano le somme per l’estinzione delle rendite passive del debito pubblico.
I bilanci di previsione dimostravano il pareggio tra entrate e uscite con il risultato che sarebbero stati in attivo oppure con un modesto disavanzo, celando la vera condizione finanziaria[23]. Analizzando l’andamento della finanza Toscana nell’arco temporale compreso tra il 1825 e il 1847, l’indirizzo di tassazione contenuta venne rafforzato con l’abolizione di alcuni tributi come la tassa del sigillo delle carni e provento di macelli a cui fece seguito la diminuzione dell’imposta prediale[24]. Mentre le imposte subirono una contrazione, a partire dalla metà degli anni ’20 del XIX secolo si assistite ad un aumento di quelle indirette.
Nel periodo compreso tra il 1825 e il 1847 si registrò un incremento delle entrate dovuto ai maggiori introiti doganali, ma anche ai proventi di alcuni appalti e aziende statali. Fuori dal bilancio di previsione restavano tutte le spese straordinarie per le truppe ausiliarie: questa voce costituì il 92 percento delle spese straordinarie sostenute nel 1851 alle quali venne fatto fronte con un nuovo prestito sancito con r. Decreto 13 giugno 1851. Con R. Decreto del 3 novembre 1852 si giunse alla creazione di un consolidato pubblico, arrivando al riordino dell’intero debito toscano caratterizzato da tassi le scadenze differenti e dall’emissione di un nuovo prestito.
L’amministrazione del nuovo debito pubblico venne affidata ad un ufficio separato dalla Depositeria. Dato che i titoli toscani stavano incontrando il favore del mercato erano tutti sopra la pari, si valutò il collocamento dei titoli con sistema dell’asta pubblica, ma i risultati furono piuttosto deludenti a causa delle spinte speculative prodotte dalle tensioni politiche internazionali. Di conseguenza il timore di scendere a prezzi rovinosi portò alla sospensione[25]. Fu ritenuto opportuno appoggiarsi a Case bancarie: il contratto venne sottoscritto con i Rothschild di Parigi, che intensificavano i rapporti con i circuiti finanziari locali e assicuravano la copertura internazionale.
Il fatto che la destinazione dei prestiti pubblici fossero intimamente connessi alla spesa militare, in un Paese che aveva teorizzato la neutralità, fece sì che l’incremento del debito venisse considerata patologica e non un elemento fisiologico allo sviluppo dell’economia. Così la Toscana lasciò al nuovo Stato una pesante situazione finanziaria, dovuta alle spese sostenute per l’occupazione austriaca, il cui obiettivo era stato quello di ostacolare la nascita dell’Italia unita.
Note:
[1] Galasso G., Momenti e problemi di storia napoletana bell’età di Carlo V, Archivio Storico per le Province Napoletane, 1962
[2] R. Mantelli, L’alienazione della rendita pubblica e i suoi acquirenti dal 1556 al 1583 nel Regno di Napoli, Cacucci, Bari, 1997
[3] G. Fenicia, Il Regno di Napoli e la difesa del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1556-1598). Organizzazione e finanziamento, Cacucci, 2003, pag. 235
[4] I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita del Regno di Napoli, Le finanze pubbliche 1734-1742, E.S.I., 1990
[5] R. Bonney, The Rise of the Fiscal State in Europe (1200-1815), Oxford University Press, 1999, pg. 1-17
[6] G. De Luca, Milanese Finance, 1348-1700, in G. Caprio (ed.), Handbook of Key Global Financial Markets, Institutions, and Infrastructure, vol. 1, Elsevier, London, 2013, pp. 185-196;
[7] P. Pissavino, G.Signorotto, Lombardia borromaica Lombardia spagnola 1554-1659, volume I, Bulzoni Editore, 1995, pp. 286-293
[8] L. Pezzolo, Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati italiani nel Cinque e Seicento, Rivista di Storia Economica, 1995, pp. 283-330
[9] Fonte elaborazione da ASMi, Rogiti camerali
[10] G. De Luca, Commercio del denaro e crescita economica a Milano tra Cinquecento e Seicento, Il Polifilo, 1997
[11] H. Van Der Wee, Sistemi monetari, creditizi e bancari, Einaudi, 1978, pp. 338-451
[12] A Caracciolo, I bilanci dello Stato ecclesiastico tra il XVI ed il XVII secolo: una fonte e alcune considerazioni, in Méthodologie de l’Histoire et des sciences humaines, Privat, 1973
[13] F. Piola Caselli, Una montagna di debiti. I monti baronali dell’aristocrazia romana nel Seicento, Roma moderna e contemporanea, 1993, pp. 21-55
[14] Elaborazione dati dall’Archivio di Stato di Roma, Conti di entrata e di uscita della Reverenda Camera Apostolica
[15] Elaborazione dati ASRo, Conti di entrata e di uscita della Reverenda Camera Apostolica
[16] E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra cinque e seicento: contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna, 1570-1660, Giuffrè, 1985
[17] L. Dal Pane, La Congregazione economica istituita da Benedetto XIV e la libertà di commercio, Rivista di Storia dell’Agricoltura, n. 4, dicembre 1965, pp. 3-50
[18] D. Strangio, Trasformazioni e continuità del mercato finanziario romano dallo Stato pontificio all’unificazione italiana: la Borsa di Roma (1849-1880), Rivista di Storia Finanziaria, 2011, pp. 147-171
[19] L. Dal Pane, La finanza Toscana dagli inizi del secolo XVIII alla caduta del Granducato, Banca Commerciale Italiana, 1965
[20] R. P. Coppini, Il Granducato Toscana. Dagli “anni francesi” all’Unità, UTET, 1993, pp. 129-151
[21] G. Parenti, Le entrate del Granducato di Toscana dal 1825 al 1859, ILTE, 1956, volume I, fascicolo 3
[22] Bilancio di previsione dell’entrate delle spese della finanza Toscana nell’anno 1860 secondo la posizione della finanza al dì 18 marzo dell’anno stesso, Tipografia Reale, 1860, pg. 4
[23] R. Busacca, La Finanza Toscana nel 1851. Ragionamento politico economico, in Miscellenea di scritti politici, volume II, 1851, pp. 20-21
[24] D. Manetti, Fra strategia difensiva e potenziamento economico. I trattati con gli Stati Barbareschi e il ruolo di Livorno durante la Restaurazione, 2011
[25] ASFi, Debito Pubblico Toscano, 1852-1866, Uffizio del Debito Pubblico, Repertorio della Rendita 3 per Cento