CONTENUTO
di Alessio Casu
Le spoliazioni napoleoniche
10 febbraio 1798. Le truppe di Napoleone entrano nella Città Eterna. Nasce, cinque giorni dopo, la Repubblica Romana, in seguito all’arresto e alla deposizione di Papa Pio VI. I commissari francesi iniziano ora le procedure con rigore, catalogando e scegliendo, secondo gli ordini ricevuti, documenti e opere d’arte da spedire in patria. I monumenti, come promesso al popolo romano, non vengono toccati. Promessa in realtà, quasi infranta: si pensa infatti – in un opera colossale – di portare a Parigi la Colonna Traiana, idea poi accantonata per questioni logistiche.
I commissari sono rapidi nella selezione, anche grazie all’esperienza maturata in altre imprese simili, durante le precedenti conquiste. Dopo la Campagna d’Italia, centinaia di opere italiane attentamente imballate, dentro altrettante casse di legno, finiscono per sfilare in un lungo corteo per le vie di Parigi dirette al Louvre, tra il 27 e il 28 luglio dello stesso anno, in “un’accorta e spettacolare regia che rinnova i fasti dei trionfi romani con l’esibizione dei tesori conquistati” (Florio 2018). Il corteo assume senz’altro valore celebrativo: alcune opere sono state preparate per essere messe in mostra durante la sfilata, tra cui il Laocoonte e i Cavalli di San Marco.
Tra gli ordini arrivati a Napoleone, compare anche quello di recuperare gli archivi Vaticani, i quali avrebbero seguito le opere d’arte dopo essere stati anch’essi imballati con panni cerati e inseriti entro apposite casse. La macchina militare francese è attentamente organizzata, Napoleone Bonaparte infatti non è nuovo a queste confische: arriva molto spesso a fare inserire nei trattati di pace o negli armistizi, la cessione e l’esportazione degli archivi relativi ai territori conquistati, il tutto al fine di legittimare gli espropri, anche se, raramente, si ferma a quanto specificato su carta. Lo stesso accade per le opere d’arte.
A fermare il piano di Napoleone si intromettono i napoletani, che impediscono momentaneamente la conquista degli archivi da parte dei francesi. Il successore di Papa Pio VI, Pio VII – regnante dal 1800 – si oppone come meglio può alle rinnovate insistenze napoleoniche – le cui truppe sono rientrate a Roma nel 1805 – tentando di fermare e rallentare la requisizione degli archivi.
Sul finire del 1809, Napoleone, ormai Imperatore, intenzionato a chiudere definitivamente con i problemi di Roma, prende possesso dei tanto bramati archivi della Chiesa, arrivando anche agli Archivi Segreti. Questo grazie all’azione svolta qualche mese prima dai gendarmi, che, sotto la guida del generale Étienne Radet, arrestano Pio VII e lo conducono segretamente in Francia.
Come doveva sembrare lontana, […] la festa di soli 4 anni prima nella cattedrale di Notre- Dame, quando Pio VII aveva porto la corona […] a Napoleone, l’uomo del rientro della Francia nel seno della Chiesa, colui il quale […] prometteva di riportare la religione cattolica al centro della vita civile. (Donato, 2019).
A fine gennaio, imballati in 1.470 casse di legno, gli archivi romani sono finalmente in viaggio verso Reims. È scorretto immaginare Napoleone mosso esclusivamente dalla brama di possesso: la requisizione ha molteplici funzioni. In questo modo esercita nuove pressioni sul papato e mostra buona volontà nel raggiungimento di un accordo tra le parti (in quanto i documenti sono fondamentali per il lavoro del Pontefice ancora lontano da Roma, considerando che tra le volontà di Napoleone vi è quella di trasferire la sede apostolica in Francia).
Inoltre, sono presenti informazioni atte a scagionare Napoleone dalle colpe del confitto dottrinale e giurisdizionale, così da farle ricadere sul papato. Ormai è il 1810 quando gli archivi romani vengono ispezionati in cerca delle prove necessarie per porre fine alla diatriba, come ultimo tentativo disperato di giungere ad un accordo. Mentre accade tutto ciò, lentamente, il progetto di Napoleone diventa sempre più idealistico quanto meno razionale e funzionale, mosso dalla volontà di creare una collezione che possa riunire a Parigi la storia di tutta la civiltà, rendendola l’archivio d’Europa (Donato, 2019).
La gestione delle spoliazioni delle opere d’arte
Tra i primi paesi colpiti dall’espansione della République française vi sono i Paesi Bassi (1794-1795). Le truppe napoleoniche hanno al seguito due membri per la commissione delle arti, il pittore e collezionista Jean-Baptiste Wicar e il pittore Charles Le Brun, incaricati di selezionare opere da spedire in Francia. Segue poco dopo l’Italia, nel 1796: nuovamente, insieme alle truppe sono presenti tra gli altri commissari anche Wicar, già partecipe delle requisizioni olandesi, il pittore Antoine Gros e lo scultore Jean-Baptiste Moitte.
Così Milano perde, tra le altre cose, il cartone della Scuola d’Atene di Raffaello e il Codex Atlanticus di Leonardo, quest’ultimo tutt’ora a Parigi. Mantova “cede” per sempre la Madonna della Vittoria di Mantegna. Verona “regala” la Pala di San Zeno, successivamente restituita mancante di alcune parti. Lo stesso accade per centinaia di altre opere: Napoleone nell’avanzata in Italia non trova ostacoli.
Il 17 ottobre 1797, con la firma del Trattato di Campoformio, la fine per le collezioni veneziane è segnata: tra gli accordi di cessione dei territori all’Austria vi è infatti il pagamento di un tributo anche in opere d’arte, tra cui i Cavalli di San Marco finiti sull’Arc de Triomphe a Parigi. Ciò rimarca il valore che viene attribuito alle opere d’arte.
La maggior parte dei manufatti vengono portati al Louvre, che in tutto ciò si allontana sempre più dall’ideale che nel 1792 lo ha trasformato da palazzo imperiale – residenza della corona – al Musée Révolutionaire, con l’obiettivo di restituire alla popolazione le opere d’arte sottratte alle famiglie nobiliari durante la rivoluzione. Nel 1803 viene rinominato Musée Napoleon, a riprova della sua nuova funzione propagandistica: luogo di celebrazione dell’impero e dell’Imperatore, si trova ad avere le pareti costipate di opere provenienti da mezza Europa, trattate alla stregua di cimeli di guerra.
Tutto ciò viene giustificato dalla funzione istruttiva che ricopre il museo. Inoltre, tra le argomentazioni della Prima Repubblica Francese, vi è un ulteriore giustificazione: essendo le opere d’arte realizzate da spiriti liberali, e poiché la Francia è luogo di libertà, non esiste posto migliore per riunirle. Ma è proprio il fallimento della rivoluzione, e quindi di questo pensiero, per cui l’arte giunge all’abbandono della continua ricerca del bello, e si avvia verso quelle mentalità “deviate” che caratterizzano l’arte ottocentesca studiata oggi.
L’art pour l’art fa spazio al romanticismo con le controverse forme del sublime. Ai soggetti religiosi si sostituiscono le bestemmie di Felicien Rops. All’arte di Renoir, che sembra urlare “la vie est belle”, si contrappone quella di Degas o di Jean-François Millet mostranti l’alienazione o l’isolamento di chi non passa la domenica pomeriggio al Moulin de la Galette a ballare e fare festa.
Tra i personaggi che si distinguono nella gestione delle requisizioni risalta il nome di Dominique Vivant Denon, storico dell’arte al seguito di Napoleone in Egitto, con il compito di prendere appunti e disegnare i reperti archeologici egiziani, al fine di portarne un resoconto in patria. Grazie all’eccelso lavoro svolto in quell’occasione, la sua persona si lega a quella di Napoleone, il quale, nel 1802 lo nomina direttore del Louvre.
Tra le urgenze di Denon vi è quella di riordinare, organizzare e catalogare le numerose opere arrivate a Parigi. Nel 1811, la figura di Denon si rivela fondamentale nella scoperta dei primitivi italiani, Giotto e Cimabue tra i più rinomati. Iniziano così nuove ricerche nello stivale e quindi un’ulteriore campagna di espropri. Grazie alla guida di Denon, il Musée Napoleon diventa un centro fondamentale per l’immagine dell’imperatore, tanto da portarlo a celebrare le sue nozze con Maria Luisa D’Austria nel 1810 proprio in quelle sale.
Compito similare a quello di Denon, lo ricopre Pierre Daunou per quanto riguarda gli archivi provenienti dai territori conquistati. Prima sul campo, a guidare le requisizioni, Daunou si trova ora a dover catalogare una quantità enorme di documenti, tanto da costringerlo a richiedere la costruzione del nuovo Palazzo degli Archivi.
Le restituzioni delle opere d’arte
Napoleone nel 1814 abdica, e il suo successore, Luigi XVIII, afferma che le opere d’arte ormai appartengono alla Francia e nulla le avrebbe mosse dal loro posto: la storia gli darà in parte ragione. Con la seguente disfatta di Waterloo, il dialogo al Congresso di Vienna cambia e sul tavolo delle trattative finiscono anche le opere d’arte.
Mai esigendone il ritorno in patria come obbligo e senza organizzarsi su un fronte comune, gli alleati ne rendono ancora più difficile il recupero. Inoltre, non tutto si trova a Parigi: molte opere sono ora in diverse chiese francesi per accordi presi con il papato, o distribuite in vari musei. In aggiunta a tutto ciò, gran parte delle opere sono state – anche se forzatamente e a prezzi irrisori – cedute o vendute con regolari contratti, il che ne rende lecito il possesso della Francia.
In soccorso dei paesi più deboli come i Paesi Bassi, interviene l’Inghilterra: il duca di Wellington manda le truppe al Louvre con l’ordine di togliere dalle pareti i quadri fiamminghi e riportarli a casa. Per quanto riguarda lo Stato Pontificio, l’appoggio britannico si limita alla gestione e alle spese del trasporto delle opere fino a Roma, senza – apparentemente – chiedere nulla in cambio.
Ogni stato, chi più chi meno, si preoccupa di recuperare il più possibile servendosi di funzionari, alcuni più rinomati di altri. Se fosse una gara, il Papa probabilmente vincerebbe: ha infatti mandato in Francia lo scultore Antonio Canova, che pochi anni prima è stato nominato prefetto per le antichità di Roma. La sua preparazione è ineccepibile, così la sua fama, conosciuta a livello mondiale. Il compito non è semplice e, tra le difficoltà, si aggiunge anche la fretta.
Canova, guidato dal gusto neoclassico sceglie di riportare a casa opere più vicine alla sua sensibilità, a sfavore di tante altre. Interessante il suo ruolo, da prima chiamato – o più propriamente obbligato – da Napoleone a corte per la realizzazione di un busto ritratto, più tardi in prima linea a riprendere ciò che di diritto spetta alla sua patria, guidato da un forte senso di appartenenza a Roma.
Più volte Canova, nelle lunghe chiacchierate con l’imperatore, cerca di ammorbidirne i desideri, provando a convincerlo che le opere devono restare dove sono state concepite, senza mai nascondergli il risentimento per gli espropri perpetuati in Italia, ma sempre con la grazia di un elevatissimo cortigiano. Viene da chiedersi se Canova sia l’unico in Francia, a pensarla così, e soprattutto a potersi permettere un tale dialogo con Napoleone. Senza dubbio, l’approvazione del nuovo Impero è diffusa.
Tra i pochissimi contrari, si distingue Antoine Quatrémere de Quincy, il quale con le Lettere a Miranda – testo che esce nel 1796 quasi clandestinamente, mentre si trova in carcere – esterna le sue opposizioni
Sapete troppo bene, amico mio, che dividere è distruggere. […] Se così è, la scomposizione del museo di Roma sarebbe la morte di tutte le conoscenze delle quali la sua unità è il principio. Cos’è l’antico a Roma, se non un grande libro di cui il tempo ha, distrutto o disperso le pagine, del quale le ricerche moderne, ogni giorno, riempiono i vuoti e riparano le lacune? Cosa farebbe la Potenza che scegliesse per esportarli e per appropriarsene alcuni di quei monumenti interessantissimi? Precisamente ciò che farebbe un ignorante che strappasse da un libro i fogli in cui trova delle vignette.
Nel frattempo, anche il gli austriaci si occupano dei beni sottratti nei propri territori in Italia; riescono così a recuperare, tra le altre cose, i Cavalli di San Marco. L’azione di recupero avviene durante la notte, con la piazza chiusa al passaggio, per evitare disordini provocati da eventuali rivoltosi parigini: tanto i Cavalli sono importanti per i veneziani quanto lo sono diventati per i francesi. Le immagini assumono significato identitario, soprattutto per i cittadini.
Il nuovo ruolo dell’arte
Per quanto ambizioso sia il progetto napoleonico di rendere Parigi la capitale culturale europea, forse uno tra i risultati più interessanti ottenuti è la nuova consapevolezza nata nei cittadini, che, depredati dei propri simboli, mai come ora si identificano nelle immagini dell’arte e ciò che esse rappresentano, ideale che inevitabilmente finisce per riversarsi in personalità come Francesco Hayez.
Napoleone avrebbe voluto costruire a Parigi quello che viene chiamato da Maria Pia Donato “archivio del mondo”, a intendere la volontà a fare di Parigi il centro politico, sociale e culturale dell’impero, anche a simbolo del potere centrale a cui tutti devono fare capo. Le immagini (quindi l’arte) assumono in questo contesto un significato altrettanto emblematico, cambiandone per sempre la percezione: l’arte è ora immagine civile.
Ci si accorge che Leonardo diventa simbolo dell’ingegno e dell’eccellenza italiana. Le opere e i monumenti romani sono simbolo della storia millenaria della città, chiamata ‘Eterna’ in parte anche per questa ragione. Le tavole di Giotto come segno della rinascita artistica che cambia le sorti della cultura per sempre. Da qui seguiranno ripercussioni sul ruolo delle opere d’arte che si irradiano fino alla cultura contemporanea.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- M. P. Donato, L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Laterza, 2019.
- M. T. Fiorio, Il museo nella storia. Dallo «studiolo» alla raccolta pubblica, Pearson, 2018.