Il dibattito sulla deportazione
Il catalogo della nota casa editrice Laterza si è arricchito recentemente di un saggio intitolato Selvaggi criminali e scritto da Olindo De Napoli, professore associato di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli. Come si evince dal sottotitolo Storia della deportazione penale nell’Italia liberale (1861-1900), il volume racconta il lungo dibattito sulla deportazione dei condannati che nella seconda metà dell’Ottocento, all’indomani dell’unificazione della nostra penisola, coinvolse figure politiche, personaggi del mondo giuridico e intellettuali.
L’argomento, che l’autore affronta con rigore critico basandosi su ricerche condotte in numerosi archivi, non è trattato esclusivamente in relazione al campo legislativo. In tutto il libro, infatti, è messo in luce il coinvolgimento di altri ambiti che sono esplicitati già nelle pagine introduttive:
[…] il problema delle pene non può essere compreso all’interno di un dibattito solo penalistico e questo per due motivi. Anzitutto c’è l’intreccio con il discorso antropologico: il dibattito politico dei primissimi anni dopo l’Unità, segnati dall’emergenza del grande brigantaggio, era intriso di considerazioni antropologiche per le quali la deportazione sembrava la pena più appropriata per gli speciali caratteri morali delle popolazioni meridionali […]. In secondo luogo, c’è il discorso coloniale: nei primi dibattiti sulla deportazione entrarono pesantemente quei pensatori […] che avevano in mente una politica coloniale per la grandezza della nazione più che gli aspetti tecnici del problema penitenziario
Negli ultimi decenni del XIX secolo, dunque, sugli abitanti del Sud pendeva un pregiudizio antimeridionale che li concepiva come esseri strutturalmente ed endemicamente criminali e soprattutto molto legati alla loro terra. In virtù di tale concezione, l’allontanamento in territori distanti appariva la punizione più efficace per i rei che avrebbero patito la lontananza dal proprio paese d’origine e soprattutto dagli affetti più cari. La deportazione avrebbe consentito, inoltre, di recidere i legami tra i briganti.
Sul versante politico, invece, la deportazione a molti scrittori, a cui la storia avrebbe dato poi torto, si presentò funzionale ad avviare, attraverso l’apripista di una colonia penitenziaria, un colonialismo italiano che avrebbe giovato alla nazione sia economicamente con l’incremento dei commerci sia in termini di fama internazionale. In merito, lo studioso spiega che l’individuazione della zona da utilizzare come colonia non fu semplice e illustra nel dettaglio quali furono le proposte che nel corso del tempo furono avanzate soffermandosi ad esaminarne i motivi che le resero inapplicabili. I vari progetti di deportazione sono resi ancora più comprensibili ai lettori attraverso una cartina geografica nella quale sono indicati autore, luogo e anno di essi.
L’analisi di De Napoli è resa, poi, ancora più completa e interessante dall’attenzione che egli riserva alla discussione sul rapporto tra deportati e indigeni riportando con acribia le opinioni contrastanti sul tema:
Secondo Adolfo De Foresta, […] sarebbe stato certo meglio che la località prescelta non fosse ancora abitata […]. Del resto, la presenza di indigeni nel luogo di deportazione avrebbe offerto mezzi di evasione ai condannati, i quali, «una volta fuggiaschi» sarebbero divenuti «capi e sobillatori di rivolta per gl’indigeni medesimi». Diversamente, […] secondo Carpi, i deportati europei potevano portare la luce della civilizzazione ai selvaggi […]. Nella Scuola positiva lo spettro delle posizioni era ampio. Secondo un primo punto di vista, lo stato selvaggio dei deportati era un elemento necessario per i deportati. Si trattava di […] persone […] le quali potevano progredire nel cammino della civilizzazione lavorando sotto la dominazione coloniale. Secondo Leti, invece, […] bisognava scegliere luoghi disabitati.
L’opera edita da Laterza si rivela pregevole anche per la presenza di due grafici rappresentanti i dati sull’occorrenza della parola “deportazione” nelle pubblicazioni italiane tra il 1861 e il 1900. Attraverso di essi è reso visibile il peso esercitato dalla stampa e dalla letteratura: in quel periodo, a partire soprattutto dagli anni Settanta, esse promossero con forza la creazione di colonie penali d’oltremare, tra le quali sarà significativa Assab, città portuale dell’Eritrea.
Il penitenziario di Assab
A tale luogo l’autore dedica la parte finale del saggio spiegando che vi furono inviati uomini condannati per reati comuni, non per sedizione. Nella disamina delle cause di tale decisione vengono scandagliati i motivi politici senza trascurare le ragioni di carattere culturale. Ad esse, anzi, è dedicato un intero paragrafo nel quale è posto l’accento su come
Anche nello spirito di crociata di Rudinì c’era l’idea che rivoltosi e criminali abituali non fossero necessariamente diversi. I criminali comuni, specie i recidivi, erano persone in rivolta contro la proprietà privata, l’ordine pubblico e gli assetti sociali dati. […] In questo contesto non era strano che criminalità comune e rischio rivoluzionario nei discorsi di Rudinì finissero nella stessa area semantica. I rivoltosi erano chiamati «la Piaga». «Piaga», però, era un termine frequentemente usato nei discorsi dell’ultimo quarto del secolo per definire il crimine comune. Dalle ricerche svolte il termine non figura affatto riferito a sedizioni o rivoluzione […]. Invece, nelle parole di Rudinì i rivoltosi diventano «piaga». Insomma, in una certa mentalità, criminalità comune e rischio rivoluzionario si sovrapponevano.
In altri termini, il Presidente del Consiglio dell’epoca, nonché contemporaneamente Ministro dell’Interno, nutriva la convinzione che i soggetti più usualmente dediti ad azioni criminali avrebbero potuto andare ad ingrossare le fila del malcontento popolare potenzialmente rivoluzionario. Attraverso tale vicenda De Napoli fornisce un esempio pratico della teoria che rappresenta il punto di partenza del suo saggio e il filo rosso che lega ciascuna riga del saggio: la storia della cultura giuridica presenta un legame con la storia intellettuale e politica.
Le pagine di questa sezione del volume, inoltre, coinvolgono il lettore anche sul piano emotivo attraverso il racconto particolareggiato delle condizioni miserrime in cui i detenuti erano costretti a vivere a causa delle torture inflitte e delle condizioni climatiche terribili. In particolare, colpisce la vicenda di Alessandro Franchi, un coatto politico di Spoleto che morì a causa di una febbre altissima dopo aver trascorso sei giorni in una cella legato mani e piedi senza la possibilità né di nutrirsi né di bere né addirittura di espletare i propri bisogni corporali.
Una punizione così atroce gli era stata inflitta da Ferdinando Caputo, direttore del carcere, in seguito alla sua protesta per il trattamento a cui erano sottoposti i reclusi. La situazione scarsamente igienica dell’edificio, unitamente all’assenza di un’infermeria, causava malattie mortali che non risparmiavano nemmeno le guardie e il resto del personale che lì prestava servizio.
Lo studioso non manca di sottolineare un altro aspetto: l’esperimento di Assab fu un provvedimento amministrativo che violava il sistema legislativo. Egli, infatti, spiega che
Come scrisse il Corriere della Sera, la deportazione ad Assab divenne «una pena che non era scritta nel codice» né in alcuna altra legge. […] La detenzione prevista per i deportati di Assab dava a quell’esperimento di deportazione il carattere di fatto di pena e non più solo come misura di sicurezza quale era il domicilio coatto. Se tale era, si trattava di una pena che non corrispondeva a un reato, inflitta senza le garanzie della giurisdizione e senza previsione legislativa. A ciò si aggiunga che la deportazione in colonia era una decisione illegale a monte perché nulla consentiva di espellere dal territorio dello Stato dei cittadini senza una legge che lo prevedesse esplicitamente.
Un tema onnipresente
Altrettanto deplorevole era lo stato in cui versavano i penitenziari italiani: le umiliazioni subite dai carcerati e le loro evasioni erano così frequenti che il penalista Luigi Lucchini parlò di «bolge d’inferno». I disagi continueranno a caratterizzare le carceri italiane come mise in luce nelle sue battaglie politiche Marco Pannella e come racconta nella sua ultima fatica letteraria Daria Bignardi.
Il libro di De Napoli, dunque, è lodevole non soltanto per la serietà con cui sono studiate e narrate le vicende storiche, ma anche per l’attualità degli argomenti trattati: la tutela della sicurezza sociale, la funzione rigeneratrice della pena e i diritti dei detenuti costituiscono tuttora una quaestio che divide e coinvolge l’opinione pubblica oggi come allora. D’altronde al tema della giustizia si è mostrata sempre sensibile anche la letteratura: è sufficiente citare a riprova di ciò il celeberrimo Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, L’ultimo giorno di un condannato a morte di Hugo, Nella colonia penale di Kakfa, Sorvegliare e punire di Foucault.
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- Olindo De Napoli, “Selvaggi Criminali. Storia della deportazione penale nell’Italia liberale” Editori Laterza, 2024.