CONTENUTO
Vita degli schiavi nell’antica Roma
La società dell’antica Roma prevede una distinzione delle persone che emerge in modo chiaro dalle parole di Gaio, un giurista vissuto fra l’età di Adriano e quella di Commodo. Egli, infatti, scrive che “certamente la maggiore differenza riguardo al diritto delle persone è questa, che tutti gli uomini o sono liberi o sono schiavi” (Institutiones 1,8). Per definire un uomo appartenente a quest’ultima categoria il termine che viene usato con maggiore ricorrenza è servus, la cui etimologia è tuttora una quaestio aperta.
Alcuni studiosi credono che derivi dalla lingua etrusca, altri dal verbo servare, dal fatto cioè che i prigionieri non venissero uccisi, ma conservati e messi nella condizione di schiavi. In ambito giuridico viene utilizzata anche la parola mancipium, che inizialmente indica il diritto di proprietà derivante da un modo di acquisizione e in seguito l’oggetto acquisito, ossia lo schiavo.
Quest’ultimo è, infatti, considerato una cosa facente parte del patrimonio del suo proprietario. Tale concezione traspare inequivocabilmente nel De agri cultura dell’autore Marco Porcio Catone, nelle cui righe vengono dati consigli su come utilizzare e sfruttare al meglio la servitù con freddezza e puro calcolo economistico.
Emblematico è in merito il passo in cui afferma: “ [il pater familias] venda l’olio […]; venda il vino, il frumento che avanza; venda i buoi vecchi, le mandrie svezzate, le pecore svezzate, la lana, le pelli, il carro vecchio, gli utensili vecchi, lo schiavo anziano, lo schiavo malato” (De agri cultura 2).
Altrettanto significativo è quanto scritto da Marco Terenzio Varrone (De re rustica 1,17): “Ora tratterò dei mezzi con i quali si coltivano i campi. Tali mezzi alcuni li distinguono in due gruppi, uomini e arnesi senza i quali gli uomini non possono coltivare; altri in tre gruppi, strumenti di genere parlante, semiparlante e muto: vocale in cui rientrano gli schiavi, semivocale in cui rientrano i buoi, muto in cui rientrano i carri”.
La manodopera servile, dunque, è considerevole nelle villae agricole e nelle officine manifatturiere. Non mancano, tuttavia, schiavi incaricati dal padrone di gestire un commercio o una banca.
Il lavoro degli schiavi nell’antica Roma
Sintetizzando, è possibile individuare tre forme di lavoro servile: lo schiavo lavora sotto il controllo diretto del padrone senza che la sua attività sia giuridicamente sancita oppure riceve dal suo proprietario uno o più beni che, pur non diventando di sua appartenenza, sono messi a sua disposizione o, in terza ipotesi, è incaricato di sfruttare un bene del padrone a beneficio di quest’ultimo. Risulta, quindi, chiaro come uno schiavo non possa possedere nulla.
Gli è vietato, inoltre, contrarre nozze legittime: gli è concessa soltanto la possibilità di scegliersi fra le schiave una conserva come compagna e vivere con lei in una forma di matrimonio servile detto conturbenium che non ha alcun effetto giuridico. I figli nati da questa unione sono detti vernae e sono schiavi del pater familias.
Allo schiavo è consentito, tuttavia, mettere da parte il peculium, ossia una sorta di gruzzoletto proveniente da elargizioni del suo proprietario e dal salario che egli guadagna con lavori che riesce a effettuare a suo profitto.
Occorre precisare, però, che, finché egli non fosse stato liberato, il peculio veniva gestito dal padrone, il quale, al momento della liberazione, poteva chiedergli la somma di denaro per intero o trattenerne soltanto una parte, di solito corrispondente al prezzo dello schiavo. Qualora la libertà era ottenuta tramite le volontà testamentarie del dominus morto, quest’ultimo poteva lasciargli tutto il suo peculio o prelevarne una parte in favore del suo erede.
La terza alternativa è la richiesta allo schiavo di versare una somma all’erede fino alla sua liberazione. Va ricordato anche che il padrone gode del diritto di riprendersi il peculio in qualunque momento. Lo esercita, però, raramente in quanto il gruzzoletto contribuisce a dare speranza di liberazione ai suoi sottomessi che, in tal modo, lavorano con maggiore motivazione.
La condizione giuridica degli schiavi nell’antica Roma
La condizione servile si caratterizza, inoltre, anche per l’impossibilità di agire per via legale contro i soprusi del padrone, il quale è libero di adottare pene molto dure come il lavoro forzato nell’ergastulum (un edificio solitamente sotterraneo) o alla ruota del mulino, la fustigazione e torture quali l’ustione mediante lamine di metallo incandescente e l’eculeus (uno strumento di legno che stirava il corpo e spezzava le giunture).
Il filosofo Seneca racconta che “agli infelici schiavi non è lecito muovere le labbra neppure in questo, per parlare; con la verga viene soffocato ogni mormorio e non sono immuni dalle nerbate rumori accidentali, tosse, starnuti, singhiozzi; il silenzio interrotto da qualche parola si sconta con una grave pena; restano in piedi nudi e digiuni per tutta la notte” (Epistolae ad Lucilium 47,3).
Contemporaneamente vi era una categoria di schiavi che godeva di notevole prestigio, di un certo potere e di una non trascurabile influenza nella società cosicché la loro condizione sociale era in netto contrasto con la loro condizione giuridica. Tali erano, per esempio, medici, insegnanti, contabili, fattori, segretari e comandanti di navi. Si trattava di greci acculturati che i Romani avevano condotto nell’Urbe allo scopo di imitare la cultura dell’Oriente conquistato.
La cattività è, infatti, la causa principale e più antica di schiavitù: i prigionieri di guerra catturati nelle battaglie diventavano schiavi. Hopkins sottolinea, in merito, che alla fine del I secolo a.C. la popolazione romana, comprendente sei milioni di persone, contava due milioni di schiavi. Esisteva, poi, la categoria dei servi ex ancilla, ossia dei figli nati da una schiava che diventavano automaticamente proprietà del padrone.
Perdeva la libertà anche l’addictus, ossia colui che non riusciva a pagare i debiti contratti e diventava perciò proprietà del suo creditore. Tale forma di schiavitù viene abolita nel 326 a. C. grazie alla Lex Poetelia Papiria, così denominata dal nome dei due consoli proponenti (C. Petelio Libone e L. Papirio Cursore).
Lo storico Tito Livio (Ab Urbe condita 8, 28, 1) la celebra con parole enfatiche: “In quell’anno si ebbe per la plebe quasi inizio di una nuova libertà giacché i plebei cessarono di essere asserviti per debiti. I consoli ricevettero l’incarico di proporre al popolo una legge secondo la quale nessuno poteva essere tenuto in ceppi o in catene, a meno che non fosse stato dato a pegno per un delitto e sino all’espiazione della pena; solo i beni del debitore, non il suo corpo, potevano essere vincolati a garanzia. Così, gli schiavi per debiti furono liberati e fu stabilito che non vi potesse essere in avvenire soggezione personale per debiti”.
Lo storico racconta anche l’episodio che, secondo la tradizione, avrebbe portato all’emanazione della legge:
Il cambiamento della regolamentazione fu dovuto alla libidine e simultaneamente alla grande crudeltà di un unico usuraio. Egli fu Lucio Papirio al quale si era dato in schiavo a causa di un debito contratto dal padre C. Publilio la cui età e bellezza […] infiammarono il (suo) animo al desiderio sessuale e all’oltraggio. […] Inizialmente tentò di adescare il ragazzo con un discorso osceno; poi, poiché le orecchie rifiutavano l’ignobile proposta, prese a intimidirlo e a ricordargli ripetutamente la sua condizione; alla fine, vedendolo memore più della sua condizione di uomo libero che del suo status attuale, ordinò che fosse denudato e fustigato. Quando il giovane, straziato dai colpi, corse fuori tra il popolo lamentandosi della libidine e della crudeltà del padrone, una grande quantità di persone, spinta sia dalla compassione per la sua giovane età e dall’indignazione per l’offesa, sia dalla considerazione della condizione propria e dei propri figli, si riversò nel foro e da lì in formazione compatta verso la curia. E avendo i consoli, obbligati, convocato il senato per l’improvviso tumulto, ai senatori che entravano nella curia mostravano la schiena martoriata del giovane inginocchiandosi davanti a ciascuno di essi.
Al di là dell’attendibilità storica di questo aneddoto, si tratta di uno dei pochissimi casi nella legislazione romana di abrogazione di una legge e per di più con valore retroattivo, poiché i nexi vengono tutti messi in libertà. In generale, comunque, la condizione delle altre categorie servili non muta e tra il 135 e il 71 a. C. esplodono vere e proprie guerre, tre delle quali imposero a Roma un consistente impegno militare.
La prima, promossa da schiavi-pastori, ha luogo in Sicilia tra il 135 e il 132 a.C., mentre la seconda si svolge tra il 104 e il 101 a.C.; la terza, che vede ribellarsi i gladiatori della scuola di Capua capeggiati da Spartaco, inizia nel 74 a. C. e si conclude tre anni dopo. Conseguenza di tali scontri è il diffondersi presso i proprietari di schiavi della consapevolezza che lo sfruttamento spietato si traduce in un fattore antieconomico.
Si incrementano, così, le emancipazioni e gli ergastula, usati in precedenza come ricoveri dove venivano tenuti in catene gli schiavi durante le ore notturne, diventano progressivamente luoghi di segregazione in cui solo i servi puniti sono tenuti in ceppi. Non si registrano più ribellioni, se non in casi sporadici di schiavi in fuga come nel contesto della congiura di Catilina e dell’esercito allestito da Sesto Pompeo.
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- Andreau- R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco-romano, Bologna, Il Mulino, 2014.
- Hopkins, Conquistatori e schiavi, Torino, Bolinghieri, 1984.
- Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Roma, Università Gregoriana editrice, 1976.
- Yvon Thébert, Lo schiavo, Bari, Laterza, 1993.