CONTENUTO
Propaganda e attuazione del panslavismo in Russia (1826-1861)
Lo studioso che oggi intende verificare le ragioni del fallimento della rivoluzione decabrista del dicembre del 1825, non deve soltanto limitarsi all’analisi superficiale che rileva lo scollamento fra le classi promotrici delle riforme economiche e sociali di stampo anglosassone che fra il 1815 e il 1825 venivano sollevate dalla classe borghese degli ex militari, vincitori di Napoleone, presente in larghi strati fra gli ufficiali dello zar Alessandro; ma deve parimenti guardare alle fonti letterarie.
Se perciò ci si pone ad osservare il maggiore scrittore dell’epoca, Aleksander Puskin, troverà nella vicenda della Figlia del capitano (scritto nel 1836), un sentimento riformista occidentale che lo scrittore russo palesa a Goethe quando ne commenta lo spirito innovatore fin dal romanzo Ermanno e Dorotea (scritto nel 1797) dove il Vate di Weimar rivela tutto il suo iniziale apprezzamento per la Rivoluzione francese fra il 1789 e il 1791.
Ma opposta è l’interpretazione del teologo ortodosso Čaadaev, che sottolinea la doppiezza morale della chiesa cattolica occidentale perché tollera la morale atea illuminista e che genera un’ipocrisia religiosa estranea alla cultura russa. Luogo di scontro fra occidentalisti e ortodossi slavofili è il salotto letterario di Anna Ivanovna Elagin a S. Pietroburgo, che anche dopo i fatti del 1825 ospiterà autori del calibro di Lermontov, Aksakov e lo stesso Puškin.
Ma a Mosca subito nasce un circolo letterario di nobili moscoviti filoccidentali presso il Principe Petrasevskij, che finirà per attrarre il giovane Dostoevskij nel vortice rivoluzionario liberale e che vedrà condannare non pochi aderenti a morte dallo stesso Zar Nicola che ha già decimato i Decabristi. Da una parte l’ammirazione per gli scrittori tedeschi, fra Schiller e i Grimm; dall’altra i francesi, da Stendhal a Balzac. Al contrario, il circolo moscovita, pur guardando alla cultura liberale occidentale, non nasconde una certa simpatia nazionalista, sul modello della berlinese Bettina von Arnim e della contessa Maffei a Milano.
Ambedue le aree culturali concordano, pur da colte minoranze, per la abolizione della Servitù della Gleba. Ma dissentono sul Parlamentarismo; sui diritti civili di libertà e democrazia e sulla influenza politica e militare sul Mediterraneo, sul Mar Nero e sul Baltico. Anzi, la componente ortodossa tende a mettere a nudo i vizi privati della borghesia occidentale e ad impedire la loro propagazione in Russia: l’accidia di Oblamov di Gončarov; l’ipocrisia del ricco epulone di Fëdor Karamazov di Dostoevskij e la dolorosa solitudine di Anna Karenina del Tolstoj, saranno le famose figure letterarie che produrranno il romanticismo europeo democratico e ateo che si voleva bloccare all’ingresso nella società tradizionale russa da parte di intellettuali conservatori zaristi come Ivan Kireevskij e Aleksej Chomjakov, amici della chiesa romana Corpo di Cristo predicata da papa Pio IX e che richiama all’unità agraria del Mir, la comunità popolare delle campagne lontane dagli ideali liberali.
Berdiev e Masaryk – cultori delle radici dell’ideologia panslavista nel ‘900 – in questa conflittualità fra ragione illuminista e sentimento religioso ortodosso, colgono la mediazione della classe dirigente di Nicola I e di Alessandro II come reazione autoritaria alle precedenti invasioni straniere. Proprio Pietro il Grande e i suoi discendenti Romanov inneggiano alla purezza originaria del popolo russo che ha perseguito la religione ortodossa contro le infiltrazioni Normanne ad Ovest e le immigrazioni cinesi ad Est.
Si ritrovano tracce slave al di là dell’Elba fino a Berlino e nel Brandeburgo (i Venedi, i Variaghi, i Branifor): gli Slavi del sud sui Carpazi, i Rumeni, ecc. ecc. E la loro storia di lotte coi Germani, coi Vichinghi e i Tartari. Di qui, la mitologia di una Russia segreta, dove la Resurrezione di Cristo, al centro della teologia ortodossa bizantina, diventa rifiuto contro l’oppressore anche occidentale, un rifiuto del mondo corruttivo e la ricerca di un Cristo redentore anche occidentale, un rigetto del mondo corruttivo e la ricerca di un Cristo redentore già in questa terra.
Ma non basta: allo spirito originario cristiano contro il diavolo dominatore straniero non è sufficiente l’ironia gogoliana; né la sofferenza interiore di un Idiota dostojeskiano; occorre un supplemento attivo, una reazione del bene contro il male. Non il demone anarchico e nichilista, ma occorre la capacità di cambiare il mondo andando proprio verso il mondo. Questa è la vera Resurrezione, lo spirito altruista in nome di Dio: ecco l’ideale di Tolstoj che compare nel romanzo storico più importante del secolo slavo: Guerra e Pace (scritto fra il 1863 e il 1869).
Ecco i filoni ideologici che attraversano la cultura russa dopo la repressione decabrista: vale a dire l’ideologia panslavista, che porterà la classe dirigente verso la guerra di Crimea (1852-1856) e alle guerre contro l’impero ottomano (1876-1878). E poi c’è il filone umanista filoccidentale che pretende l’abolizione della Servitù della Gleba, ottenuta finalmente nel 1861. Resta però la morsa solipsistica e soggettivista, assente nello scenario politico fino alla Prima Guerra mondiale che verrà strumentalizzata dai Nazionalisti dal primo ‘900 alla Rivoluzione del 1917.
La Russia negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento
In verità gli anni ’20 e ’30 dell’800 presentano agli occhi degli osservatori liberali occidentali un quadro storico autocratico dalla Russia imperiale di Nicola I, rispetto a quello moderatamente illuminista di Alessandro I. Il nuovo zar Nicola, forte della maggioranza delle truppe fedeli che reprimono la rivolta a S. Pietroburgo e nella provincia Ucraina, dà la stura nel gennaio del 1826 a una stretta repressiva da parte della sua polizia di stato segreta che produrrà fucilazioni, impiccagioni e domicili coatti nella Siberia.
Il demone di Pugaciov e della sua rivolta sotto Caterina la Grande – rispolverata da Puskin nella citata Figlia del Capitano – lo perseguita e non può che appoggiarsi alla Prussia di Federico Guglielmo e al sornione Metternich che fa di tutto per tamponare le spinte centrifughe del suo Impero nei Balcani pieni di Fratelli slavi. Di qui, la creazione del servizio segreto di Stato – la c.d. terza sezione – affidata al prussiano Conte Beckendorff, la cui gestione anticipa la repressione dei dissidenti non comunisti che Stalin affiderà al fido Berija in età sovietica sotto la nota e famigerata sigla KGB.
Nondimeno, Nicola I – che ha come fidato Primo ministro Michail Michajlovič Speranskij, un illuminista filo-francese legato alla politica realista del Talleyrand – mira all’espansione economica del Paese senza chiudere del tutto i rapporti con le potenze occidentali, pur favorendo il blocco agrario e il conservatorismo religioso, negando ogni domanda di costituzionalismo liberale.
In particolare si restringe la censura preventiva a ogni domanda di parlamentarismo anglosassone, limita i viaggi all’estero e circoscrive l’entrata degli intellettuali stranieri. Il maggiore obiettivo è isolare il Puškin e addirittura stimolare la gelosia del grande scrittore, tanto da pagare una sua spia – tale Georges D’Anthes del predetto terzo settore – a provocare la reazione per avances rivolta alla giovane moglie.
Metodo infamante, già stigmatizzato dal Puskijn nel suo romanzo Eugenio Onegin, profeticamente anticipatore della precoce morte di quest’autore a seguito di un duello d’onore. La politica estera ha però una improvvisa accelerazione panslavista, uscita dalle astratte ideologie per scendere nel reale: la legittima domanda di fratellanza slava e di unificazione con le comunità balcaniche e baltiche di lingua e religione russa giustifica la figura della Terza Roma, acquisita da Mosca dopo l’invasione tartara di Kiev.
Non sono forse queste le chiavi ideologiche per legittimare l’espansione dell’Impero? Come non rinnegare, l’idea nascosta di avere ampliato una grande capitale del nord, come S. Pietroburgo, per primeggiare nel Baltico, anche per abbinare la pari autorevolezza di Mosca dal lato religioso? Duplice condizione di una gigantesca politica di Potenza rivolta a distrarre la classe dirigente dal pericolo di una rivolta democratica e popolare.
Del resto già il monaco Filofej, antico priore del Monastero di Eleazar a Pskov, fin dal XV secolo scrive testi che celebrano sia la successione di Mosca a Roma e Bisanzio, che la primazia della Russia sull’Occidente, influenzando poco dopo lo zar Pietro, tanto che sarà capace di combinare politicamente la nuova cultura illuminista e lo spirito religioso ortodosso più antico. Frutto ne è la stupenda capitale di S. Pietroburgo, Mito e realtà in ebollizione che già sono segnalati da Voltaire.
Cosicché non mancherà una classe intellettuale di primo ottocento che considera il binomio Popolo e fede quale fondamento della Russia moderna, di cui Alessandro I è il piccolo padre universale. Nicola I ne perpetua l’idea: l’Imperatore e il patriarca di Mosca saranno dal 1826 due facce della stessa medaglia, con una politica sociale in nome del Popolo, in armonia di quanto già nel secondo ‘700 Caterina statuirà una rivoluzionaria integrazione razziale, che però contraddice la presunzione di preminenza del popolo slavo sugli invasori normanni e tartari, appena mitigata dalla spiritualità tradizionalista ortodossa.
In verità la relazione fra Chiesa e Stato – dove lo zar diventa di fatto il capo assoluto – porterà Nicola a guidare il popolo contro l’Ottomano. Solo che la chiesa conventuale ben presto divergerà da tale progetto, perché dopo l’esperienza napoleonica la mitica unione fra Dio e zar per il popolo, diventa, Dio è lo zar, con il popolo servo della gleba, a scapito di ogni forma di cristianesimo popolare, fatto che le fonti letterarie religiose a metà ‘800 non mancano di sottolineare. Spicca a riguardo la raccolta dei Racconti di un pellegrino russo, voce del Cristianesimo itinerante, narrati da frati ortodossi nelle terre di frontiera fin dal 1860, ma già elaborati dal mitico Teofono il recluso fin dal 1841.
E non è un caso la testimonianza laica di questo spirito romantico radicale è la figura dello starec Zosima, che nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij si rappresenta come un Santo mediatore nella tragica vertenza familiare fra il padre e gli altri fratelli del giovane novizio Aleksej. Simbolo culturale della ormai rinascita del Popolo.
Tuttavia il sentimento nazionalista rivolto a riconquistare una spiritualità popolare di fratellanza dei tanti russi immigrati nelle terre di confine ai quattro angoli dell’Impero, trova in Nicola I un fortissimo paladino che per ora tenta di ripetere sia la politica dell’avo Pietro, sia quella dell’altro ascendente Federico il Grande, scambiando nel sentimento popolare antitartaro il nuovo orizzonte dal raggiungere e da occupare, il decadente impero ottomano.
Spinto dalla madrina Zarina Sophie Dorothea di Wittemberg e dalla moglie Carlotta, proprio nipote del Grande Imperatore, già con l’occasione della rivoluzione greca, nel 1826 impone alla Suprema Porta un Protocollo a tutela della libertà greca, approfittando della numerosa colonia di mercanti e marinai slavi installatasi da due secoli in massa nelle isole greche. E poi, poco dopo, risponde alla domanda di protezione dei principi danubiani rumeni, macedoni e bulgari.
Quale migliore prova del nuovo percorso espansionista è allora la leggenda del Principe Igor, ritrovata dagli storici della Russia Karamzin e Aksakov e che un musicista, il nobile Aleksander Borodin, raccoglie in canti di battaglia paragonabili ai nostri cori romantici, simili alle musiche verdiane del Nabucco e dei Lombardi alla prima crociata?
E’ il momento più alto della ideologia nazionalista: alle musiche patriottiche della Chiesa di Stato, fa da coro anche la voce orante dei monasteri, che vede il diavolo occidentale, ateo e sordo alle grida di dolore dei fratelli slavi, schiavi del bieco Sultano di Costantinopoli. E per di più, nel 1827 anche l’impero Persiano entra nel mirino dell’Orso Russo, corso a soccorrere il fratello musulmano.
Nicola – con un voltafaccia degno dell’Italia del 1915 – si allea alla Francia e all’Inghilterra, vincendo la flotta turco-persiana-egiziana a Navarino il 20 ottobre 1827, nelle acque di quel Mare Egeo e vicino ad Atene, ormai riconosciuta capitale di uno stato greco apparentemente autonomo, ma di fatto protettorato delle predette potenze e che la Russia userà come base logistica per conquistare il Mar Nero fino ad Odessa, ghiotte prede del mercato agricolo russo, malgrado la presenza concorrente delle basi per le flotte anglo-francesi.
Dunque, un livello alto che si impone nella logica di mercato colonialista rivolta alla conquista di materie prime da trasformare in patria per il mercato europeo ancora non saturato. Ma al quale si affianca un livello basso, che attira la chiesa popolare, in cui il soldato conquistatore, da contadino povero e isolato, diventa l’eroe missionario, verso popoli ignoranti da educare alla fede. Quasi un doppione della politica di inizio del XVI secolo che la Spagna gesuita ha instaurato in Sudamerica.
La reazione liberale e democratica (1829-1848)
Mentre la stampa governativa e nazionalista paragona la vittoria di Navarino a una nuova Lepanto, mantenendosi in polemica con gli Ottomani; invece, una voce critica, nata nella comunità agraria delle steppe ucraine e caucasiche, risveglia l’attenzione del contadino e del piccolo borghese – spesso Servi della Gleba – che non considera più di tanto quei fratelli slavi che per la loro tutela avevano provocato una crisi economica produttiva e il ribasso dei salari.
Herzen e Solov’ëv, due giovani filosofi, legati al socialismo nascente francese, riaprono il problema della pace e della eguaglianza sociale, alla luce di un messaggio politico derivato dalla Rivoluzione francese di luglio del 1830, dove la classe dirigente legittimista è stata spazzata via dalla classe emergente mercantile e industriale legata a Luigi Filippo.
Turgeniev, Gogol, Gončarov e la corrente religiosa dei pellegrini ortodossi fra il 1830 e il 1848, cominciano a svelare l’ipocrita politica imperialista delle Corte di Nicola, piuttosto votata a guadagnare nuovi mercati e a distrarre la domanda di beni alimentari e di prima necessità, senza contare le rinnovate richieste di parlamentarismo democratico e di diritti civili liberali che gli intellettuali di S. Pietroburgo dai loro circoli letterari richiedono.
Un punto di vantaggio a favore dello zar Nicola è la pace con la Persia del 1828, dove si ottiene l’Armenia e varie basi navali sul mar Caspio, rompendo l’alleanza con Londra che teme ostacoli nella marcia verso l’Afghanistan e l’India. Nondimeno, il conflitto con la Turchia è immanente, visto che la Russia supera il Danubio del sud e occupa il fiorente porto di Varna sul Mar Caspio su richiesta dei Principi Russi e dei tanti mercanti di lingua slava.
Ma non basta: la classe dirigente governativa- la Corte e l’Esercito, ma anche i nobili proprietari terrieri di cui la Servitù della Gleba è lo strumento per armare i giovani contadini illusi di terre da coltivare al di là del mare, mito che l’Italia del primo ‘900 riprenderà nella guerra con la Turchia per la Libia – vede la ricca e ben posizionata Crimea, accanto a quel porto di Odessa al centro del Mar Nero, la più appetitosa preda per arrivare al mediterraneo orientale e a Gerusalemme, la quarta Roma secondo la mitologia ortodossa.
Malgrado la propaganda zarista della Chiesa di Stato alimentasse le spedizioni militari dalla Grecia alla Bulgaria, dalla Bessarabia (una provincia dell’attuale Romania) al Mar Caspio; benché in politica interna i rigurgiti liberali venissero smorzati dalla onnipotente azione repressiva sugli intellettuali che preferiscono emigrare più spesso nella Francia di Luigi Filippo, come Turgeniev – che con la commedia tragica Pane altrui del 1857 non cessa di sferzare i vizi privati della nobiltà agraria – tuttavia, i pellegrini monaci non si limitano a parlare di amore e pace fraterna, né si contentano nell’evangelizzare il perfido ebreo e l’infedele ottomano sia nelle immense steppe al confine dell’India e della Cina, oppure in quella Gerusalemme di cui ottengono l’accesso pur sotto la guardinga protezione della Chiesa Ortodossa di Stato.
Di più: i monaci violano il codice di diritto canonico approvato da Pietro il Grande in materia di riti ufficiali, interpolando spesso le formule di preghiera e delle celebrazioni religiose. Ritorna nelle nuove preghiere un che di magico tipico del mondo contadino al di fuori dei canoni legati ai dogmi ortodossi rimasti intatti solo nelle città. Si vuole superare la spiritualità laica di Stato e si va all’uomo integrale, legato all’amore e alla pace, con qualche apertura al quotidiano e alle religioni non cristiane che inevitabilmente corrompono il messaggio ortodosso.
Tracce evidenti di tali infiltrazioni sono presenti in letteratura: per esempio, a leggere il romanzo Michele Strogoff nel 1876 di Verne, emerge una realtà agraria piena di simboli paganeggianti e con funzioni che Verne da buon positivista accomuna alla fede delle lontane terre di confine dell’Impero. Nicola I – e il successore Alessandro II – temono che tale tendenza rompa l’unità religiosa del Paese, una crepa che potrebbe fare franare quella Chiesa confessante idonea a interrompere l’ideale panslavista che ha negli anni precedenti salvato il modello imperialista.
E dunque cade la scure dello zar, capo della Chiesa di Stato, sul movimento dei Vecchi credenti e sui gruppi di fedeli scismatici (i Raskolniki) restii a ristabilire l’uniformità fra le pratiche liturgiche della antica chiesa greco-ortodossa e di quella russa riformata dallo zar Pietro. Nondimeno, negli anni ’40 dell’800 la letteratura laica approda alla satira di derivazione francese: al circolo culturale Petraševskij, dal nome del nobile di S. Pietroburgo nel cui palazzo si tengono incontri di cultura politica e letteraria – ma anche artistica e musicale – e si parla di Proudhon, di Fourier, di Mazzini e di un giovane Marx, ma anche di Toqueville appena tornato dagli Stati Uniti.
Le musiche di Borodin, Glazunov e Nikolaj Rimskij-Korsakov allietano le lunghe discussioni politiche fra liberali e democratici. Anzi, uno scrittore quasi sconosciuto, tale Fëdor Dostoevskij, si mette a parlare della povera gente, primo suo romanzo. Anche un critico letterario, Vissarion Belinskij, grande viaggiatore in Europa occidentale, cita Hugo, Dickens, Balzace e parla di un gabinetto italiano di Firenze dove il nobile Vieusseux ha convinto molti regnanti, e perfino il nuovo Papa Pio IX, ad una riforma liberale.
Petizioni di intellettuali e artisti domandano la Riforma Agraria e principalmente la abolizione della Servitù della Gleba, nonché la fine della politica militarista, nel solco del pensiero democratico occidentale dell’Herzen, già esule a Parigi. Un fulmine a ciel sereno preoccupa la politica espansionista della classe di governo: aderire a tali innovazioni avrebbe rinforzato l’asse anglo-francese, contrario alle mire imperialiste russe e avrebbe riaperto i limiti del Mediterraneo orientale alla navigazione commerciale russa, unico sbocco per il capitalismo agrario sviluppatosi attraverso gli scambi di legname, di prodotti agricoli e di carbone di cui la Russia è fortemente produttrice.
Di qui, la scelta di ripetere la repressione poliziesca, come si è fatto coi Decabristi e come già si sta facendo per i Vecchi Credenti. Scatta allora un’altra azione di spegnimento di ogni pretesa parlamentarista; il massimo inquisitore è ora Dubbelt, chiamato da Nicola a sopprimere il circolo di Pietroburgo e a fucilare od impiccare tutti i liberali e i democratici firmatari di petizioni e di libelli critici dell’autocrazia zarista.
E’ anche il caso del giovane Dostoevskij, quasi giustiziato e appena salvato da un improvviso decreto di grazia, ma poi rinviato ad un duro carcere in Siberia, fatto che spiega lo spirito contorto del grande scrittore, che da quella tremenda vicenda personale subisce un trauma da cui mai guarirà, una che ci permette di leggere figure di anarchici nichilisti – come quella di Ivan per i Fratelli Karamazov e di Stravogin per I demoni – esempi classici di un movimento di pensiero di rinnovamento laico e religioso insuperato e ancora più che attuale per comprendere la difficile situazione della Russia.
Sviato così un secondo tentativo democratico di riforma della Russia, l’apparato governativo dei Romanov riprende la marcia nei Balcani con spirito più tranquillo: dopo la conquista di Adrianopoli, comincia ad oltrepassare il delta del Danubio verso le coste del Mar Nero e a farsi protettore di Valacchia e Moldavia (1829-1830). E poi, l’Orso Russo verso l’Impero austriaco e la Prussia ad Ovest, cioè il Baltico e la Polonia, mettendo in gioco il suo interesse per Danzica e Leopoli.
Francia ed Inghilterra tornano a fremere: la Francia di Luigi Filippo e la Gran Bretagna di Vittoria stanno modernizzando il loro Paese e temono l’insidia espansiva del colosso euroasiatico, ma anche la spinta unitaria della Prussia verso la Germania Renana e la vecchia Austria asburgica non sono da meno per riprendere la politica di limitare la tendenza zarista.
E’ vero che ciascuno di questi Stati risente di spinte democratiche e nazionaliste all’interno dei loro territori; ma la tensione di un ritorno all’espansionismo e alle guerre di conquista in spregio alla politica di equilibrio raggiunto a Vienna, combinata alle tendenze di nuove classi produttive che pretendono la guida dei loro Paesi, rappresentano, tutte, istanze di acuta drammatizzazione dei rapporti interni e internazionali dopo un ampio trentennio di pace.
Orbene il 1831 – ad appena un anno dalla rivoluzione di luglio in Francia – è l’anno della prima rivoluzione polacca. A Varsavia viene cacciata la guarnigione russa e il governo imperiale russo e sostituito da un governo democratico nazionale. Per un anno, Prussia e Austria, che dalla fine del 1762 possedevano ampie aree del vecchio Regno, tentano di mediare, ma cedono alla reazione Russa per timore che la macchia liberale si estenda dalle loro parti.
La musica di Chopin e i versi di Platen testimoniano l’ardore dei giovani che cadono sulle barricate già poco dopo la conquista della libertà. La partecipazione degli esuli democratici – specialmente italiani – appare molto simile a quello che è accaduto quasi un secolo dopo nel caso della guerra civile spagnola, quando Parigi ritorna ad essere capitale del movimento democratico occidentale contro la dittatura, all’epoca incarnata dalla autarchia zarista e poi nel ‘900 rappresentata dalle autocrazie nazifasciste.
Epperò Nicola, benché imbaldanzito dalla rioccupazione della fascia di territorio polacco – con Danzica cuore del territorio sempre conteso dalla Prussia – cessa di insistere perché anche teme un’alleanza anglofrancese che lo possa bloccare a Sud. Pensa perciò per un trentennio a rinforzare la sua costante penetrazione balcanica e rimette gli occhi sulla Crimea.
Ma già nel 1849 approfitta dell’ondata democratica occidentale per stimolare i fratelli slavi bulgari e rumeni. Dunque, perseguirà una politica reazionaria per contenere e reprimere la fronda interna. La valvola del panslavismo non viene per ora attivata, mentre lo sviluppo economico della Nazione resterà per decenni immutato in una lentissima crescita industriale.
Il Panslavismo in retromarcia (1850-1861)
Nel 1850, fautore della nuova politica espansionistica è il Conte Alexei Orlov (1786 – 1861). Dopo aver partecipato alla repressione polacca del 1830-1831 e divenuto consigliere per gli affari esteri dialogando con gli Ottomani; già nel 1844 insiste nell’azione di repressione della polizia politica, mettendo all’indice il saggio politico Aleksander Herzen Dall’altra riva, dove il famoso esule democratico sviluppa un modello di democrazia agraria che parte dalle comunità contadine dei sperduti villaggi della steppa.
Nasce così il fenomeno populista andare verso il popolo che prende l’avvio sulla base della decadenza della piccola nobiltà di provincia, tanto che nel coevo libretto satirico Lo sviluppo dei rivoluzionari in Russia vengono prese in giro molti personaggi già beffeggiati da Gogol e Turgeniev.
Ma la testarda logica protocapitalista di Orlov e di Nicola sfonda in Asia: una colonia di russi occupa la foce del fiume Amur, mentre il Turkestan passa sotto il diretto controllo russo. Durante quegli anni intanto la Francia cade in mano alla nuova borghesia conservatrice di Napoleone III e si preoccupa di sventare ogni velleità rivoluzionaria della seconda repubblica democratica. Nondimeno, la Gran Bretagna è impegnata a reprimere rivolte in India, e a Rawalpindi nel 1849 battono i ribelli locali annettendo il Punjab.
L’Austria è afflitta dalla prima guerra di indipendenza in Italia e la Prussia resta incagliata nelle controversie con gli Stati tedeschi che la vogliano far prelevare alla Conferenza del Reno assegnata dal Congresso di Vienna all’Impero Austriaco, Presidenza condizionata all’emanazione di un Costituzione liberale.
La tensione fra i due Paesi centrali è alle stelle per il conflitto fra i fautori della Piccola Germania (i Prussiani) e quelli della Grande Germania (Metternich e il giovane imperatore Francesco Giuseppe). Quale momento più opportuno è quello ora di sferzare un nuovo attacco alla Turchia nel disinteresse delle potenze occidentali; tanto più che la Francia cattolicissima vuole scalzare la Turchia della giurisdizione dei luoghi santi in Palestina? Non è ora l’occasione di intervenire nel Mar nero per riaffermare che la presenza francese sarebbe un affronto alla Chiesa ortodossa?
Il 1853 diventa l’anno essenziale per rivestire di nuovo la maschera panslava: Nicola invade i principati danubiani (Valacchia e Moldavia) prima tappa verso Gerusalemme come Lord Protettore degli Ortodossi contro l’odiato Ottomano. Francia e l’Inghilterra formano di conseguenza una coalizione in soccorso dei Turchi. Una squadra navale occupa la baia di Besika sul Mar Nero all’entrata dei Dardanelli e a fine novembre la Turchia, forte del sostegno europeo, a Sinope perde la propria flotta nello scontro con quella russa diretta dall’ammiraglio Nakhimov, detto il Suvorov del mare, a leggere il diario del suo primo ufficiale Nikolaj Rimskij-Korsakov.
Ma a terra la situazione si capovolge: l’esercito di Omar Pascià batterà i Russi sul Danubio a Oltenita. E’ la lunga e disastrosa guerra di Crimea (1853-1856), il più grande conflitto su suolo europeo dopo le guerre napoleoniche, che si concentrerà attorno alla fortezza di Sebastopoli, con l’episodio notissimo della carica dei 600 cavalieri inglesi a Balaklava.
Il mito folgorante generato da quella carica di cavalleria è pari soltanto alla strage quasi coeva che si ha con l’eccidio del Little Big Horn da parte di Toro seduto sullo squadrone del 7° cavalleggeri guidati dal colonnello Custer. E sede di questo mito immortale – dove la storia si è fatta mito e il mito è divenuto storia – è stato il cinema di John Ford e la figura dell’attore Errol Flynn colla sciabola sguainata all’attacco dei bastioni russi.
Il nuovo zar Alessandro II
Al di là del mito, però la storia ci dice di una guerra sanguinosa per tutti, Russi, Turchi, Inglesi e Francesi, peraltro in compagnia del Regno di Piemonte di Camillo Benso di Cavour nel 1855 intervenuto a fianco degli alleati che costa al Regno italiano una decina di migliaia di morti in cambio della nuova considerazione politica che acquisirà il Congresso di Pace di Parigi nel 1856. Solo che un convenuto inatteso parteciperà alla guerra, cioè una tremenda epidemia di colera che produrrà 128.000 morti, pari a una cifra analoga di vittime della guerra.
Un’ecatombe per lo sconfitto esercito russo e un collasso per la Nazione. Rinviando ad altre sede il ruolo e il significato della partecipazione del Regno di Piemonte, prodromo essenziale per la seconda guerra di indipendenza e per l’Unità del Nostro Paese; al Congresso di pace di Parigi del 1856, il nuovo Zar Alessandro II – il padre Nicola muore il 2 marzo 1855 – cerca subito di concludere la disgraziata guerra e solo dopo un anno di trattative segrete, il Conte Orlov – come ci dice il Cavour nel suo diario del Congresso di Parigi – riesce a salvare l’integrità del territorio russo dalle pretese Ottomane, pur rientrando nei confini al di qua del Danubio mantenendo una piccola parte della Bessarabia.
La Russia per ora deve però dire addio a un pezzo di tale regione (oggi parte del Donbass) e deve abbandonare ogni velleità sui Principati danubiani, salvo qualche limitato diritto di navigazione fluviale per i commerci sul Danubio. Il Mar Nero ritorna alla Turchia e termina così ogni pretesa verso il Medio Oriente. La retromarcia dell’ideologia panslavista è altrettanto evidente nella politica interna. Alessandro II in armonia alla domanda di riforme sociali ulteriormente pretese dalla classe degli intellettuali, pare subito pronto a venire loro incontro.
La crisi economica connessa alla tremenda sconfitta va sanata aprendo a forme liberali politiche e economiche, sperando nella comprensione dei Paesi vincitori. Anche all’epoca aumentano le critiche allo Stato autocrate e arretrato. Dalle colonne della rivista Il contemporaneo, riaperta dopo la chiusura censoria del 1856, Belinskij e Dostoevskij– appena rientrato dalla Siberia -chiedono se non è arrivato finalmente il momento della più necessaria riforma della società civile russa, la agognata abolizione della Servitù della Gleba. Se non ora, quando? Proclama il direttore Belinskij appena tornato da Parigi e dalla Baviera, dove Herzen tempesta il suo paese di proclami riformatori.
Finalmente il giovane Alessandro II – che sembra emulare il nonno per la sua liberale considerazione del mondo occidentale – promulga l’editto di emancipazione dei servi della gleba (3.3.1861). I contadini acquistano una piena libertà personale, ma si disinteressa delle regole per conferire le assegnazioni in proprietà, una distribuzione del latifondo basata su formali piani generici privi di praticità.
Una distribuzione che il Mir (la comunità del villaggio) dovrebbe programmare in relazione alle astratte necessità delle famiglie, ma resta aperta la questione dei nuclei familiari emancipati, che hanno mantenuto in proprietà quote di terra inferiore a quella che ne hanno coltivato da servi del proprietario latifondista.
Nondimeno, il prezzo del riscatto è moltissime volte superiore al valore della terra assegnata. Questa appare ben presto la croce e la delizia della grande Riforma. Il non avere regolato la materia nei quasi 60 anni successivi, costituirà sicuramente una delle cause scatenanti della Grande Rivoluzione del 1917.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
Hai voglia di approfondire l’argomento e vorresti un consiglio? Scopri i libri consigliati dalla redazione di Fatti per la Storia, clicca sul titolo del libro e acquista la tua copia su Amazon!
- Per la Russia zarista, vd. ROGGER HANS, La Russia prerivoluzionaria, 1881-1917, Il Mulino, Bologna, 1992.
- Sulla situazione sociale e culturale, vd. Franco Venturi, Il populismo russo, Torino, 1952 (sec. ed. 1972).
- Per la letteratura, vd. PAOLO NORI, I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa, 1820-1991, Utet, 2019.
- Per la guerra di Crimea, vd. ORLANDO FIGES, Crimea, l’ultima Crociata, Torino, Einaudi, 2015.