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Articolo e foto di Ilenia Sarnella
L’antichità e i modelli: Napoleone allo specchio
Percorrendo la passeggiata fine-ottocentesca del lungotevere romano, sulla riva sinistra e all’altezza di ponte Umberto I, ad alcuni può sembrare strano imbattersi, a Roma, in un museo dedicato a Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi: eppure è proprio così! All’angolo con via Giuseppe Zanardelli e al civico 1, su uno splendido palazzo seicentesco restaurato nei primissimi anni del Novecento (sulla scia delle recenti riorganizzazioni urbanistiche del Tevere e per volontà dell’allora possidente Giuseppe Primoli), possiamo notare dei grandi festoni rossi che ci invitano ad entrare e a ripercorrere i ricordi di un capitolo molto importante per la città.
Fu lo stesso proprietario dell’edificio a recuperare la ricca collezione e a renderla pubblica: si trattava, infatti, di un vicino erede del noto condottiero francese, discendente dal ramo familiare (da parte del fratello di Napoleone, Luciano) che aveva trovato rifugio a Roma, una volta caduto l’impero. Egli si occupò, personalmente e per tutta la vita con devozione, di comprare e riunire gli oggetti privati, dimessi e quotidiani appartenuti al grande comandante.
In questo modo il parente romano, grazie alla sua ricca cultura e sincera passione per l’antiquariato, aveva donato alla storia l’indispensabile contributo di aver arricchito la testimonianza della sua famiglia con una nuova prospettiva privata. Molti se ne dimenticano ma Roma divenne, anche se per un breve periodo, seconda capitale dell’Impero napoleonico di Francia e, oggi, possiamo ripercorrerne la storia camminando in quest’ala al pianterreno di Palazzo Primoli – che il nobile, alla sua morte, aveva lasciato in dono al comune di Roma, ai cittadini romani e ai cittadini del mondo che vi fossero capitati.
Iniziamo ora, in occasione dei 200 anni dalla sua morte, a ripercorrere le vicende che legarono profondamente Napoleone Bonaparte a questa città, partendo dai subbugli che, nel XVIII secolo, infuocarono Parigi: è il 1793 e i francesi riscrivono la storia inviando alla ghigliottina il proprio re Luigi XVI e falciando, insieme a lui, la potente monarchia assoluta che per secoli aveva dominato il paese.

Com’è evidente, la nuova Francia insorta si trovò presto a fare i conti con le grandi monarchie europee che, sentendosi minacciate dall’incalzante vento rivoluzionario, avrebbero tentato di riportare il paese sotto l’antico regime. Ed è qui che le vicende di Napoleone Bonaparte – nei suoi due volti, ossimorici tra loro, di liberatore e tiranno (prima come generale di un cospicuo esercito di rivoluzionari francesi e poi come primo console e imperatore del neonato impero europeo) – si legarono inscindibilmente con le vicende italiche e, in poco tempo, anche con quelle romane.
Secondo i piani del Direttorio francese, il nord Italia sarebbe dovuto diventare un “territorio cuscinetto” per proteggere la Francia dalle offensive austriache, che proprio qui si erano stanziate. Con il passare del tempo, però, divenne necessario esportare i nuovi ideali illuministi di stato e popolo e infervorare gli animi degli italici, aizzandoli contro il dominio papale e contro il debole dominio nobiliare – con lo scopo di designare (nei nuovi insorti) un valido alleato contro gli antichi giochi di potere, innervati nella gestione del vecchio continente.
È proprio in questa occasione che, per la prima volta, iniziò ad aleggiare nell’aria la possibilità di riunire i “patrioti” della penisola sotto un’unica nazione. Per la contestualizzazione del paradosso che vide i francesi spogliare le nostre ricchezze storico-artistiche e forzare militarmente i nostri confini (per di più con un ampio – anche se non plenario – consenso popolare, da parte dei territori occupati), è bene ricordare che quello che un giorno sarebbe diventato lo Stato italiano, al tramonto del XVIII secolo era ancora estraneo ai discorsi unitari e nazionali che avrebbero animato, invece, i due secoli a venire.
La penisola italiana alla fine del Settecento
Lo stivale si presentava allora così endemicamente diviso in numerosi stati e statarelli di diverso ordinamento: oltre a una manciata di ducati e piccole repubbliche sparse per lo più nel nord della penisola, spiccavano per la loro estensione il grande regno di Sardegna, l’antica Repubblica di Venezia, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio (con capitale a Roma), che a sud confinava con i vasti territori annessi al Regno di Sicilia e al suo re, Ferdinando IV di Napoli.
Il generale Napoleone – nato ad Ajaccio nel 1769 e dunque nella Corsica da poco annessa al regno di Francia – all’età di soli 27 anni concluse con successo la sua prima campagna italica (datata 1796), costringendo le truppe austriache, che avevano occupato la penisola, a ritirarsi: la monarchia asburgica aveva minacciato la nuova Francia e il generale aveva risposto, perfino, arrivando a minacciare la potente Vienna, superando – con poche decine di migliaia di soldati, male equipaggiati e stanchi – il valico alpino del Brennero (oggi al confine tra il Trentino-Alto Adige e l’Austria, nei pressi della provincia autonoma di Bolzano).
É a questo punto che il non ancora trentenne Napoleone si trovò nella posizione di poter determinare, lui stesso, le condizioni di resa del ricco regime asburgico, disegnando i confini di queste due potenze europee: egli commise però il fatale errore di cedere lo stato veneto al regno degli Asburgo – cessione che venne ufficializzata nel trattato di Campoformio (datato 1797), in cambio del riconoscimento della neonata Repubblica Cisalpina. Si accese così il risentimento degli italici più patriottici e il generale iniziò a perdere, inevitabilmente, un numero non trascurabile di adepti sul territorio: neanche questo però, almeno nei primi tempi, riuscì a scalfire l’idolatria per il nuovo generale “liberatore”.
Gli stati e staterelli, in cui era divisa la penisola, uno dopo l’altro, insorsero (ad eccezione della Sicilia, dove si rifugiò il re Borbone) e appoggiarono gli avamposti francesi. Roma non fece eccezione e, nel febbraio del 1798, il generale francese Louis Alexandre Berthier entrò nella capitale dello Stato Pontificio, avanzando insieme ai suoi connazionali – armati per lo più di baionette, fucili e lame – senza colpo ferire: partirono da nord (sul Monte Mario), per poi varcare la Porta del Popolo che aprì loro la strada fino al Quirinale, al Campidoglio e alla fortezza di Castel Sant’Angelo.

Roma e Napoleone Bonaparte
Quest’ultimo edificio secolare, infatti, aveva smesso di assumere la funzione di mausoleo già in epoca tardo-imperiale, quando il primo imperatore d’Occidente, Onorio, incluse il sepolcro dell’imperatore Adriano nelle mura circondariali della città, trasformandolo per sempre in un castellum: dal XIV secolo verrà puntualmente modernizzato, rinforzato e collegato ai corridoi del complesso di San Pietro (per salvaguardare l’incolumità del vescovato).
Ma la sua robustezza non si rivelò affatto sufficiente per resistere ai francesi: i soldati pontifici si arresero e Papa Pio VI, rifiutatosi di rinnegare il potere temporale, fu costretto a lasciare la città ai romani insorti. Nel breve arco di un biennio, dunque, il nostro castello fortificato batté tre diverse bandiere: la bandiera francese della recente occupazione; quella dei napoletani (insorti per cacciare gli invasori e restaurare il potere temporale della Chiesa); e nuovamente quella del Vaticano. La Chiesa, nel frattempo – dopo il breve periodo in cui il precedente vescovo di Roma era stato tenuto in cattività a Siena (fino al giorno in cui morì dimenticato a Valenza all’età di 81 anni) –, aveva eletto nel 1799 il nuovo papa, Pio VII.
Il vescovato poté dunque tornare a Roma, ma, ormai, era ben conscio di non potersi più esimere dallo scendere a patti con le nuove condizioni che, in futuro, gli avrebbe imposto la nuova Francia: il 15 luglio 1801, infatti, il papa è costretto a firmare un concordato con Napoleone, che lo costringeva a privarsi definitivamente di alcuni beni (già espropriati dai rivoltosi durante i recenti moti romani) e a cedere all’imperatore il diritto di scegliere e nominare i vescovi.
Le truppe francesi lasciarono la città (per non ritornarvi più fino al 1805), ma non passò molto tempo che Napoleone iniziò a paventare mire espansionistiche e nuovi ponti dinastici con le potenti famiglie romane del tempo: acquistò Villa Medici nel 1803, dalla famiglia Asburgo-Lorena di Toscana, e contribuì nello stesso anno a maritare la sorella Paolina con Camillo Borghese – rendendola in questo modo, a tutti gli effetti, una vera principessa romana.

Galleria Borghese e Villa Medici
Oggi, a Galleria Borghese, possiamo ammirare gli affascinanti lineamenti della giovane Paolina, che (a venticinque anni) si fece immortalare in un blocco di marmo bianco di Carrara, scolpito tra il 1804 e il 1808 dal famosissimo artista Antonio Canova – il pezzo, pagato alcune migliaia di scudi, era stato commissionato dal nuovo marito di sua “Altezza Imperiale”, per celebrare la loro recente unione in matrimonio. Per chi fosse curioso, su internet, si può trovare facilmente la foto che (nel 1938) immortalò Benito Mussolini e Adolf Hitler intenti ad ammirare questa splendida opera d’arte, in occasione della visita del cancelliere tedesco a Roma – i due dittatori, infatti, ben conoscevano e ammiravano la storia di quel trascinatore di folle che fu il nostro imperatore rivoluzionario.
Il museo statale, ad ogni modo, è visitabile previa prenotazione: venne adibito al centro di Villa Borghese (nella struttura di Villa Borghese Pinciana) e ricavato dalla ricchissima collezione privata della famiglia – che qui aveva deciso (nel XVII secolo) di costruire la propria lussuosa dimora, con l’intervento di grandi artisti (come il napoletano Gian Lorenzo Bernini). Circa un secolo più tardi, la struttura venne trasformata (dagli stessi proprietari) in una tenuta agricola e in un palazzo d’esposizione privato per le opere d’arte, antiche e moderne, acquistate nel tempo dai nobili – fino a che, all’alba del Novecento, il Comune di Roma non la comprò, rendendone pubblica la collezione e il vasto complesso di giardini che la inondava.
Altre tracce che la principessa lasciò sulla nostra città, per chi fosse curioso, si possono rinvenire in quei colorati alberi di arance – uno dei tanti ma sconosciuti “frutteti” di Roma – sul viale XX Settembre (all’altezza del Ministero del Tesoro), qui piantati per ricordare l’aranciera della villa “di campagna” appartenuta a Paolina Bonaparte: chiamata, appunto, Villa Paolina o Villa Bonaparte, sarà poi cancellata dalle future riorganizzazioni urbanistiche della capitale.
Le mura del frutteto, che allora la circondava, si trovavano sulla soglia di Porta Pia, dove (nel 1870) i bersaglieri risorgimentali si apriranno una breccia e faranno di quei giardini il loro teatro di guerra: grazie alla sua posizione strategica infatti, in quell’occasione, l’edificio era servito a controllare i soldati che, nascosti tra gli alberi, tentavano di farsi largo nel varco per occupare militarmente la città.
Da quel giorno i giardini entrarono in una lunga fase di decadenza – prima della loro totale cancellazione -, fino a che i perimetri della villa non vennero poi drasticamente ridimensionati e la ricca vegetazione (che la circondava da ogni parte) ridotta, oggi, a quella piccola fetta di prato che possiamo vedere al confine con le mura aureliane – volgendo le spalle alla porta, appena varcate le antiche mura, sulla destra (si vedano anche le poche tracce verdi che si possono riconoscere dalle immagini satellitari).

La struttura in sé, invece, è fortunatamente sopravvissuta a ogni peripezia e ospita, nelle sue magnifiche aule, l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede (in via Piave, 23): grazie ai recenti restauri (iniziati negli anni ’80), sono emerse le decorazioni apposte alla villa dalla principessa e coperte negli anni a venire da una serie di imbiancature.
Ma per tornare al nostro Napoleone, il complesso di Villa Medici – che abbiamo menzionato e che il prossimo imperatore aveva acquistato a Roma – si trovava, e si trova ancora, vicino alle mura cittadine presso la collina del Pincio (sulla sommità delle scale di Piazza di Spagna e accanto a Trinità dei Monti): Napoleone ne scorporò alcuni giardini (in particolare quelli vicini alla Porta del Popolo) e li donò al comune della città. Una volta annessa la capitale al suo impero, il nuovo capo dello stato avrebbe poi voluto trasferire in quest’area nord il nuovo ingresso principale (rivolto verso lo stato sovrano di Francia) e abbellire il pendio affacciato su Piazza del Popolo con una nuova passeggiata pubblica: il “Giardino del Grande Cesare” (opera che non verrà mai portata a termine).
Il moderno imperatore, infatti, aveva presto notato che la città non veniva riorganizzata da tanto tempo e che era in grave mancanza di quelle infrastrutture pubbliche dove i cittadini avessero potuto godere di un momento ricreativo e tenersi in salute – come abbiamo fatto presente, l’attuale villa pubblica più grande e nota di Roma, Villa Borghese, sarebbe stata acquistata dal comune soltanto un secolo più tardi.
Di questo ingresso padronale, dicevamo, ci rimangono purtroppo soltanto alcuni progetti e disegni degli architetti che se ne occuparono. Gli architetti Louis-Martin Berthault e Giuseppe Valadier avevano lavorato per anni a quei progetti, apportando i livellamenti e le prime sistemazioni necessarie al nuovo assetto del giardino, ma – quando il papa si reinsediò a Roma (e si trovò ad avere a che fare con i lavori di sistemazione della città, intrapresi da Bonaparte) – fu soltanto Valadier a occuparsi di concludere i lavori e, questa volta, necessariamente con un budget più modesto. Il risultato è, più o meno, la piazza che oggi ammiriamo nelle sue eleganti fattezze.
Napoleone e il mito di Roma
Possiamo provare ad immaginare che fu proprio lo splendido obelisco egizio di Piazza del Popolo (risalente al 1300 a.C.) a suscitare questo slancio creativo intuito dal generale, ma portato a compimento dal grande artista e architetto – egli, infatti, ne moltiplicò i riferimenti nelle sfingi e nelle statue che, a raggio, lo circondano da ogni parte. Il reperto venne trasportato via mare a Roma, per l’arena del Circo Massimo e per volontà di Augusto (nel 10 a.C.), ma, fatto a pezzi durante le incursioni barbariche, fu ricomposto al centro della piazza nel XVI secolo.
Gli egizi affascinavano non poco il giovane Napoleone, che proprio nelle loro terre aveva condotto la sua seconda grande campagna militare (svoltasi appena dopo quella italica): ma la campagna d’Egitto, a differenza di quella d’Italia, si era rivelata costosa ai francesi – sia in termini di denaro che di uomini – e, in sostanza, tornò utile solamente per rimpolpare le sale del Louvre (diffondendo la moda di quei costumi esotici nella Parigi di allora) e per mostrare in patria la propria gloria militare.

Quest’ultima accortezza l’aveva probabilmente imparata da quel suo collega, Augusto che, quasi due millenni prima, era solito ingraziarsi le folle con lo stesso metodo – e l’obelisco di cui abbiamo parlato ne è una prova tangibile. Fu ancora Valadier, lavorando per il papa, a incorniciare il reperto egizio nella splendida fontana che oggi lo rende più vivo: i bambini non possono fare a meno di giocare con i suoi leoni e l’acqua, sempre corrente, dona aria fresca e un piacevole suono a chi avesse voglia di leggere i geroglifici, autentici, apposti sull’obelisco.
Il 2 dicembre 1804 (nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi), Napoleone si incorona personalmente “Imperatore dei francesi” e al cospetto del papa – accusato in seguito di aver accettato la collaborazione, nonostante le sorti che erano toccate al suo predecessore. Questo nuovo imperatore non mise mai piede a Roma, ciononostante il suo interesse per la città era sempre crescente: la propaganda imperiale, infatti, andava raffinandosi proprio sulla storia dei Cesari.
Al momento della sua elezione, Napoleone venne appoggiato da uno stracciante consenso popolare “plebiscitario” (com’era già accaduto con i referendum del 1799 e 1802): i documenti – certamente contraffatti al momento del conteggio – ci riportano circa tre milioni e mezzo di voti favorevoli contro poco più di ottomila voti contrari (la Francia, lo stato più popoloso del tempo, contava circa 30 milioni di abitanti – ma si ricordi che votavano solo gli uomini, e non le donne, che avevano superato la maggiore età, stabilita a 21 anni).
Non mancava al riguardo, ancora una volta, il riferimento costante al primo imperatore di Roma, Augusto, che aveva rafforzato la sua carica con un plebiscito, distanziandosi in questo da ciò che invece aveva rappresentato il dittatore Giulio Cesare: il generale Bonaparte nutriva comunque un profondo rispetto anche per quest’ultimo grande geostratega romano (degno erede della fama di Alessandro Magno) e si considerava un suo valido erede, in quanto carismatico rivoluzionario e arringatore – tanto che in esilio a Sant’Elena, costretto già alla pensione, si mise a leggere i resoconti bellici redatti dal grande conquistatore e ne stilò dei commentarii.
Le sorti di Giulio Cesare però riportavano alla mente, più che altro, i recenti subbugli politici e rivoluzionari di Francia: non a caso il fratello “ribelle” di Napoleone – Luciano Bonaparte, che pure ebbe un ruolo centrale in quegli anni difficili -, oltre a trasferirsi presto nella capitale pontificia, durante gli anni degli scontri cittadini si sarebbe fatto chiamare Bruto Bonaparte (per fondere nel suo nuovo nome le due figure del cesaricida per eccellenza e parricida, Marco Giunio Bruto, e del fondatore dell’antica Repubblica Romana, Lucio Giunio Bruto, che nel V secolo a.C. aveva definitivamente cacciato i re Tarquini dalla città).
Napoleone, invece, diviso tra l’ambizione del generale rivoluzionario e quella dell’aspirante imperatore, era affascinato da entrambi i volti di Roma Antica, sia la Repubblica che l’Impero. Col tempo, però, egli si avvicinerà sensibilmente (come abbiamo già detto) alle aspirazioni artistiche e urbanistiche di Augusto – primo imperatore e erede di una Roma secolare costruita in mattoni, che lui personalmente si occupò di far ristrutturare in marmo (rendendola degna della sua investitura a capitale eterna di un impero).
Anche Bonaparte aveva iniziato a concepire il progetto di una Parigi che somigliasse più a Roma e – con la sua conquista – di una Roma che somigliasse più a Parigi. A distanza di più di un millennio e mezzo, il lettore attento della propaganda augustea avrebbe voluto rendere le due città fiere del nuovo importante titolo, apportando una serie di moderne ricostruzioni urbanistiche, senza però cancellarvi del tutto le tracce storiche – di cui si servì, invece, per consolidarne il nuovo status.
Il numero civico, le aree archeologiche pubbliche e (come abbiamo accennato sopra) i giardini pubblici sono solo pochi esempi delle numerose modernizzazioni urbane che vengono pensate e introdotte, per la prima volta, proprio in questo clima ancora illuminista. Nel caso di Parigi, certo, i nuovi assetti urbanistici iniziarono anche in occasione della recente guerra civile, che ne aveva distrutto strade, case e edifici, ma – come ci fa notare lo studioso napoletano Carlo Franco (venuto a mancare di recente) – «In epoca di classicismo […] era ancora usuale il richiamo ai paradigmi antichi».
Anche Napoleone, come tanti prima di lui, forgiò la sua propaganda ideologica rispolverando la storia imperiale di Roma: la superò, invece, e consolidò, richiamandosi all’epoca carolingia – che per prima aveva iniziato a forgiare un’idea di Europa (imperniata sulle regioni franche) e aveva istituito una “fabbrica” culturale europea, affacciata tanto sul proprio passato quanto sul proprio futuro. Carlo Magno, Imperatore dei Romani, (in pieno Alto Medioevo) aveva creato una nuova cultura universalista, moltiplicando gli amanuensi nelle officine scrittorie e istituendo la “riproduzione in serie” dei manoscritti antichi (per allargare l’alfabetismo e diffondere l’antica sapienza nel neonato impero).
Fu così che l’Imperatore dei francesi, costante nella sua pragmaticità e innovatività – in guerra come in politica -, decise di investire nelle nuove scienze tecniche, archeologiche e urbanistiche. Raccolse, inoltre, ed esibì al Louvre – l’allora “Musée Central des Arts” (uno dei primissimi progetti pubblici intrapresi dal nuovo governo rivoluzionario, nel 1793) – i numerosi reperti storico-artistici e archeologici che, metodicamente, venivano rubati (per la minor parte), comprati (per la maggiore) o rinvenuti, nei primi veri sistematici interventi di scavo delle varie regioni occupate, e di Roma in particolare.
Pensiamo alle parole dello storico Franco Venturi mentre descriveva l’epoca di dominio napoleonico: per lo studioso non si trattò mai di «pura conquista militare», ma di «compenetrazione ed urto di civiltà». Sarà questa sua qualità a favorire, dal 1810, le prime grandi sistemazioni dell’area archeologica, oggi centro storico di Roma. Basti pensare che le prime opere di scavo ufficiali – di cui si occupò il nuovo governo francese della città – portarono alla luce i sotterranei del Colosseo, che fino a quel momento (dal tramonto dell’Impero romano d’Occidente) erano rimasti interrati per il disuso e dimenticati nei secoli.

Grazie ai recentissimi restauri, oggi è visitabile previa prenotazione e consiste in un labirinto di mura – nascosto sotto l’arena (il palcoscenico) – che funzionava da “dietro le quinte” dello spettacolo: qui, leoni e gladiatori (insieme a cani, tigri, struzzi e animali prelevati da tutto l’impero, o scenografie di ogni genere, come alberi, fiori e rocce) aspettavano il momento di poter sobbalzare sull’arena, usando dei marchingegni – che assomigliavano agli ascensori di oggi – per sorprendere gli spettatori e comparire sul palco dalle botole ricavate nel pavimento.
Antesignana dei nostri stadi e ideata unendo due teatri “greci” (schiena contro schiena), questa particolare struttura che li ospita fu inventata dai romani stessi e chiamata “anfiteatro” (dal greco, “due teatri”). Ma perché interessarsi proprio al Colosseo? In un’intervista – riguardo alcune carte contenenti i primissimi disegni a china dell’ipogeo, realizzate da Valadier stesso – il vicedirettore dell’Archivio di Stato (dove sono custodite le carte), Orietta Verdi, propone una riflessione al riguardo: «lo Stato di Napoleone si imponeva con uno spirito laico e sulla base di questa visione il Colosseo divenne l’oggetto di nuove indagini». Oltre a questa importante scoperta, gli scavi dissotterrarono una parte dell’arco di Costantino e la Meta Sudans (distrutta in epoca fascista, per fare posto alle parate militari del regime).
Così Napoleone procedette nel restauro di quei monumenti che rappresentavano la Roma laica dei Cesari – o comunque, non cristiana. Scrive l’allora prefetto di Roma (il conte Camillo de Tournon, di origine francese) all’allora ministro degli Interni imperiale, Montalivet – in una lettera di resoconto dei lavori appena iniziati: «il Colosseo fu sgombrato dalla terra che ne copriva i due terzi dell’ordine inferiore, i templi di Antonino, della Concordia, di Giove Tonante, di Vesta, della Fortuna virile furono essi pure sensibilmente sterrati, e le loro parti meglio conservate e più interessanti restituite all’ammirazione di tutti gli amici dell’arte e dell’antichità»; la seconda parte del progetto descritto prevedeva una passeggiata che unisse i siti, ma il prefetto suggerisce, nella stessa lettera, di provvedere anche alla sistemazione del colle Palatino, «immenso museo tutto coperto dai magnifici avanzi dei palazzi dei cesari», da comprendere necessariamente «nella parte di giardino da piantarsi, e tale giardino, per i monumenti che dovrà racchiudere, per i ricordi di cui è pieno, sarà certamente unico al mondo».
Molti studiosi concordano nel determinare la nascita dell’archeologia moderna nel 1764, con la pubblicazione dell’opera di J. J. Winckelmann, “Storia delle arti del disegno presso gli antichi”. Non ci stupisce, allora, la profonda ammirazione che l’aspirante imperatore provava nei confronti del più grande scultore veneto dei suoi tempi, il già citato neoclassicista più apprezzato e richiesto da tutte le corti d’Europa: Antonio Canova.
Siamo negli anni tra il 1800 e il 1802. L’artista, superati da poco i quarant’anni d’età e all’apice del suo successo (lui che per primo aveva avuto il coraggio di misurarsi, imitandoli, con i grandi del passato), aveva acquistato uno studio personale a Roma – o, come lo definiva il suo amico e erede Antonio d’Este, una “officina statuaria”: adibita nella sua casa al Rione Campo Marzio (lontana soltanto pochi passi dal Tevere), oggi si trova all’angolo tra le attuali via delle colonnette e via Antonio Canova.
Nel caso in cui la si voglia vedere, la casa dell’artista è facile da rintracciare, grazie alla toponomastica e grazie alle targhe commemorative stuccate nel muro, insieme ad altri splendidi frammenti di statue, fregi e architravi classiche. Lo scultore si trovava dunque nella sua città di adozione quando, sollecitato da papa Pio VII (per ragioni diplomatiche), intraprese un lungo viaggio di due settimane per raggiungere la corte napoleonica a Parigi, con l’ordine di prestare la propria arte a quel Bonaparte che aveva ceduto la sua terra natia a una corona straniera. Gli era stato commissionato un busto e una statua.
Ci vollero alcuni giorni per ricavare sui primi modelli, in creta e in gesso, il volto del generale allora trentatreenne: infine, per ricavarne le opere definitive, una volta ritornato nella sua casa-studio, avrebbe dovuto lavorare a lungo il marmo di Carrara, che arrivava in blocchi nel non distante porto di Ripetta (il secondo porto di Roma per importanza e situato a pochi passi da piazza di Spagna – e, quindi, dalla sua casa-studio). Il ricavato fu uno splendido busto conservato oggi all’Ermitage di San Pietroburgo – che più che farci venire in mente i lineamenti di Napoleone Bonaparte ci ricorda le fattezze degli antichi imperatori romani – e un’interessante statua a figura intera conservata nell’Apsley House di Londra.
In occasione di questa visita professionale a Parigi, dunque, il primo console e l’artista ebbero ampio modo di parlare e confrontarsi di persona su vari temi: una leggenda vuole che lo stesso Napoleone chiese a Canova se a Roma si piantassero alberi e si curassero gli spazi verdi come si faceva nella moderna Parigi; il veneziano aveva risposto che a Roma si preferiva erigere colonne e obelischi. Si tratta di una leggenda, certamente, ma la storia vuole che, per celebrare e commemorare la battaglia vinta dalla Grande Armata (ad Austerlitz, nel 1806) contro l’esercito austriaco, l’imperatore fece erigere a Parigi, al centro di piazza Vendôme, una colonna in bronzo – ricavata dalla liquefazione dei cannoni che decisero le sorti favorevoli della guerra – dove era esibita una statua del Re Sole a cavallo, prima che i recenti insorti la distrussero.
Il suo modello è esplicitamente la Colonna di Traiano a Roma, situata tra l’attuale via dei Fori Imperiali e piazza Venezia – tanto che, nelle prime spoliazioni della città (avvenute durante la prima occupazione sul finire del Settecento), i francesi avevano anche pensato di trasferirla in Francia via nave, senza però esserci riusciti. Ne vennero riprodotti i suoi bassorilievi – che anche qui commemorano una grande conquista (inferta alla Dacia dall’armata imperiale di Traiano); la sua incavatura interna – per l’accesso alla terrazza di avvistamento in cima; la sua imponente altezza di circa 40 metri; e perfino il succedersi, sulla cima, di statue rappresentanti diverse figure di spicco, rispetto ai diversi gusti nei secoli – nel caso della colonna romana, la statua di Traiano venne persa in epoca medievale e sostituita da quella di San Pietro, nel XVI secolo.
V’è però una non indifferente divergenza: la Colonna Traiana (scolpita nel marmo, dorata e poi dipinta per tutta la lunghezza dei suoi 200 metri di fregio) fu pensata per essere “letta” dai frequentatori della Biblioteca Traiana (greca e latina) – che, costruita al centro del nuovo foro imperiale, si affacciava sul monumento dai due lati, con grandi finestre nei vari livelli e un loggiato. La colonna francese, invece, venne posizionata al centro della piazza (dove si trova tutt’ora, nonostante le continue rappresaglie succedutesi fino al XIX secolo) e tenuta lontana dagli occhi dei curiosi che ne avessero voluto leggere la storia. Ma purtroppo, col tempo, anche questa differenza è andata appianandosi e le due biblioteche romane antiche non ci sono più: oggi, i due monumenti trionfali si richiamano fortemente a vicenda, seppur lontani circa 1400 chilometri.
Nel 1805 Napoleone si era proclamato Re d’Italia (attenzione però! parliamo di un’Italia sperimentale, con capitale a Milano, e notevolmente ridimensionata rispetto ai confini che conosciamo oggi), nel 1808 aveva moltiplicato, a Roma, il numero delle sue truppe militari e, nel 1809, aveva ufficialmente investito la città del titolo di capitale dell’impero (seconda solo a Parigi). Il corpo di polizia della città di colpo iniziò a parlare francese, così come il governo politico e le nuove famiglie aristocratiche della città; le tasse non venivano più pagate all’antico corpo nobiliare o allo Stato del Vaticano, ma a esattori francesi che le devolvevano nelle tasche di organi francesi; le chiese furono trasformate in stalle; venne stabilito il sistema decimale comune in tutta Europa (per facilitarne i traffici commerciali); e venne diffuso il nuovo comune Codice Napoleonico, il matrimonio civile e il divorzio.
Come abbiamo fin qui descritto, anche il fervore artistico-propagandistico di Napoleone andava perfezionandosi durante questi anni: Roma venne investita di un crescente interesse e anche la zona intorno alla Colonna di Traiano venne, in poco tempo, travolta dallo stesso fervore archeologico che (sopra) abbiamo visto all’opera con i lavori per il Colosseo e la Porta del Popolo. Inizialmente il progetto era quello di liberare il basamento della colonna (sepolcro delle ceneri dell’Imperatore Traiano e interrato sotto il livello calpestabile), sgomberando la piazza circostante e valorizzando il monumento.
Come ci racconta in un’intervista Nicoletta Bernacchio – studiosa e curatrice di una mostra su Napoleone (allestita in questi giorni, in occasione del bicentenario dalla sua morte, nei suggestivi antichi corridoi dei Mercati imperiali di Traiano): «Napoleone avrebbe voluto sostituire la fossa maleodorante che circondava il monumento, con una grande piazza ellittica», di cui però, ancora una volta, oggi ci rimangono solo i disegni delle mani di noti architetti – come il già citato Valadier, ma anche il romano Giuseppe Camporese.
Fino alla fine dell’Ottocento la colonna era infatti recintata in ferro e si trovava al centro di una piccola piazza rettangolare, tutta circondata di edifici e chiese: i due architetti, nel 1811, iniziarono una serie di sterramenti nel Foro Traiano, che subito portarono alla luce dei reperti stupefacenti lì nascosti (molti dei quali, dopo aver viaggiato tra Francia e Italia, sono oggi custoditi nella mostra permanente dei Mercati di Traiano). I piani erano cambiati e i progetti della piazza erano diventati inutilizzabili: avevano scoperto la Basilica Ulpia e non l’avrebbero mai sotterrata sotto una piazza.
Si passò, allora, «dalla concezione dello scavo finalizzato al ritrovamento di reperti antichi allo studio del sito archeologico, anche sotto il profilo del suo impianto architettonico» – cito lo studioso Marco Pupillo. I lavori vennero finanziati con i soldi della Beneficenza che avevano versato i cittadini francesi (non italiani) e venne indetto un nuovo bando che vinse l’italo-svizzero Pietro Bianchi: l’ingegnere, architetto e archeologo – disegnatore, tra le altre cose, di piazza del Plebiscito a Napoli – (tra il 1812 e il 1814) portò avanti una serie di demolizioni (di strutture considerate di nessuna importanza artistica) che investirono anche il Monastero dello Spirito Santo e il Convento di Santa Eufemia, colpevoli d’intralciare i lavori di sterramento dell’area.

Vennero allora scoperti i porticati della Basilica Ulpia e una parte del gruppo scultoreo dei Daci (che ne decorava la facciata principale) – oggi conservati nel già citato Museo dei Mercati di Traiano, insieme ad altri due reperti del gruppo rinvenuti soltanto tra il 1998 e il 2000. La colonna imperiale, infatti, si trovava appena sul retro della basilica: questa scoperta aveva fatto pensare, al prefetto di Roma, di poter convertire quest’area storica (al tempo ai margini della città) in una splendida passeggiata pubblica e culturale, che, allo stesso tempo, avrebbe avuto la funzione di consolidare ancora di più le radici profonde che la nuova rivoluzione napoleonica si vantava di rappresentare.
Napoleone e il palazzo del Quirinale
Siamo così giunti all’ultima tappa del nostro tour virtuale e storico, che per Napoleone sarebbe invece dovuta essere la prima, una volta raggiunta la seconda capitale – se mai vi fosse arrivato. Il Palazzo del Quirinale, infatti, venne scelto come appartamento dell’imperatore a Roma. Oggi residenza del nostro Presidente della Repubblica, un tempo questo complesso architettonico era la sede abitativa, complementare, del pontefice in veste di sovrano – dal XVI secolo circa al 1870 (quando divenne la residenza ufficiale dei Savoia e del Re d’Italia).
Il papa si trovava qui quando, nella notte tra il 5 e il 6 luglio del 1809, arrivò l’ordine di rapirlo in tutto silenzio: venne caricato di forza su una berlina e portato in una destinazione a lui ignota (che noi sappiamo essere Grenoble – anche se, un mese più tardi, si decise di trasferirlo a Savona). Dati i gusti neoclassici del tempo, il palazzo risultava decisamente fuori moda e tutti quei riferimenti alla religione cristiana, di certo, non avrebbero fatto sentire a casa il nuovo proprietario del palazzo. In attesa di ospitare il nuovo Capo dello Stato (cosa che non avverrà mai), il Quirinale diventò allora teatro di numerosi talenti all’opera, come l’architetto romano Raffaele Stern, il pittore francese Jacques Dominique Ingres e lo scultore Bertel Thorvaldsen di Copenaghen.
Come è accaduto con la maggior parte dei progetti pensati durante il governo napoleonico (data la brevità del suo Regno), anche i disegni della piazza omonima – e antistante il palazzo – rimasero solo un’idea dei progettisti, ma una parte dei lavori interni (realizzati in fretta, tra il 1811 e il 1813) sono ancora visibili e ben conservati: il cosiddetto salottino napoleonico, che un tempo serviva da toilette e spogliatoio; il suo studio personale (posto nei piani superiori), dotato di ampie finestre, da cui si poteva avere uno sguardo su tutta Roma; e il salotto dell’appartamento dell’imperatore, ricavato anch’esso nel nucleo più antico del palazzo seicentesco. Tutte le sale si distinguono per i numerosi riferimenti alla Roma laica: tutti, Cesari e corone d’alloro decorano, in stucchi, pitture ad olio e arazzi, le pareti e i soffitti di queste ampie aule.
Papa Pio VII poté reinsediarsi nella capitale del suo Stato soltanto nel 1814 e parte dei lavori effettuati durante il periodo napoleonico, sia nel Quirinale che su tutto il territorio di Roma e d’Italia, vennero cancellati: fu questo però un punto di partenza per i nuovi riassestamenti della città, che verranno inizialmente assunti dallo Stato Pontificio (all’alba del suo ritorno nella capitale) e poi ripresi, in maniera massiccia – alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento – con l’avvento di Roma nuova capitale del Regno d’Italia.
La prossima volta dunque che, passeggiando sul lungotevere romano, vi ritroverete davanti a quei festoni rossi appesi a Palazzo Primoli, di certo non rimarrete di stucco ma, anzi, magari entrerete e vi ricorderete di quella volta che Roma – sotto la pressione dei giovani e rivoltosi italiani che sognavano un futuro moderno, “civile”, laico e, soprattutto, diverso – rischiò di diventare per sempre francese.