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Il termine Rivoluzione
La parola “Rivoluzione” evoca in chi la legge sentimenti di assolutezza: se una rivoluzione si compie, difficilmente si torna indietro. E in effetti la definizione del termine (tratta da “Enciclopedia Treccani”) non lascia troppo spazio all’immaginazione:
Una Rivoluzione è un cambiamento radicale dell’ordinamento politico di uno Stato, che viene ottenuto in modo rapido e spesso anche violento; si verifica quando un gruppo sociale o un’intera popolazione, non sentendosi rappresentati dalle istituzioni o ritenendosi vittime di ingiustizie dal punto di vista economico o umano, decidono di rovesciare queste istituzioni e di stabilire un nuovo ordinamento.
Ed è proprio lo stabilirsi di un nuovo ordinamento una delle conseguenze di una rivoluzione. Che sia essa politica, economico-sociale, culturale, persino astronomica: l’esito finale sarà certamente il risultato di un processo completo che, nel caso di una rivoluzione politica, sovvertirà (in modo più o meno definitivo) la situazione di partenza, restituendo agli osservatori contemporanei – e anche ai posteri – una fotografia della realtà completamente diversa; stravolta, potremmo dire.
Del resto, c’è differenza tra una rivoluzione e una rivolta. Entrambe possono portare con sé una buona dose di violenza, ma senz’altro è la rivoluzione a produrre effetti duraturi nel tempo, sulla società e nella Storia. Allo stesso modo, una rivoluzione non ha la stessa matrice di una riforma: se la prima parte dal basso (dal popolo, o comunque dalle classi sociali non dominanti), una riforma parte dall’alto (cioè dalla classe dominante, reggente) e non ha certamente come sua ragion d’essere un capovolgimento della società, avrà invece lo scopo di riformare ma sempre adattando ogni cambiamento al sistema politico esistente. La rivoluzione, invece, non consiste solo nella presa del potere, ma nel sovvertire l’ordine esistente, attuando un vero e profondo cambiamento radicale nell’intera società.
Un cambiamento politico, economico, sociale
La Rivoluzione francese, infatti, innesca proprio questo totale cambiamento che la parola stessa porta con sé: è una rivoluzione dal punto di vista politico, sociale, economico. Una Rivoluzione politica: perché alla fine della rivoluzione si assiste a un passaggio politico fondamentale (quello dalla monarchia alla repubblica). Sociale: perché una classe vessata alza la voce e proclama i suoi diritti, rivolgendo la propria lotta contro le classi privilegiate. Economica: perché l’economia francese, al collasso come vedremo, cambia volto.
E di questa rivoluzione anche i contemporanei sono abbastanza coscienti, come dimostra uno scambio di battute avvenuto tra il re di Francia Luigi XVI e il duca di La Rochefoucauld-Liancourt, proprio la sera della presa della Bastiglia: l’iconico evento che, nell’immaginario dei contemporanei e poi degli storici, ha segnato l’avvio della Rivoluzione il 14 luglio 1789. Il re, non celando preoccupazione nella sua voce, chiede: «È una rivolta?», e il duca: «No, Sire, è una rivoluzione» (1).
E anche La Fayette, il generale francese nominato, dopo l’evento simbolo della presa della Bastiglia, comandante della Guardia Nazionale, avrà modo di dire: «Un popolo è libero non appena vuole esserlo» (2). Egli, d’altro canto, aveva partecipato pochi anni prima alla Guerra d’indipendenza americana (1775-1783), ribattezzata anch’essa Rivoluzione americana, toccando quindi con mano l’esperienza rivoluzionaria, l’emancipazione delle Tredici colonie nordamericane nei confronti della Madrepatria inglese, opprimente, ingiusta al punto di far pronunciare ai coloni la celebre sentenza “no taxation without representation” ovvero nessuna tassa senza una rappresentanza (nel Parlamento inglese, intendevano i coloni).
Alle soglie della Rivoluzione francese
E in Francia, in effetti, è difficile parlare di rappresentanza. Re Luigi XIV (il “re Sole”, 1643-1715) aveva di fatto fondato e portato avanti una forma di governo monarchico assoluto, basato sul diritto divino, sull’accentramento dei poteri, su una politica economica atta ad accrescere il Paese puntando sulle esportazioni (“mercantilismo”, il nome di questa politica economica; “colbertismo”, dal nome del ministro francese delle finanze Jean-Baptiste Colbert), sulla coesione cattolica, sulla costruzione della sontuosissima Reggia di Versailles.
Essa contribuisce a creare un divario insormontabile tra la nobiltà francese, per certi versi “imprigionata” in questa gabbia dorata, e il resto della popolazione, che prende a essere detta Terzo Stato. Gli ordini sociali francesi alle soglie della Rivoluzione sono infatti ancora rigidi e invalicabili: il clero, la nobiltà e infine tutto il resto della popolazione (il 98% di essa, in verità) che comprende l’alta e media borghesia, professionisti, medici, notai; ma anche artigiani, lavoratori salariati e contadini (tutti fanno parte della terza classe sociale francese).
Il debito pubblico continua a salire, sotto Luigi XV (1715-1774) e poi sotto Luigi XVI (1774-1791), il re della rivoluzione, e il sistema economico e sociale che sottintende alla monarchia assoluta sta arrivando a livelli insopportabili per il popolo (per lo stesso Stato). E questo sistema sociale così rigido e ingessato inizia a esser detto, da chi stava per rovesciarlo, Antico Regime (Ancien Régime ). Il termine stesso, “antico”, fa presagire un punto di non ritorno.
A nulla, dunque, sarebbe servito il presagio sancito dall’ultima frase che il re Sole aveva pronunciato sul letto di morte: «Io me ne vado, ma lo Stato rimarrà per sempre» (3). No, quello Stato assoluto, immobile socialmente, vessato dai debiti economici che la corona stessa aveva contratto non sarebbe sopravvissuto per sempre, sicuramente non agli eventi dell’anno 1789.
Le cause della Rivoluzione francese del 1789
E infatti è proprio dalla situazione economica del tempo che si sarebbe sollevata e accesa la miccia. Come detto, le casse dello Stato languono da tempo: le continue guerre (come la Guerra dei sette anni, e la sconfitta contro la Gran Bretagna), i costi esorbitanti di Versailles, le spese della regina consorte, Maria Antonietta (non certo osannata dalla popolazione): la Francia versa in una profonda crisi finanziaria, e continuare a imporre nuove e pesanti tasse sembra non risolvere il problema.
Le imposte, inoltre, gravano esclusivamente sulle spalle del Terzo Stato mentre il Primo Stato (il clero) e il Secondo Stato (la nobiltà) ne sono esenti perché i loro antichissimi privilegi prevedono che essi non debbano pagare le tasse, onere che spetta alla sola popolazione. Questo, d’altronde, è il fondamento stesso della società per ordini; questo è il fondamento dello Stato assoluto. Privilegi contro vessazioni. Era sempre stato così e nessuno dei primi due ordini, compreso il re, sono disposti a scendere a patti con il popolo, o a cedere loro il diritto a una tassazione equa.
Eppure, qualche voce in tal senso si è sollevata e, chissà, forse l’estensione del pagamento delle tasse a tutti avrebbe potuto rimpolpare le casse statali anziché far giungere al collasso e al completo disfacimento la società francese, ancorata a quelle rigide strutture feudali. Queste voci (l’economista Turgot, il banchiere Necker) affermano che l’unica soluzione possibile per risanare tali finanze deve essere proprio la tassazione di tutta la società francese e l’eliminazione di quei privilegi di retaggio feudale che non fanno altro che aggravare una situazione in bilico, sul punto di capitolare.
E tra gli anni 1786 e 1788 la situazione si aggrava ulteriormente. Alcuni raccolti andati a male producono una carestia e diverse fabbriche chiudono i battenti; in tutto ciò, la popolazione è cresciuta nel corso del XVIII secolo, arrivando a toccare i 26 milioni di abitanti, la povertà dilaga, così come la fame. A Parigi, inoltre, il prezzo del pane raddoppia, così come l’insofferenza e il malcontento popolare.
Ma il malcontento si fa sentire anche tra gli strati della popolazione che non patiscono direttamente la fame (medici, avvocati, banchieri), che stanno diventando sempre più consapevoli di vivere in una società ingiusta, che costringe la loro enorme classe sociale, il Terzo Stato appunto, a pagare le tasse per tutti (oltre che a lavorare per tutti) e a sostentare i vizi di una nobiltà ormai sempre più “antiquata”, inutile.
In tutto ciò, senz’altro, le idee illuministiche hanno messo per iscritto, nero su bianco, quanto la razionalità umana sia in grado di emanciparsi da certe ingiustizie e violenze, e che ognuno sarebbe potuto diventare in un certo senso padre del proprio destino. «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo […]» (4), aveva scritto il filosofo Immanuel Kant nel 1784.
Il fermento intellettuale pone le basi per quello politico e sociale. Si stagliano all’orizzonte nuove consapevolezze, ci si incontra e si parla di una prospettiva nuova per il futuro. Si discute nei caffè, luoghi privilegiati del dibattito intellettuale, proliferano giornali di orientamento rivoluzionario.
Il re si rende conto che la situazione sta diventando insostenibile e che i suoi ministri non riescono a trovare una soluzione che non sovverta quell’ordine sociale che egli in primis vede come un suo indiscutibile diritto divino. Così, tra rammarichi e timori che il suo potere possa essere scalfito, si convince a convocare gli Stati Generali per risolvere la situazione. Essi erano l’antica assemblea nella quale i tre ordini sociali hanno modo di essere rappresentati davanti al monarca.
Se da una parte nobiltà e clero sono tranquilli perché il voto dell’assemblea viene conteggiato per ordine e non per testa (in quel modo, la votazione del primo e del secondo ceto avrebbe pesato più dell’unico voto del terzo strato, che però rappresenta la quasi totalità della popolazione), il Terzo Stato avrebbe votato diversamente perché sente l’impellente necessità di chiedere una tassazione più equa e l’abolizione degli antichi diritti feudali.
La convocazione genera un grandissimo fermento tra la borghesia, basti pensare che gli Stati Generali non venivano convocati dal 1614, sotto Luigi XIII (1610-1643): mancava una rappresentanza da addirittura 175 anni! Qualcosa, dunque, inizia a muoversi e l’Ancien Règime, ancorato su una vetta altissima, inizia ad essere scosso dal vento rivoluzionario.
Grazie all’intervento di Necker, divenuto ministro delle finanze, il Terzo Stato può vedere raddoppiato il proprio numero all’interno dell’Assemblea anche se, mantenendo saldo il sistema di votazione “per ceto”, il loro numero risulta comunque irrilevante; l’idea della rivoluzione sembra comunque già essere matura nei cuori dei rivoluzionari e forse in tutto il popolo francese (5).
Il primo problema da affrontare, nell’ottica del terzo ordine sociale di Francia, è proprio quello del sistema di votazione. L’ala intellettuale e borghese del Terzo Stato, illuminata senz’altro dalle idee dell’Illuminismo, chiede un sistema di votazione oggettivamente più giusto, quindi non per ordine ma per testa. Il terzo ceto sembra più compatto che mai.
Alla proclamazione dell’apertura dell’assemblea, sono seguiti infatti incontri ed assemblee popolari: sembra che qualcuno abbia tolto il bavaglio al popolo francese dopo secoli e ovunque, fino nelle campagne più remote di Francia, si sparge la voce che il re avrebbe ascoltato le richieste del suo popolo. Il risultato di questo fermento è la stesura di circa sessantamila cahiers de doléances (quaderni di lagnanze) nei quali vengono espresse richieste, suppliche, descritti soprusi e ingiustizie (spesso in toni ingenui e commoventi). Tutto nella speranza che il re avrebbe finalmente dato ascolto al suo popolo.
Giunge il giorno. È il 5 maggio 1789, l’assemblea degli Stati Generali è convocata a Versailles. Chi ha scritto i più accorati appelli nei quaderni non è presente, perché a rappresentare il Terzo Stato vi è la classe borghese, media e alta, e non certo i contadini o gli operai. Ci sono notai, avvocati, medici, intellettuali, persino qualche nobile liberale d’accordo con le riforme dello Stato: coloro i quali avrebbero mosso il primo passo per sfaldare l’Antico Regime. Il popolo francese, sarebbe intervenuto dopo, gettandosi nella mischia.
Ma torniamo alla seduta degli Stati Generali. Il Terzo Stato chiede il tanto agognato voto per testa, riscuotendo l’approvazione della frangia più bassa del clero (perlopiù parroci di campagna) ma il resto dei religiosi e la nobiltà rimangono inamovibili. La Storia non si deve né può cambiare. Del resto, dal loro punto di vista questa decisione sarebbe stata molto più che una concessione elettorale: sarebbe stato scardinare antichi sistemi di privilegio, perdere la loro altezza piramidale davanti al resto del popolo, adeguare il voto di un nobile al voto di un qualsiasi altro cittadino francese. Inaccettabile per la nobiltà, per il re. E, inoltre, sarebbero usciti sconfitti dalla seduta.
Pochi giorni dopo il Terzo Stato (appoggiato dal basso clero) si dichiara Assemblea nazionale costituente, investita del compito di rappresentare tutta la Francia e il suo popolo, al quale avrebbe dato una Costituzione. Il re, forse preso dal panico, chiude il locale dell’assemblea ma il Terzo Stato resta compatto e si riunisce nella stanza dove i nobili erano soliti giocare al gioco della pallacorda; il 20 giugno viene pronunciato il celebre giuramento che del gioco prende il nome (Giuramento della Pallacorda): l’Assemblea avrebbe dato alla Francia una Costituzione.
Non si sarebbe più potuto tornare indietro, la Rivoluzione francese è stata avviata dall’ala più “alta” del Terzo Stato, la borghesia. Ma essa non è e non sarà soltanto una rivoluzione borghese o intellettuale, è anche una rivoluzione popolare, tangibile. E lo dimostra il passo successivo degli eventi: il re scioglie gli Stati Generali, Parigi è in fermento perché le voci di ciò che accade nella Reggia circolano a ritmi incalzanti; sorge persino un esercito rivoluzionario di stampo borghese, la Guardia nazionale, a difesa dell’Assemblea e della neonata Rivoluzione. Il popolo raccoglie quei fermenti, è affamato, e crede di poter finalmente combattere per la propria libertà e per i propri diritti.
E, poi, l’atto simbolico. Il 14 luglio 1789 il popolo parigino assalta quello che forse maggiormente è stato il simbolo dell’Antico Regime, monarchico, assoluto, con residui feudali: la Bastiglia. Carcere per oppositori politici e fortezza colma di armi, essa viene espugnata e demolita il giorno seguente. È l’inizio ufficiale della Rivoluzione francese (anche del suo volto popolare) e altresì l’inizio della fine dell’Ancien Règime.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino
L’Assemblea nazionale continua a portare avanti la Rivoluzione, intesa sia come capovolgimento fisico di un antico sistema sia come un gettare nuove basi per una nuova società. Da quel momento in avanti, si sarebbe iniziata a sentire la divergenza interna al Terzo Stato e l’incolmabile divario tra la borghesia e il ceto popolare, così come il filosofo Karl Marx avrà modo di sottolineare verso la metà del secolo successivo.
Ma, intanto, ci si muove tutti verso la stessa direzione: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza (Liberté, Égalité, Fraternité): questo il motto della Rivoluzione francese e della successiva Repubblica, questi i principi e gli ideali alla base di uno dei documenti più importanti della Storia dell’umanità che viene vergato proprio in occasione di questi eventi.
Il 26 agosto 1789 l’Assemblea emana la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la solenne dichiarazione di uguaglianza e giustizia che pone l’accento sull’esistenza di taluni diritti naturali (ed essendo tali, inalienabili) che non possono essere scalfiti da alcun potere politico o legge positiva (cioè creata dall’uomo). Ogni uomo nasce libero e «il fine di ogni Stato [o associazione politica] è conservare i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti solo la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione» (6).
Il principio dell’uguaglianza tra tutti i cittadini si fa strada in un mondo dove gli antichi privilegi feudali vengono spazzati via da questioni di principio, da discorsi razionali che esaltano i diritti naturali e imprescindibili dell’uomo prima, e del cittadino poi.
Eppure, salta all’occhio che tra quei diritti si menzioni quello alla proprietà privata: un retaggio tutto borghese, che avrebbe avuto modo di emergere e di segnare quel divario che, all’interno dello stesso Terzo Stato, allontanava come detto la borghesia dagli strati popolari della popolazione.
Riflessioni sulla rivoluzione francese
La Storia conosce diverse rivoluzioni. E, sul significato stesso del termine, ci si è già espressi. Si parla di rivoluzioni tecnologiche, culturali, sociali e naturalmente politiche. Tra di esse, la Rivoluzione francese riveste sicuramente un ruolo e un significato profondo: prendendo le mosse dall’Illuminismo e traendo ispirazione dalle due Rivoluzioni inglesi, dalla Rivoluzione americana e dalla Dichiarazione d’indipendenza americana (1776), essa stessa sarà d’ispirazione e da base per gli eventi successivi.
La Rivoluzione francese è stata innescata da antichi privilegi e altrettanto antichi soprusi, dalla concezione che il potere monarchico fosse di diritto divino (ma la Storia ci insegna che anche ai re può essere tagliata la testa) e che la società è divisa in ordini serratissimi, dai quali non si può uscire. Una rivoluzione, invece, scardina tutto questo e, come in una rivoluzione astronomica, si torna a un punto di partenza ma in questo caso del tutto rinnovato, offrendo una immagine nuova, rivoluzionata appunto.
In seguito, gli altri eventi della Storia. Sopraggiunge, poi, Napoleone Bonaparte, che non può non essere definito un “figlio della Rivoluzione”; poi l’Europa tenta di essere “restaurata”, ma la Restaurazione (1815) non sarà altro che un vano tentativo che i sovrani europei metteranno in atto al fine di ripristinare un sistema politico obsoleto e ormai superato: l’assolutismo; seguono infatti i moti rivoluzionari (negli anni 1820-21 e 1830-31) e soprattutto i moti del 1848 (la cosiddetta “primavera dei popoli”) che danno agli stessi contemporanei la percezione che l’assolutismo, così come era stato concepito dal re Sole, non esiste più: l’Illuminismo e le rivoluzioni lo hanno spazzato via. Esso non è più una via praticabile.
Nasce allora un sentimento nazionale (in fondo, il Terzo Stato è la Nazione francese, anche solo in termini numerici) e uno spirito di indipendenza, che guiderà il Risorgimento italiano, e la conseguente indipendenza il 17 marzo del 1861, e l’unificazione della Germania, proclamata a Versailles il 18 gennaio del 1871. Vengono emanate in varie zone d’Europa Costituzioni che seguono la linea tracciata dai principi della Rivoluzione francese.
La strada per una normalizzazione dei diritti umani in senso contemporaneo è ancora lunga, ma il primo passo è stato fatto. L’uomo della Rivoluzione francese ha dei diritti che precedentemente ad essa non possedeva, e i cittadini iniziano ad essere parte della vita politica della loro Nazione. Può una rivoluzione innescare una serie di eventi a catena in grado di cambiare l’intero volto della Storia? Sì, la Rivoluzione la fanno gli eventi, gli ideali, gli uomini.
Note:
(1) Albert Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, p. 7.
(2) Idem, p. 9.
(3) Giardina – Sabbatucci – Vidotto, I mondi della Storia, vol. 2, Laterza, p. 8.
(4) Immanuel Kant, Che cos’è l’Illuminismo?, 1784.
(5) Guido Nigra, Letture storiche. II, Storia moderna, Società editrice Dante Alighieri, p. 330.
(6) Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, art. 2, 1789.
Consigli di lettura sull’argomento:
- A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 2001.
- Furet – D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 2020.
- Vovelle, La rivoluzione francese 1789-1799, Guerini Scientifica, Milano, 2016.
I libri consigliati dalla redazione di Fatti per la Storia!
- A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 2001.
- Furet – D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 2020.
- Vovelle, La rivoluzione francese 1789-1799, Guerini Scientifica, Milano, 2016.