CONTENUTO
Il regime fascista di Mussolini e la ricerca scientifica: introduzione
La riflessione sui legami tra scienza e politica è stata da tempo accolta dalla storiografia accademica, che ha declinato in diversi modi le complesse relazioni tra le due sfere. Al netto delle differenti interpretazioni, da tempo gli studi concordano sull’insostenibilità del modello (risalente al secondo dopoguerra) della ivory tower, in cui lo scienziato potrebbe isolarsi, delegando al politico le applicazioni della sua attività, che risulterebbe quindi libera da implicazioni morali.
Questa visione è stata screditata nei circoli di specialisti ma trova ampio credito nel dibattito pubblico ed è utile presentare un contesto storico in cui se ne mostri l’inconsistenza. Inoltre, i rapporti con l’attività scientifica trovano raramente spazio nel discorso sul fascismo e sulla sua eredità; tuttavia, è un ambito in cui si rivela con chiarezza l’ambizione totalitaria del regime, che concepisce la scienza solo in relazione agli obiettivi del partito.
Diverse opere hanno trattato i rapporti tra fascismo e scienza con particolare attenzione ai meccanismi di controllo istituzionale (creazione di enti, riorganizzazioni normative, assegnazione di incarichi) e alle leggi razziali, della cui legittimazione è sicuramente colpevole parte della scienza italiana. Nel complesso, la letteratura riporta un sostanziale successo del partito nel controllo di istituzioni pubbliche e private, ottenuto, secondo Paoloni, “tramite l’alternanza di metodi coercitivi e strategie di premiazione del consenso”[1].
A seguire vengono descritti alcuni aspetti della condotta del governo verso la ricerca; dopodichè, sono presentati due casi in cui l’azione politica ha cercato legittimazione ideologica nella scienza. Sin da subito va chiarito che per ragioni di economia del testo non verrà trattata la riforma Gentile del 1923, la quale meriterebbe una trattazione autonoma, avendo contribuito grandemente alla percezione culturale della scienza come subordinata alla filosofia e alle discipline umanistiche, in accordo con la visione strumentale che ne aveva il suo ideatore.
Il contesto generale
Modernità e progresso tecnologico sono due pilastri della propaganda fascista. Scienza e tecnica permettono di presentare al mondo il genio italico, perfettamente esemplificato da Guglielmo Marconi, prototipo dell’inventore fascista pratico e versatile, mentre la tecnologia delle grandi opere, espressione più immediata della modernizzazione, è presentata abilmente alle masse come un successo del regime.
Il fascismo comprende l’importanza della ricerca ma mantiene una condotta ambigua, con le prerogative politiche che spesso precedono il merito nell’assegnazione di incarichi, titoli e fondi, a detrimento del livello generale della produzione scientifica. Il ritardo e i limiti italiani nella creazione di un sistema di laboratori integrato con il complesso industriale non sono interamente ascrivibili al periodo 1922-43, in quanto gli scarsi finanziamenti caratterizzavano già l’epoca liberale e l’eccessiva parcellizzazione dei gruppi di ricerca (composti da due o tre unità) era addirittura retaggio dell’Italia post-unitaria.
Benito Mussolini è però colpevole di aver allineato gli obiettivi della ricerca a quelli di una politica imperialista e aggressiva, sprecando le risorse finanziarie e intellettuali di un paese afflitto da gravi lacune sanitarie, infrastrutturali e di alfabetizzazione. L’avvicinamento alla Germania nazista e la guerra in Etiopia isolano l’Italia nella politica internazionale e con il secondo conflitto mondiale si interrompono le relazioni scientifiche con l’estero; parallelamente, le esigenze della ricerca appaiono sempre più subordinate a ragioni ideologiche: le leggi razziali sono esemplari in questo senso, con il governo che sostanzialmente ignora il danno enorme arrecato al capitale intellettuale del paese.
Una divisione tra fase borghese e fase autarchica semplifica eccessivamente le azioni del governo, ma è chiaro che dalla seconda metà degli anni Trenta il progresso tecnologico è per Mussolini interamente funzionale alla capacità offensiva e all’autosufficienza del paese. Nel 1931 i professori universitari vengono sottoposti al Giuramento di fedeltà al fascismo e nel dicembre del 1932 l’iscrizione al PNF diventa prerequisito per ottenere cattedre e partecipare ai concorsi.
Elisa Signori ha definito il giuramento “il punto di coagulo di istanze autoritarie e disciplinatrici espresse in precedenza” [2]; il 1931 non è ‘l’anno zero dell’università fascista’ e già dal 1926 si erano registrati casi di rimozioni dall’incarico per incompatibilità politica (Montemartini, Caramella, Presutti). L’imposizione del 1931 è quindi contestuale a un processo di fascistizzazione non solo dell’istituzione universitaria, ma dell’intera vita culturale del paese, che si snoda lungo la seconda metà degli anni Venti e coinvolge anche la scienza. In quattro anni l’Italia ospita convegni internazionali di fisica (Como 1927, Roma 1931) e matematica (Bologna, 1928) e nei tre eventi si notano le sempre maggiori celebrazioni rivolte al regime.
È significativa la traiettoria del Consiglio Nazionale delle Ricerche, inaugurato nel 1923 e tutt’oggi esistente. In Italia come all’estero, la Grande Guerra aveva palesato la necessità di un organo che coordinasse e promuovesse l’attività scientifica nazionale ma nella penisola le gravi conseguenze sociopolitiche del conflitto ne avevano rallentato la creazione.
Mussolini raccoglie i frutti di circa cinque anni di lavori preparatori che cominciano con il Comitato nazionale scientifico tecnico per lo sviluppo e l’incremento dell’industria italiana (1916), ed evolvono dapprima nell’Ufficio invenzioni e brevetti (1917) e successivamente nella Commissione per la formazione del Consiglio nazionale delle ricerche (1919). Il CNR viene istituito come ente morale il 18 novembre 1923, come emanazione dell’International Research Council, e il 12 gennaio 1924 tiene la prima riunione presso l’Accademia dei Lincei a Palazzo Corsini.
Il suo nucleo originario era quello dell’Ufficio, la cui presidenza era stata affidata a Vito Volterra, principale matematico italiano del periodo. Volterra era stato una figura chiave per le nascenti politiche di ricerca italiane ma era anche un noto antifascista; ebreo, firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti, fu uno dei dodici professori universitari che rifiutarono il giuramento del 1931. Di fatto, fino alla scadenza del suo mandato (1927) i fondi sono scarsissimi e il CNR si limita a censimenti delle strutture e a partecipazioni a riunioni internazionali.
Durante gli anni Venti Mussolini ammette più volte l’arretratezza del paese, mostrando di aver compreso le mutate necessità della ricerca: non più conquista del singolo o di poche menti geniali ma faticoso prodotto di centinaia di ricercatori ben attrezzati, inquadrati in un solido connubio di università e industria:
Oggi la ricerca scientifica ha singolari e vaste esigenze. Richiede cioè un’organizzazione adeguata e mezzi potenti. Il genio isolato può compiere miracoli, ma la ricerca scientifica, sistematica, risponde alle molteplici e diverse esigenze della Nazione. La mancata visione di questo problema ci ha portato, bisogna apertamente riconoscerlo, a un decadimento delle ricerche scientifiche e a una penuria di ricercatori che è veramente impressionante. Da questo stato di cose si deve uscire [3].
La presidenza di Marconi (1928-1937) è politicamente congeniale a Mussolini ma Volterra, Mr. Italian Science, è molto più in contatto con le principali realtà di ricerca internazionali. Già membro dell’IRC, diviene referente (1924) per l’Europa nell’Education Board della Rockfeller Foundation e con grande intuito assegna borse di studio a Enrico Fermi (1924), Enrico Persico (1925) e Franco Rasetti (1928-29) [4]. La sua rimozione e l’ostracismo nei suoi confronti sono da subito compresi nella loro natura politica e provocano risentimenti all’estero, in particolare in Francia [5].
Dal 1928 l’ente si rivolge alla valorizzazione delle risorse nazionali e del territorio, ma già dal 1934 viene introdotta l’idea della scienza come risorsa militare. Concludendo il discorso alla plenaria del CNR l’8 marzo ‘34, Marconi definisce la Prima guerra mondiale “una battaglia di laboratori” e ricorda che la ricerca scientifica: in caso di conflitto armato, serve a dare ad una Nazione quella superiorità tecnica senza la quale spesso rimane inefficace il sacrificio, il coraggio e lo stesso eroismo [6].
Durante l’autarchia i fondi passano dalle 1.588.156 lire del 1934 agli oltre 15 milioni del biennio 1935-36 (5.930.480, 9.887.453) [7], ma le richieste della politica imperialista eccedono i mezzi della comunità scientifica italiana e la discordanza tra propaganda e realtà si rivela in tutta la sua drammaticità nel secondo conflitto mondiale.
La precedenza accordata alle applicazioni immediate va a scapito della ricerca teorica, in particolare nella disciplina che nella prima metà del XX secolo conosce il maggiore rinnovamento concettuale: la fisica. In riferimento alla nuova fisica novecentesca (che muove dalla riflessione sui modelli atomici di fine ‘800 alle formulazioni compiute della meccanica quantistica), il contributo italiano appariva marginale ai colleghi stranieri e il paradigma della ricerca nazionale rimaneva quello della fisica classica.
Nonostante questo, dagli anni Venti si forma nel paese una nuova generazione di giovani studiosi, che abbracciando l’interpretazione quantistica condurranno ricerche riconosciute globalmente come fondamentali. Il regime non saprà valorizzare queste eccellenze e l’esempio più lampante è quello dei ‘ragazzi di via Panisperna’, le cui scoperte del 1934 sulle proprietà dei neutroni lenti valgono a Fermi il nobel nel 1938: i finanziamenti e le attrezzature del gruppo sono costantemente al di sotto del livello delle loro ricerche ed è solo grazie al patrocinio del fisico e politico Orso Mario Corbino che verranno concessi spazi e fondi dall’Università di Roma.
Non a caso, la morte di Corbino nel 1937 mette in crisi le attività del gruppo, prima ancora che le leggi razziali ne sanciscano definitivamente la scomparsa.
La teoria della razza
Le differenze tra gruppi umani sono state formalizzate dall’anatomia comparata dal XVIII secolo e il concetto di razza biologica ha accompagnato l’intera epoca coloniale, fino alla metà del secolo scorso. Nei secoli, la riflessione scientifica è stata strettamente connessa al dominio politico e spesso ne ha giustificato gli orrori; il caso delle leggi razziali italiane è paradigmatico in questo senso.
Noto e vergognoso è infatti il Manifesto degli scienziati razzisti, che esce con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia e poi sul primo numero della rivista La difesa della razza. Il manifesto, oltre a sostenere l’esistenza delle razze, teorizza una specificità italiana in maggioranza di origine ariana, da cui gli ebrei sono esclusi.
Nel razzismo italiano sono confluiti i contributi di eugenetica e demografia che tendevano al migliorismo sociale e all’ottimizzazione delle risorse demografiche già dalla fine del XIX secolo, e hanno esasperato le loro conclusioni nel contesto di politica di potenza e di omogeneità culturale del fascismo. Dare corpo all’interpretazione biologica di un’identità italiana non era facile: attribuendo estrema importanza all’invasione longobarda, venivano negate le influenze di altri popoli, in contrasto con le evidenze storiche, culturali e linguistiche.
Proprio il firmatario più prestigioso, Nicola Pende, non condivideva fino in fondo l’impostazione su linea biologica del manifesto e sosteneva invece che ‘la via italiana’ alla razza derivasse dalla capacità di forgiare un nuovo popolo da una moltitudine stirpi differenti. Anche l’impostazione di Pende era un valido strumento ideologico ma a partire dal 1940 la concezione di Mussolini si appiattì di fatto sulle posizioni naziste: sebbene il razzismo italiano abbia anche una matrice definita da Giorgio Israel “spiritualistica-romana” [8], che risalta la dimensione etica e morale dell’identità razziale derivata da ragioni storiche, la posizione biologica risulta progressivamente egemone.
La tematica razziale era stata marginale nella costruzione dello stato nazionale di epoca risorgimentale e anche i primi esperimenti coloniali non avevano portato che a un sistema normativo disorganico e frammentario; sarà l’invasione fascista dell’Etiopia a stimolare rapidamente lo sviluppo di una giurisprudenza coloniale strutturata, che fornirà strumenti fondamentali anche alla campagna antisemita.
Ad esempio, i Provvedimenti per la difesa della razza italiana che proibivano il matrimonio tra un italiano e una «persona appartenente ad altra razza» generalizzavano il principio del decreto dell’aprile del 1937 sull’illecito penale del matrimonio tra italiani e etiopi. Per Enzo Collotti, la confluenza tra legislazione razzista coloniale e antiebraica esprimeva un nesso logico e concettuale assolutamente indissociabile nella costituzione di un’alterità cui contrapporre il popolo italiano [9].
Oggi l’orrore delle leggi del 1938 è legato soprattutto alle conseguenze che ebbero sugli ebrei italiani ma è importante ricordare come la base giuridica e parte del sostrato concettuale si debbano al colonialismo imperiale, che elabora il diritto e esaspera la propaganda segregazionista oltre le formule espresse dal colonialismo dell’Italia liberale.
Mussolini relativista
Meno nota, ma interessante, è l’associazione tra relatività e fascismo, funzionale per Mussolini al mantenimento dell’identità movimentista sprezzante di categorie e schemi prefissati, durante la costituzione di un partito formalizzato. Diversamente dall’elaborazione delle leggi razziali, non si può parlare in questo caso di un contributo politico attivo della scienza; tuttavia, è interessante notare che la terminologia scientifica e quella politica si siano mutualmente influenzate.
I parallelismi tra fascismo e relatività passano attraverso la deriva di quest’ultima nel relativismo: l’associazione dei due concetti era stata resa possibile dalla precedente estensione in senso morale e filosofico della teoria di Einstein, agli onori delle cronache internazionali dopo la conferma sperimentale delle eclissi del 1919. L’intellettuale di riferimento del fascismo in questo contesto fu il filosofo Adriano Tilgher, che in Relativisti Contemporanei (1921) collegò la teoria della relatività di Einstein al relativismo filosofico di Vaihinger (1852-1933), al relativismo culturale di Spengler (1880-1936), e all’idealismo gentiliano.
Secondo Tilgher i profondi mutamenti della società in seguito alla Prima guerra mondiale avrebbero significato l’abbandono di una concezione razionalista della storia, delle idee di progresso e di evoluzione, per lasciar posto ad un soggettivismo relativista. In Relativismo e Rivoluzione (1922) evidenziò “la necessità di fondare l’azione fascista su principi assoluti, cercando in questa forma di relativismo naïf una base per fondare il soggettivismo, e infine l’ideologia totalitaria”[10].
Il ricorso esplicito alla relatività della propaganda fascista comincia nell’editoriale di Mussolini su Il popolo d’Italia del novembre 1921, Relativismo e Fascismo. Mussolini, il quale cerca di legarsi il meno possibile agli altri partiti, si ricollega all’opera di Tilgher affermando che se il filosofo avesse seguito da vicino l’opera del fascismo, lo avrebbe sicuramente collocato tra i relativisti “se non teoretici, almeno pratici” [11]. Elogiando il successo della teoria tedesca, si presenta come il fautore del relativismo politico, che si traduce in un’azione aprogrammatica e priva di vesti definitive:
noi, che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per eccellenza e la nostra azione si richiama direttamente ai più attuali movimenti dello spirito europeo [12].
È interessante è che alcuni dei pochi scienziati italiani che si sono interessati alla teoria già durante la Prima guerra mondiale, sembrano avvertire nel dopoguerra un legame tra il cambio di paradigma in fisica e la sovversione dell’ordine costituito (non necessariamente in rapporto al fascismo). Barbara J. Reeves ha analizzato l’utilizzo dei termini ‘rivoluzione’ e ‘rivoluzionario’ in riferimento all’opera di Einstein e notato che nel primo dopoguerra autori come Tullio Levi Civita e Roberto Marcolongo smettano di attribuirle un carattere rivoluzionario, allineandosi su posizioni continuiste[13].
Sebbene Einstein stesso avesse adottato questa posizione, le motivazioni della variazione potrebbero non essere esclusivamente di natura epistemologica. Ironicamente, Einstein disprezzerà sempre il regime fascista: a questa sua idiosincrasia si deve la mancata partecipazione ai congressi di Como e Roma, e nel 1931 scriverà personalmente al ministro di giustizia e affari di culto Alfredo Rocco affinché consigliasse a Mussolini di risparmiare ai professori italiani l’umiliazione del giuramento di fedeltà [14].
Conclusione
Nel 1951, Hannah Arendt escludeva il fascismo dai regimi totalitari [15]. Il giudizio è stato condiviso in Italia da Aquarone [16], ma in seguito Gentile ha rivalutato “l’esperimento totalitario” [17] fascista, riconoscendo la chiara volontà di rinnovare la società e l’individuo sul piano antropologico. Credo che nella concezione della scienza e nell’approccio alle istituzioni dedicate, il fascismo riveli un inequivocabile aspirazione al totalitarismo.
Il regime è riuscito in larga parte a controllare le istituzioni scientifiche e a fidelizzare alcuni scienziati ed intellettuali di riferimento, capaci di sostenerlo ideologicamente; contemporaneamente, ha ottenuto la tacita approvazione della stragrande maggioranza della comunità scientifica e ha ricevuto da essa legittimazione interna.
In termini concreti, il fascismo ha perso l’occasione di indirizzare le risorse della nazione verso problematiche sanitarie, ecologiche e infrastrutturali, e pur avendo compreso l’importanza assunta dalla ricerca ha sostanzialmente fallito la modernizzazione del paese. Infine, anche se poco significativo sul piano storiografico, un qualsiasi giudizio morale sul tema non può prescindere dalla vergogna rappresentata dalle leggi razziali, che rimarranno una pagina vergognosa della scienza italiana.
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- Giorgio Israel, Pietro Nastasi, Scienza e Razza nell’Italia Fascista, Il mulino, Bologna, 1998.
- Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
- P. Paolini, R. Simili, Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Laterza, Roma-Bari, 2001.
Note:
[1] G. PAOLONI, La via del fascismo è lastricata di buone intenzioni: rapporti e conflitti fra le istituzioni di ricerca scientifica e il regime, in <<Chimica nella scuola>>, Numero speciale, 2022, pp. 5-16, p. 5
[2] E. SIGNORI, La svolta del 1931 negli atenei italiani: interpretazioni, prospettive, bilanci, in <<Rivista di Storia dell’Università di Torino>>, X, febbraio 2021, pp. 1-17, p. 4
[3] B. MUSSOLINI, Discorso inaugurale, Atti della quindicesima riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Bologna, ottobre-novembre 1926, pp. 29-31, p. 29
[4] F. NEMORE, Vito Volterra: Mister Italian Science, Archivi della Scienza, www.archividellascienza.org
[5] Cfr. A. CAPRISTO, French Mathematicians at the Bologna Congress (1928). Between Participation and Boycott, in F. BRECHENMACHER-G. JOUVE-L. MAZLIAK-R. TAZZIOLI, Images of Italian Mathematics in France. The Latin Sisters, from Risorgimento to Fascism, Birkhäuser Cham, 2016, pp. 289-309
[6] G. MARCONI, L’opera del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Discorso pronunciato alla Riunione plenaria dell’8 marzo 1934, in Scritti di Guglielmo Marconi, Reale Accademia d’Italia, Roma 1941
[7] G. GIULIANI; F. PASSERA, La fisica in Italia. 1890-1940, in A. CASELLA, Una difficile modernità – Tradizioni di ricerca e comunità scientifiche in Italia (1890-1940), La Goliardica Pavese, Pavia 2000, pp. 120-145, p. 137
[8] G. ISRAEL; P. NASTASI, Scienza e Razza nell’Italia Fascista, Il mulino, Bologna 1998
[9] E. COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia [2003], Laterza, Bari-Roma 2008, p. 38
[10] C. TAGLIAPIETRA, Albert Einstein e il relativismo: radici storiche di un fraintendimento, in 100 Anni di relatività, Documentazione Integrale di Scienza e Fede, 2016, https://disf.org/einstein-100-anni-relativita
[11] B. MUSSOLINI, Relativismo e Fascismo, in <<Il popolo d’Italia>>, VIII, 279, (1921)
[12] Ibidem.
[13] B.J. REEVES, Einstein Politicized: The Early Reception of Relativity in Italy, in a cura di T. GLICK, The Comparative Reception of Relativity, Reidel, 1987, pp. 189-229
[14] M. FOCACCIA, Novanta anni fa ci fu chi disse no, in <<PrimaPagina>>, 95, novembre 2021, http://www.primapagina.sif.it/article/1404
[15] H. ARENDT, Le origini del totalitarismo [1951], Einaudi, Torino 2009
[16] A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario [1965], Einaudi, Torino 2003.
[17] E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002