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Recensione del libro “Il ginocchio sul collo” di Alessandro Portelli

Il ginocchio sul collo non è solamente l'atto materiale con il quale Derek Chauvin ha ucciso George Floyd ma una pratica costante nella lunga storia della questione razziale negli Stati Uniti.

di Valerio Spositi
31 Maggio 2021
TEMPO DI LETTURA: 4 MIN
Il ginocchio sul collo

“Il ginocchio sul collo”, questo il titolo dell’ultimo lavoro di Alessandro Portelli, è un lavoro che intende mostrare come la questione razziale, le violenze della polizia e il suprematismo bianco siano una caratteristica sistemica degli Stati Uniti, fondati nella storia del paese sin dall’epoca coloniale.

Il diritto di respirare. Black Lives Matter e la violenza della polizia

Il libro si apre con l’analisi delle grandi mobilitazioni del presente, incarnate dal movimento Black Lives Matter. Un processo che, ci ricorda l’autore, non nasce oggi ma circa un decennio fa in risposta alla costante e crescente violenza della polizia contro la comunità afro-americana. Una violenza che non è casuale o fuori dalle pratiche ordinarie ma precisamente insita nella funzione storico-sociale della polizia americana, ossia quella del controllo e della repressione delle classi subalterne, in particolar modo degli afro-americani e della classe operaia.

L’analisi di Portelli tocca numerosi aspetti ed eventi che aiutano a comprendere la genesi di questa escalation di violenza poliziesca contro i neri d’America. Scrive l’autore, infatti, che i poliziotti hanno interiorizzato un approccio al trattamento dei fenomeni criminali fondato su un forte pregiudizio razziale. Questo racial profiling – che interiorizza, appunto, pregiudizi razziali, di classe e di genere – identifica nel nero, nell’ispanico e in chiunque non rientri nel canone dell’uomo bianco, un potenziale criminale: si è criminali, quindi, in quanto neri.

Il pregiudizio razziale, il suprematismo bianco e l’idea del nero come potenziale criminale e/o violentatore, ci ricorda Portelli, affondano le loro radici nella storia del paese. Dall’america coloniale e schiavistica a quella della segregazione razziale del sistema Jim Crow, la figura del nero è stata a lungo stereotipata, deformata e criminalizzata, in un immaginario collettivo che ha sempre teso ad una sua subalternità rispetto all’uomo bianco. Questo complesso di superiorità razziale del bianco e subalternità morale e materiale del nero persiste tutt’oggi, a dimostrazione di quanto l’eredità della schiavitù e della guerra civile rimanga una ferita non ancora completamente sanata.

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Il ginocchio sul collo

E partendo dalle grandi ondate di proteste scatenate da Black Lives Matter, Portelli ci mostra uno degli aspetti più importanti del suo lavoro: la capacità di cambiare il nostro punto di vista e tentare di vedere la storia con gli occhi dell’Altro.

In relazione all’escalation di violenza e repressione seguita alle proteste di Black Lives Matter, Portelli infatti scrive:

Forse siamo talmente abituati a comandare che anche quando polizia e razzisti esagerano un po’ pensiamo di avere comunque noi il diritto di dettare i modi giusti ed educati con cui gli oppressi possono esprimere il loro malessere senza «degenerare» e «passare dalla parte del torto» […] Non sta più a quelli come me dirimere il giusto e lo sbagliato. Se tre mesi di proteste prevalentemente pacifiche non sono bastate a insegnare alla polizia a non ammazzare senza ragione, non resta che alzare il livello dello scontro e prendersela con i luoghi e le cose che materialmente incarnano il dominio.

A seguito del brutale omicidio di Amadou Diallo, studente guineano crivellato da 41 colpi d’arma da fuoco dalla polizia di New York, Bruce Springsteen scrisse uno dei suoi brani forse più diretti sul tema, “American Skin”. Nelle canzone, Springsteen canta di una madre nera che dice a suo figlio che quando si è in strada si devono conoscere le regole e che se un poliziotto ti ferma, si deve essere sempre gentili, non si deve mai scappare ed avere le mani sempre ben in vista. Perché – continua Springsteen – negli Stati Uniti puoi essere ucciso solo per vivere nella tua pelle americana.

Uomini di marmo. Quale storia raccontano i monumenti?

L’altro argomento incendiario che l’autore vuole porre sotto analisi è quello dei monumenti. Portando diversi esempi tratti dalla storia degli Stati Uniti – come l’abbattimento della statua di Re Giorgio III nel 1776 per farne delle munizioni, il busto di Bedford Forrest, fondatore del Ku Klux Klan, a Nashville o le statue di Robert Lee – Portelli ci tiene a sottolineare quanto esse abbiano una forte valenza politica. Molte delle statue ai generali confederati, sottolinea l’autore, non sono state fatte nel periodo in cui questi erano in vita ma nel corso del Novecento proprio per marcare una posizione politica, ossia per sancire la segregazione razziale o in reazione al nascente movimento dei diritti civili nella metà degli anni Cinquanta.

Un monumento esiste – scrive Portelli – perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto in qualche momento e con qualche intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni.

Pertanto, lungi dallo svolgere una funzione di preservazione della memoria storica o di mera testimonianza, le statue raccontano solo una parte della storia, spesso distorta, e silenziano coloro che quella storia hanno subìto.

L’analisi di Alessandro Portelli si conclude con un passaggio che merita di essere citato per intero:

Credo che se noi chiamiamo Storia il busto a Nathan Bedford Forrest, fondatore del Ku-Klux Klan, collocato nel palazzo del governo a Nashville (in Tennessee) nel 1970, due anni dopo l’assassinio (in Tennessee) di Martin Luther King, e non riconosciamo che sono storia anche quelli che vogliono toglierlo e sostituirlo, è perché la Storia siamo Noi – euroamericani liberali cristiani istruiti e tendenzialmente maschi (sono tutte di maschi le statue e i nomi in discussione) – e non loro – vandali, orde, teppisti e teppiste.
Ha ragione Toni Morrison: le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti.

La questione dei monumenti pertanto non attiene ad una fantomatica cancellazione della storia bensì ad una sua risignificazione, ad una sua riscrittura. Significa conferirle una pluralità e una conflittualità; in una parola complessità.

In conclusione, il libro di Alessandro Portelli ci restituisce – attraverso diversi casi come la rivolta di Charleston nel 1822, quella di Harlem del 1943 e quella di Los Angeles del 1992, arrivando sino ai casi più recenti di Trayvon Martin, Michael Brown, Breonna Taylor e George Floyd – il complesso quadro della questione razziale nel lungo percorso della storia americana. Una storia che non è unica, monodirezionale e priva di conflitto ma che proprio grazie al conflitto può essere raccontata anche dalla parte di chi l’ha sempre subìta.

Hai voglia di approfondire l’argomento? Clicca sul titolo del libro e acquista la tua copia su Amazon!

Alessandro Portelli – Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari

Tags: Storia degli USA
Valerio Spositi

Valerio Spositi

Ph.D. in Storia degli Stati Uniti presso l'Università degli Studi di Roma Tre. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Relazioni internazionali ad indirizzo storico presso l'Università degli Studi di Roma Tre con tesi di laurea in Storia degli Stati Uniti dal titolo: "There is a power in a band of workingmen". Ascesa e declino degli Industrial Workers of the World, 1905-1918. Ha conseguito diversi corsi di specializzazione post-laurea in Storia, Politica e Società degli Stati Uniti d'America presso il Center for American Studies e in Storia Contemporanea presso il CISPEA (Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euro-Americana). Ha ottenuto due pubblicazioni sulla rivista European Affairs Magazine. Caporedattore di Fatti per la Storia, cura i rapporti con le Università. Fa parte del Comitato-Scientifico.

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