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I cinquanta chilogrammi d’oro degli ebrei di Roma
In tutti i Paesi occupati durante la Seconda guerra mondiale dal Terzo Reich, specialmente dove si insidiano dei governi collaborazionisti, gli apparati dello Stato tendono a partecipare con gli occupanti all’organizzazione delle operazioni di rastrellamento degli ebrei. Non fa eccezione l’Italia dove con l’introduzione delle leggi razziali nel 1938 si è già provveduto alla schedatura degli ebrei presenti nel territorio nazionale.
Qualche giorno dopo l’Armistizio e l’occupazione tedesca di Roma del 10 settembre 1943, il tenente colonnello delle SS (Schutzstaffeln) Herbert Kappler, nominato dopo l’insediamento comandante della Gestapo a Roma, riceve un ordine perentorio dal comandante delle Forze di sicurezza della Germania Heinrich Himmler, che non lascia spazio a equivoci:
“Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa”.
Nel pomeriggio di domenica 26 settembre 1943, Kappler convoca nel proprio ufficio a Villa Wolkonsky il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ugo Foà e quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi. Nel corso dell’incontro Kappler intima agli ospiti la consegna, entro trentasei ore, di cinquanta chilogrammi d’oro, minacciando, in caso di mancato rispetto dell’ordine, la deportazione di duecento capi famiglia ebrei romani verso la Germania. Tra la comunità ebraica si diffonde inizialmente il panico e non tutti si fidano dei tedeschi:
“Sia mio padre che mio nonno facevano parte del comitato esecutivo che si occupava di queste cose; l’idea ricorrente da parte di mio padre era: non mi fido nemmeno un pò, questa raccolta di oro è una cosa molto problematica”. (testimonianza del sopravvissuto Claudio Fano)
Nonostante tutte le titubanze, però, gli ebrei romani si attivano e la mattina seguente inizia la frenetica raccolta dell’oro all’interno del Tempio maggiore; a contribuire è anche qualche italiano di religione non ebraica e la Santa Sede si propone di aiutare con un prestito la comunità, ma non ce ne sarà bisogno. Nel tardo pomeriggio del 28 settembre, i rappresentanti della Comunità ebraica si presentano a Villa Wolkonsky per consegnare l’oro che viene pesato per ben due volte dai tedeschi che vogliono accertarsi che il peso sia corretto e il giorno seguente inviato a Berlino, al capo dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, il generale Ernst Kaltenbrunner, insieme a una lettera di Kappler che propone di evitare la deportazione e utilizzare gli ebrei romani come mano d’opera per i lavori pubblici.
La risposta di Kaltenbrunner è perentoria: “È precisamente l’estirpazione immediata e completa degli ebrei in Italia nell’interesse speciale della situazione politica attuale e della sicurezza generale in Italia”. All’inizio del mese di ottobre Kappler accoglie nella città un ulteriore gruppo di intervento delle SS sotto la guida del capitano Theodor Dannecker, l’ufficiale che dal 1940 al 1942 ha organizzato la deportazione degli ebrei francesi. Quest’ultimo si avvale della schedatura del 1938 e dell’indirizzario completo degli ebrei romani raccolto da agenti della questura cittadina. Nell’individuazione dei domicili collaborano anche i due commissari di pubblica sicurezza Raffaele Aniello e Gennaro Cappa. A quel punto tutto è pronto per l’operazione di rastrellamento.
Il rastrellamento degli ebrei del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943
Alle 5,30 di sabato 16 ottobre 1943, giorno festivo per gli ebrei che da quel momento lo ricorderanno come il Sabato Nero, circa trecentosessantacinque uomini delle SS tedesche, coadiuvati da alcuni ufficiali e sottufficiali, iniziano le operazione del rastrellamento del Ghetto di Roma appostandosi in via del Portico d’Ottavia. Proprio l’area del ghetto rappresenta l’epicentro dell’operazione che dura diverse ore, fino alle 14,30 circa, e che coinvolge anche altri quartieri della città.
Per realizzare la retata i tedeschi bloccano gli accessi stradali evacuando un isolato alla volta e radunando man mano le persone di ogni genere e età in strada. Le 1259 persone catturate vengono portate al Collegio militare di via Lungara dove duecento trentasette sono riconosciute non ebree e liberate. A dispetto della brutalità dell’operazione, delle urla soprattutto dei tanti bambini, il tutto si svolge con una certa disciplina a detta di Kappler che, nel suo rapporto del rastrellamento inviato via radio a Berlino, sottolinea orgogliosamente il fatto che non ci sia stato bisogno di sparare nessun colpo di arma da fuoco:
“Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione anti-giudaica secondo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare maggiori eventualità. Sono state messe in azione tutte le forze a disposizione della polizia di sicurezza e di ordine. In vista della assoluta sfiducia nella polizia italiana, per una simile azione, non è stato possibile chiamarla a partecipare. Perciò sono stati possibili singoli arresti con ventisei azioni di quartiere in immediata successione. Non è stato possibile isolare completamente delle strade, sia per tener conto del carattere di Città Aperta sia, e soprattutto anche per l’insufficiente quantità di poliziotti tedeschi in numero di 365.
Malgrado ciò nel corso dell’azione che durò dalle ore 5,30 alle 14,00 vennero arrestate in abitazioni giudee 1259 individui, e accompagnati nel centro di raccolta della Scuola Militare. Dopo la liberazione dei meticci e degli stranieri (compreso un cittadino vaticano), delle famiglie di matrimoni misti compreso il coniuge ebreo, del personale di casa ariano e dei subaffittuari, rimasero presi 1007 Giudei. Il trasporto fissato per lunedì 18 ottobre ore 9.
Accompagnamento di 30 uomini della polizia di ordine. Comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva; che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo. Per esempio in un caso, i poliziotti vennero fermati alla porta di un’abitazione da un fascista in camicia nera, con un documento ufficiale, il quale senza dubbio si era sostituito nella abitazione giudea usandola come propria un’ora prima dell’arrivo della forza tedesca.
Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere i giudei in abitazioni vicine, all’irrompere della forza germanica ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l’azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione: ma solo una massa amorfa che in qualche caso singolo ha anche cercato di separare la forza dai giudei. In nessun caso si è fatto uso di armi da fuoco”.
La mattina del 18 ottobre 1943 le 1022 persone rastrellate sono condotte alla stazione Tiburtina e caricate su un convoglio composto da diciotto carri bestiame che parte nel primo pomeriggio verso Auschwitz. Una volta arrivati nel campo di sterminio ottocento trentanove prigionieri sono destinati subito alle camere a gas. Alla fine della guerra solo diciassette degli ebrei rastrellati il 16 ottobre 1943 fanno ritorno a casa; tra questi l’unica donna sopravvissuta è Settimia Spizzichino.
Le testimonianze del rastrellamento del 16 ottobre 1943
Intervistata da Alessandro Portelli in occasione della realizzazione del libro “L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria” Settimia Spizzichino ha ricostruito i momenti vissuti la mattina del 16 ottobre 1943 e il tentativo di nascondersi all’interno della propria abitazione per non farsi trovare dai tedeschi:
“Sentiamo i primi rumori e ci mettiamo a vedere e vedevamo portà via gli ebrei dal portone vicino. Allora noi ciavevamo una casa che era grandissima, era di quattro stanze, enormi po, una bellissima casa era. Però c’erano due stanze una dentro l’altra; ci nascondiamo dentro l’ultima stanza e lasciamo tutto aperto in maniera che se entrano vedono che non c’è nessuno. Mia sorella, quella più piccola, chissà che le disse il cervello, ebbe paura, scappò. E’ scesa giù il portone per scappare di casa, lei scendeva e i tedeschi salivano, lei se li è visti davanti, è tornata indietro e ci ha fatto prendere a tutti”.
A distanza di anni dall’evento i superstiti intervistati si soffermano su un fatto che è rimasto impresso nella loro memoria, ovvero, il non intervento del Vaticano nelle ore in cui gli ebrei sono tenuti negli spazi del Collegio militare, situato nelle vicinanze di San Pietro:
“Mia sorella e tutti quelli che hanno portato via il 16 ottobre sono stati due giorni dentro al collegio, due giorni! Io non ho inteso mai che è andata una suora, un frate, e il papa ha mandato qualcuno (Fortunata Tedesco). Da piazza della Rovere dove tutti gli ebrei sono stati accolti e tenuti, in Vaticano ci si va a piedi; e il papa ciaveva la macchina con la benzina. Bastava mandare uno straccio di cardinale o di vescovo! (Claudio Fano)”.
Il Papa viene messo a conoscenza del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma dalla principessa Enza Pignatelli che ha assistito in parte alla retata e subito si è recata in Vaticano dove ha un colloquio con Pio XII che, alla fine dell’incontro, incarica il cardinale Segretario di Stato Luigi Maglione di informarsi e occuparsi della questione. L’iniziativa, però, si concretizza in una protesta formale di quest’ultimo rivolta all’ambasciatore tedesco presso il Vaticano, Ernst von Weizsäcker. Al di là di questo e di un articolo apparso sull’Osservatore Romano mirante a giustificare il comportamento della Santa Sede, Pio XII decide di mantenere un riservato silenzio sul rastrellamento.
Tuttavia il pontefice mostra la propria preoccupazione per le sorti degli ebrei romani rimasti in città, che continuano ad essere ricercati dalle autorità tedesche, emanando il 25 ottobre 1943 una direttiva riservata a tutti gli ecclesiastici italiani con la quale li esorta a “ospitare gli ebrei perseguitati dai nazisti in tutti gli istituti religiosi, ad aprire gli istituti o anche le catacombe”.
Il rastrellamento e il Morbo di K
Una breve menzione a parte merita la coraggiosa azione svolta dai medici Adriano Ossicini e Giovanni Borromeo attivi all’Ospedale Fatebenefratelli. In questo centro situato sull’isola Tiberina, a pochi passi dal ghetto ebraico, i due medici, per salvare gli ebrei romani che li si sono rifugiati dalla deportazione, si inventano una nuova malattia, il Morbo di K, così chiamata con riferimento alle iniziali degli ufficiali nazisti Albert Kesselring e Kappler.
Ossicini e Borromeo ricoverano sotto falso nome le persone che si rifugiano nell’ospedale creando un reparto appositamente dedicato al Morbo K e compilando false cartelle cliniche. Quando i tedeschi entrano nell’edificio per un’ispezione Borromeo riesce a convincerli sulla contagiosità della malattia tanto che i soldati rinunciano a effettuare i controlli.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Einaudi, Roma, 1945.
- Anna Foa, Portico d’Ottavia 13, Roma, Laterza, 2013.
- Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, 2005.
- Marcello Pezzetti, 16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma, Roma, Gangemi editore, 2013.
- Anna Foa, Lucetta Scaraffia, Anime nere. Due donne e due destini nella Roma nazista, Marsilio, 2021.