CONTENUTO
Lo storico che si pone a verificare le relazioni di metà ‘900 fra Francia ed Italia, non può non rilevare come le Nazioni latine per lingua, storia e costumi, sviluppino fra ineluttabili diffidenze una futura solidarietà: un’alleanza prima timida e poi più audace, fino alla pari cessione di Sovranità ad un Ente Superiore. Mounier, Olivetti, De Gasperi. Schumann, Spinelli ed Adenauer, costituiscono una classe di intellettuali e politici che ipotizzano e promuovono forme di unione economica fra un minimo gruppo di Paesi investiti direttamente dal Secondo Conflitto Mondiale. Di essi fanno parte Francia e Germania, oltreché l’Italia. Il 25 marzo 1957 nasce una Pace Latina, foriera di luci ed ombre, dove la prima Repubblica Italiana democratica e la Repubblica Autoritaria di De Gaulle saranno in grado di convivere finalmente in prospettiva unitaria ed amichevole?
La singolare guerra italo/francese (10.6.1940-24.6.1940)
Come appare subito il 1940 costituisce l’acme della conflittualità fra le due sorelle latine. Benito Mussolini, in coerenza agli accordi con Adolf Hitler intercorsi al Brennero il 18 marzo, dichiara il 10 giugno la guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna. Poco dopo, si ha il conseguente attacco alla Francia sul confine alpino. Mentre il 15 giugno la Wehrmacht conquista a nord la fortezza di Verdun ed il nuovo capo di Governo di quel Paese, il maresciallo Petain, al fine di impedire ulteriori lutti al suo popolo, concede un armistizio, firmato poi a Compiègne il 22 giugno consegnando ai Nazisti gli altri 2/3 della Nazione; mentre il 18 però il generale De Gaulle, ormai in esilio a Londra, lancia un appello al popolo per organizzare la Resistenza; mentre lo stesso Petain ottiene da Hitler la costituzione di uno Stato francese a sud (la c.d. repubblica di Vichy); l’Italia nelle due prime settimane dello stesso mese combatte una singolare guerra con la sorella latina, cessata solo il 24 con un secondo armistizio richiesto dallo stesso Governo provvisorio.
La singolarità di questo breve conflitto – che qui naturalmente citeremo nei suoi sommi capi – ha nell’aprile del 1940 ( in piena non belligeranza dichiarata da Mussolini dopo l’occupazione nazista della Polonia il 1°settembre del 1939, in deroga al Patto d’acciaio del 22 maggio, la cd. alleanza militare con la Germania derivata all’accoglimento, mal digerito dai Nazisti, di uno slittamento all’entrata in guerra per ragioni di evidenti motivi di impreparazione tecnica) un primo atto da tragedia annunziata nel notissimo sfogo di Mussolini al ministro e genero Galeazzo Ciano. Il Duce, nel maggio del 1940 alla luce della avanzata fulminea in Francia dei Nazisti, non intende più ritardare l’attacco alla Francia… i segni della sconfitta sono evidenti… non vivo che della voglia di prendere parte alla spartizione delle spoglie del nemico.
Tanto che l’ambasciatore francese a Roma, François Poncet, si vede esibire la dichiarazione di guerra il 10.6. Di fronte all’imperturbabile Duce, si lascia sfuggire la famosa risposta, è un colpo di pugnale ad un uomo già a terra! Dietro la quale si nasconde la profonda disillusione del mito di un’Italia che avrebbe fatto da scudo alle pretese della Germania, nato nei giorni del Patto firmato a Monaco il 29 e 30 settembre del 1938. Se poi si poi si va a studiare la campagna militare sulle Alpi Occidentali, le nostre truppe iniziano la prima spedizione militare prive di armi aggiornate al combattimento in aree montane; con un vestiario disadattato alle rigide temperature inopinatamente ritenute estive; senza contare le carenze delle scarpe del tutto inidonee ad affrontare le scalate verso montagne altissime difese da fortificazioni di frontiera inaccessibili.
Di qui, la naturale lentezza dell’avanzata da Ventimiglia a Mentone. Infatti, le fonti francesi mostrano un’abile tattica difensiva fondata su fortificazioni in cemento armato, dotate di artiglieria d’altura che consente una forte resistenza di 80.000 uomini, contro i 600.000 italiani come si è detto impreparati e per di più guidati da generali in conflitto fra loro. Una tragica ripetizione delle vicende non ancora dimenticate di Caporetto del novembre del 1917. Continua a difettare lo spirito tattico alla battaglia concordata che invano il Fascismo per un ventennio aveva inutilmente propagandato.
A dire del generale francese Montagne, si assiste alla caduta della leggenda delle Nazione unita in battaglia, che precipiterà fra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. Appare piuttosto una realtà confusionale, presto divenuta coscienza diffusa di truppe mandate a morte senza razionalità bellica. Montagne prosegue così nella sua analisi di perdente senza essere sconfitto: se col Piave e con Vittorio Veneto, poco più di 20 anni prima, si è riuscito a ricostituire la certezza di una vittoria voluta da un Governo democratico proprio perciò sostenuto dagli Alleati occidentali; nelle Alpi meridionali la solitudine internazionale dell’Italia e la evidente freddezza della società civile, non bastano a risollevare il morale delle truppe impelagate in una guerra alpina mal gestita e non sentita dal popolo, ancora attonito per la strana superficialità con cui viene affrontato l’esito degli scontri poco dopo il confine.
Del resto, Hitler e von Ribbentrop, nei colloqui del 1 giugno con Mussolini a Monaco, per la prima volta non andarono al di là di mere assicurazioni in tema di compensi territoriali. I diari di Ciano parlano di una pace separata con la Repubblica satellite di Vichy e di una generica conferma del passaggio all’Italia di Nizza, Corsica e Tunisia. Quanto alla situazione militare, il 23.6., prima del cessate il fuoco definitivo, una colonna militare italiana, al di là della montagne, riuscì ad occupare Mentone con non poche difficoltà e vittime, concludendo così quella sfortunata campagna. Fu la prova generale delle successive campagne – Grecia e Russia – notoriamente funestate da gravi sconfitte che preluderanno alla caduta del Regime il 25.7 del 1943.
Le origini dell’idea Federalista Europea: Jacques Maritain, Jean Monnet, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Adriano Olivetti ed Emmanuel Monnier
Intanto, in Francia ed in Italia, nell’ultimo scorcio degli anni ’30 e fin quasi l’inizio della Guerra con la Germania, i filosofi cattolici, Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier – maestri del nostro Silvio Trentin citato in un nostro precedente intervento del 11.3.2024 su questo blog – costituiscono un nuovo filone di pensiero sociale, legato alla dottrina sociale della Chiesa, cioè l’ideale personalista, in competizione al capitalismo utilitarista ed al socialismo collettivista leninista, che quei pensatori accusano di essere state ideologie foriere delle due guerre mondiali del ‘900. Forte di questo presupposto, né soggettivista, né socialista, ma Comunitario, si pone quindi la persona al centro della vita quotidiana.
Adriano Olivetti (1901-1960) in Italia, esponente di una classe intellettuale laica e non compromessa con il Regime Fascista, studia con estrema attenzione il saggio principale di Mounier – Manifeste au service du Personnalisme, 1936 e fin dal 1943 progetta uno Stato federativo Europeo di natura cristiano-sociale. Nel 1949 in Svizzera fonda il Movimento di Comunità e nel 1955 scrive Le proposte per un federalismo comunitario, una raccolta ragionata di idee che derivano dalla Costituzione Italiana del 1948, in parallelo alle analoghe ricerche del socialista Giorgio Fuà e del comunista indipendente da Mosca Nicola Chiaromonte.
Del resto una prima schiera di intellettuali di fuoriusciti italiani – da Francesco Saverio Nitti a Silvio Trentin – fino a giuristi estranei al Regime Fascista – Piero Calamandrei e Paolo Rossi – plaudono, da angolazioni politiche diverse, alle formulazioni federaliste di Aristide Briand e Gustav Stresemann che, presagendo il grande crollo economico del 1929, propongono nel 1925 all’Assemblea della società delle Nazioni,un progetto istituzionale politico ed economico unitario per la futura Europa.
E ciò non solo per rinforzare la riconciliazione franco-tedesca ancora in agguato per il carico insopportabile di debiti di guerra che la Germania di Weimar paga dopo la pace di Versailles del 1919; ma anche per instaurare un sistema di Unione doganale derivato dallo Zollverein prussiano del 1834, fonte che giuridicamente costituì il collante sociale per l’unificazione tedesca sotto l’egida dello Bismarck nel 1871. Il Nobel per la pace nel 1926 conferito ai due statisti Briand e Stresemann, insieme ai predetti filosofi cattolici, ci sembrano i principali precedenti per la nascita del mito dell’Europa Unita.
Infatti, a Ventotene, isola a largo di Lazio e Campania, luogo di detenzione di non pochi antifascisti, nel 1941, un gruppo di dissidenti di varia estrazione politica, uniti dallo steso scopo politico, vara un manifesto all’epoca utopico, elaborato dagli ideali risorgimentali repubblicani di Carlo Cattaneo, ispirati dalla dottrina sociale cristiana e dal socialismo italiano di inizio secolo ventesimo, conforme ai principi di pace europea e di diritto delle genti riconosciuti dall’età di Kant fino alle Costituzioni liberali e democratiche del primo dopoguerra. Autori di quel Manifesto – in collaborazione con un giovane comunista gramsciano, Eugenio Colorni – sono Altiero Spinelli, di formazione radicale, cultore di Cattaneo e Mazzini ed Ernesto Rossi, lettore di Rathenau e di Keynes, nonché di Salvemini e Sturzo, approfonditi studiosi della storia degli Stati Uniti e della Svizzera.
Figli del pensiero politico e pacifista di Kant, evidenziano in concreto un sistema federalista europeo, fondato sulla pace perpetua, di libera concorrenza, di tutela del bene comune, di cessione della sovranità nazionale ad un unico e condiviso Ente superiore, legittimato dal comune presupposto del libero consenso politico di libere Nazioni a loro volta fondate sul ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (vd. art.11, comma primo della Costituzione Italiana del 1948).
Al loro Manifesto non basta la mera restaurazione delle libertà tradizionali già presenti nei vecchi regni liberali europei; non ritengono del pari sufficienti le superficiali distinzioni politiche fra destra e sinistra, né l’assodato bilanciamento fra maggioranza ed opposizione parlamentare, nel tradizionale pensiero di Constant e di Tocqueville discepoli della separazione dei poteri dell’illuminista Montesquieu. Occorre piuttosto – come dichiarano all’unisono i tre intellettuali di Ventotene – un ulteriore supplemento democratico che la scuola politica cattolica di Sturzo, Adenauer e Beveridge, hanno coltivato nelle loro meditazioni, od in esilio in silenziosa ma non perciò inutile estraneazione della vita sociale, perché antipatici ai Regimi totalitari e conservatori.
Vale a dire, la scelta di un Welfare State, rivolto ad assicurare da parte dello Stato un piano programmato socio economico e politico che mantenga per tutti i cittadini la stabilità del reddito e la maggiore possibile occupazione dignitosa per i lavoratori. Il tutto peraltro connesso alla limitazione delle Sovranità Nazionali, operazione funzionalmente attribuita ad un Potere Esterno Superiore e Neutrale, come avevano profetizzato proprio Briand e Stresemann, purtroppo l’uno sconfitto in Francia del nuovo Governo conservatore malgrado le sue capacità di politico lungimirante e progressista; l’altro improvvisamente deceduto e non sostituito da un pari statista e peraltro incapace di reggere l’urto della grande crisi del 1929, cioè lo Julius Curtius che fu travolto dalle crisi bancarie austriache e tedesche del 1931.
Il programma di governo dei due illustri statisti or ora menzionati, è richiamato proprio dai tre redattori del Manifesto di Ventotene. Un potere cioè che sia in grado di riuscire a coartare democraticamente e consensualmente i Governi della Federazione, vale dire investito di un Potere Politico Europeo. E’ in altri termini la stessa logica di Briand e Stresemann, dove la scintilla creativa di Spinelli e soci brilla in un contesto buio nell’anno più duro della guerra, quel 1941 dove è solo la democratica Gran Bretagna a resistere al lupo mannaro nazifascista, pronto ad azzannare il leone britannico, ora attestato a respingere a Dover uno sbarco azzardato e non riuscito un secolo e mezzo prima prima dal leopardo Napoleonico.
E’ ancora la libertà di stampa, di riunione, di parola e di pensiero che vivifica quella democrazia e che è l’arma di resistenza ai tiranni dell’Età contemporanea. Sebbene la Francia occupata sembri essere già divorata dal mostro totalitario che fagocita non allineati e disobbedienti, saranno i Cahiers de Défense de la France di Philippe Viannay, (1917-1986); l’altrove citato Libérer et Fédérer di Silvio Trentin, Die Weiße Rose, di Sophie Scholl a Monaco e Il non mollare di Calamandrei; saranno tutte quelle espressioni di stampa clandestina che terranno il punto sulla Pace, sulla Democrazia, sulla Libertà e sulla Fede di una Europa Unita e Federale.
Il decennio preparatorio alla Comunità Europea e l’attuazione del primo progetto unitario, fra processo di decolonizzazione francese ed il sorgere della V Repubblica
La compresenza fra valori della Resistenza antinazista; il senso di ricerca della Pace dopo due guerre mondiali devastanti; il contenimento delle contemporanee fratture ideologiche lungo la prima metà del ‘900; sfociano in un lento processo federativo fondato su basi interclassiste nelle Costituzioni di tutti i Paesi Europei coinvolti nell’ultimo conflitto. La Costituzione Italiana del 1948, quella Francese del 1946, nonché la Costituzione di Bonn della Repubblica Federale Tedesca del 1949, tanto per citare tre paesi principali dei futuri cofirmatari dei tre Trattati di Roma, atti di nascita della attuale famiglia europea, istitutivi della Comunità Economica Europea (25.3.1957), senza contare le analoghe Carte Costituzionali del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, gli altri tre futuri Paesi sottoscrittori e pari fondatori della stessa comunità.
Tali Carte Fondamentali hanno in esplicita previsione normativa la difesa della Persona Umana, la ricerca del Bene Comune, la tutela della Proprietà purché sia lo strumento principale per la Utilità Sociale, come recita per esempio l’art. 2 della Costituzione italiana. Proprio il Riconoscimento di tale valori assoluti in modo unitario indurrà subito i Governi della ricostruzione postbellica a rinforzare l’idea federalista fin dal trattato di pace di Parigi del 1947, tanto che il noto Piano Marshall statunitense non ne può prescindere.
A far data da quel Trattato, emergono quattro grandi statisti – Jean Monnet (1888-1979), Presidente del Comité français de libération nationale avente per scopo la ricostruzione della Francia; Robert Schuman (186-1963), primo capo del Governo francese della quarta Repubblica dal 1947, nonché Ministro degli Esteri dal 1948 al 1953, ideatore della Comunità Economica Europea (CECA) fin dal 1950; Konrad Adenauer (1876-1967), cattolico progressista ed antinazista della prima ora, sindaco di Colonia, guardato a vista dal Nazismo, tollerato solo perché amato dal popolo, non violento e seguace di Albert Schweitzer, di Luigi Sturzo ed Emmanuel Mounier; Alcide De Gaspari (1891-1954) fondatore della Democrazia Cristiana, segretario politico ed indiscusso capo del Governo italiano e filo atlantico, mediatore con gli U.S.A. in prospettiva europea.
Costoro prendono atto della raggiunta unità di base dei movimenti federalisti nazionali riunitisi a Montreux nel 1947 ed a Roma nel 1948, raggruppatosi nella Union Européenne des fédéralistes (U.E.F.), congressi apprezzati da un crescente interesse sia del mondo dell’Economia fino alle correnti teologiche e popolari. Luigi Einaudi, Raymond Aron, Jacques Maritain, Pierre Teilhard de Chardin, Jean Paul Sartre e Karl Jaspers, scendono in campo a proporre quel modello di federalismo, ereditato da quello Svizzero e quello Nordamericano, dove è presente, in modo variamente accentrato, un potere sovranazionale.
Si chiedono tutti quale sia la Germania da accogliere: quella federale di Adenauer? Od anche quella Autoritaria e socialista di Ulbricht? E quale forma di istituzione interna da adottare, tale da disinnescare lobby esterne che proteggono interessi di parti politiche che rendono inefficaci le cessioni di sovranità, magari usufruendo dei modelli funzionalisti di Jean Monnet, il politico e banchiere francese fautore dell’accorpamento di varie funzioni governative, iniziando da situazioni collaudate spesso per schivare equivoci e conflitti, come nel primo caso clinico, il paziente n. 1, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Caso emblematico delle aree industriali dell’Alsazia e della Lorena, la c.d. Ruhr, area che avevano attizzato il conflitto permanente del 1870 fra Francia e Germania. Il pericolo del riarmo della Germania, appena qualche anno dopo la nascita della CECA nel 1950, impone un rapido passaggio, sollecitato da De Gasperi e Spinelli spesso a colloquio con Adenauer e Schuman. Perché non creare un organo superiore Europeo al riguardo? E che dire della politica di difesa militare?
Le posizioni guerrafondaie di De Gaulle – per ora all’opposizione, ma capo di una destra militarista in parte erede della vecchia Action française, sia pure depurata dalle presenze collaborazioniste trasferite in aree non sospette al Governo – convincono i quattro grandi europeisti – cui si aggiunge il belga Paul Henry Spaak (1899-1972), portatore degli interessi del cc. dd. Benelux – non solo ad estendere il sistema CECA; ma anche ad allineare i 6 paesi verso il tema comune della Energia atomica (Euratom) ed il tema dell’economia agraria e commerciale (Comunità Economica Europea, CEE).
Ecco dunque il Complesso Pattizio dei Trattati di Roma del 25.3.1957, dall’epoca considerati l’atto di nascita dell’attuale Grande famiglia Europea. Lungi dall’esaminare la complessità dell’accordo – peraltro oggi per buona parte integrati e superati da vari trattati di modifica, da quello di Maastricht (7.2.1992) a quello di Lisbona (13.12.2007), tanto per citare quelli più noti – merita rilevare la partecipazione congiunta delle due sorelle latine, che ormai sono avviate ad un percorso comune già per i tre grandi temi del 1957, anche per la preliminare Dichiarazione di Schumann in politica estera del 9.5.1950.
Frutto di tale programma è il processo di decolonizzazione del suo paese stimolato dalla guerra di liberazione in Indocina ed in Algeria. Del pari, in Italia è lenta, ma costante, la rinascita dell’economia italiana ed il rinnovato flusso di emigrazione dall’Italia verso Francia e Belgio specie nel settore minerario, del quale è segnale molto preoccupante la tragedia di Marcinelle del 8.8.1956, dove persero la vita 136 immigrati minatori italiani. Sia come sia, queste due realtà costituiscono la chiave di ripresa dei buoni rapporti fra le due nazioni per più di mezzo secolo, ora però sfiorati da opposte letture del fenomeno migratorio extracomunitario e dall’incidente di Ustica (27.6.1980), senza contare i recentissimi scambi di divergenze di politica internazionale, specie sull’invio di contingenti militari a difesa dell’Ucraina nell’attuale guerra con la Russia, pur nella comune convinzione di sostegni di armi sofisticate al riguardo.
Gli storici ritengono comunque che la Pace Latina ormai appare ben più consolidata di quella avvenuta nel Primo dopoguerra. Benché notevoli siano le insidie internazionali della Guerra Fredda fra blocco sovietico e N.A.T.O. l’alleanza militare atlantica dei Paesi occidentali antisovietica sottoscritta da 32 stati europei e nordamericani a scopi difensivi il 4 aprile 1948, fatto che influirà sul menzionato processo di decolonizzazione e sulla guida dei Governi italiani fino agli anni ’80, perché preclusivo della partecipazione del Partito Comunista, alla guida del Governo in quanto legato saldamente al regime Sovietico – un Virus bellicoso affliggerà a più riprese gli anni di pace latina ora ora segnalati.
Del resto, la firma congiunta del Trattato di pace del 1947, ricostituisce i confini occidentali fra i due Paesi anteriori al 1940 e che chiude contemporaneamente ogni velleità su Nizza e sulla Corsica. Rimane però la freddezza d’oltralpe nell’appoggiare il ritorno di Trieste all’Italia. Sulla questione istriana, Parigi è neutrale, mentre Londra e Washington parteggiano per Tito, sperando che la sua Jugoslavia fermi l’espansione sovietica nei Balcani e si concede una semplice gestione amministrativa in quelle terre di confine restituite all’URSS (l’Ucraina e la Crimea come finestra sul Mar Nero).
Il governo democratico-liberale di De Gaspari ed Einaudi, fra il 1947 e il 1953, riuscirà ad ottenere con l’appoggio NATO – ed anche francese – un certo grado di ripresa economica ed industriale a condizione di firma del Patto Atlantico, malgrado le forti contestazioni operaie e la ripresa del flusso migratorio non solo verso la stessa Francia. Qui intanto la stabilità politica risulta franare. La IV Repubblica diverrà un esempio di precarietà governativa molto rilevante e non minore della coeva rapidità di durata dei governi italiani negli stessi anni ’50.
Vincent Aurial. Socialista; Robert Schuman, cattolico europeista; Paul Ramadier, radicale; Henri Queuille, indipendente; George Bidault, fedelissimo di De Gaulle; fino all’ultimo, il liberale René Coty, che chiude quella triste teoria di uomini di Governo, retti da una maggioranza frammentaria frutto del sistema elettorale proporzionale puro, foriero di ripetute crisi parlamentari e di numerose verifiche elettorali. Anche lo stesso periodo si è detto dell’Italia repubblicana: Alcide De Gaspari, Giuseppe Pella, Amintore Fanfani, Mario Scelba, Antonio Segni, Adono Zoli, sebbene tutti appartenenti allo stesso partito, seguono il lento appassirsi dello spirito democratico unitario delle forze antifasciste verso una deriva conservatrice, che blocca la crescita politica e sociale del Paese, fino a limitare i diritti costituzionali nati nel 1948.
Questo parallelismo involutivo dei due paesi rispetto alle aspettative degli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale; sembrano avere una scossa di segno contrario proprio su un tema all’epoca divisivo, la proposta della creazione della Comunità Europea di difesa (CED). Si sarebbe dovuto istituire un organismo militare idoneo a fronteggiare le pretese espansive sovietiche verso est: per esempio la repressione militare nella Germania Est a Berlino nel 1953, dove le masse operaie tentano invano di ribellarsi alla dittatura stalinista.
Di qui, l’ipotesi di un esercito europeo integrato, che però fa riemergere i timori francesi per il riarmo tedesco contro l’URSS, tanto più che la Germania Federale ha raggiunto livelli di produttività industriale quasi analoghi al primo dopoguerra. Il conflitto fra tale preoccupazione ed il serio rischio di un conflitto con l’URSS, se fa innalzare il livello di guardia della NATO; consente a De Gaulle di farsi portavoce della destra imperialista e tardo colonialista, sopratutto di fronte alle vicende vietnamite ed algerine, nonché la lunga campagna mediatica volta a riformare la Costituzione in senso maggioritario per la forma di Governo parlamentare, bloccata dalle frontiere mobili fra ceto medio e classi popolari frazionati in una pletora di Partiti.
Di fronte a tali problematiche interne, la Francia considera la CED un doppione NATO e quindi influenza negativamente l’Assemblea Nazionale. La bozza così decade, segnalando una difficoltà esecutiva di natura politica, dietro la quale si intravvedono pretese di primazia e di limiti sovranisti, non tanto distanti dalle manovre politiche di nuovo in ballo in occasione della citata vicenda Russo-Ucraina. Rimane in piedi la Comunità Economica Europea e ad essa ora ricorrono le restanti speranze di unificazione.
E ad essa si ricorre in alternativa coi Trattati di Roma del 1957, che adotta appunto una politica economica unitaria in vari settori, dal commercio, ai trasporti, dal lavoro all’istruzione pubblica e soprattutto nella politica agricola. Inoltre viene varata una nuova area di ricerca ed azione comune in materia di energia nucleare, l’Euratom, un centro studi di ricerca sull’energia nucleare a fini di riutilizzo pacifico.
Spiccano poi le libertà di circolazione fra i paesi del trattato (libertà di concorrenza, di commercio, di circolazione dei lavoratori e di capitali), aperte anche ad altri Paesi Europei di tradizione occidentale, benché la Spagna ed il Portogallo all’epoca soffrano di derive totalitarie, mentre la Gran Bretagna ancora vanta ideali imperialistici e gode ancora del suo tradizionale isolamento, sempre più mitico ma realmente in calo di fronte al processo di decolonizzazione che culminerà nella nota crisi di Suez del 1956.
Sono le libertà di circolazione a fare rilievo nella politica internazionale, rafforzando il legame fra Roma e Parigi, dopo la funesta vicenda di Marcinelle. La libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, a lasciare un sentimento di speranza a quel mai più guerre, lanciato da Papa Roncalli il 25.1.1959, quando fra le inaspettate motivazioni del Concilio che ha appena indetto, principio che questo Papa metterà al primo posto per la ricerca della Pace fra i popoli.
Il Centro/Sinistra a Roma (1962-1970) e la suddetta riforma costituzionale francese. Nuove ombre, fra spinte autoritarie e prospettive socialiste nei due Paesi
Superata la minaccia eversiva causata dal Governo di destra Tambroni del 30.6.1960; segue -dopo intensi contatti diplomatici e personali – il 22.1.1963 avviene a Parigi un incontro fra Adenauer e De Gaulle, ormai capi consolidati dei Governi tedesco e francese. Qui si sottoscrive il c.d. Trattato dell’Eliseo, che pone termine al secolo di reciproche conflittualità e foriero ora di ulteriori partenariati economici; ma rimane sospesa la cooperazione difensiva, un tassello che gli storici oggi ritengono essenziale quanto fisiologica all’idea di Europa Unita.
Per converso, rimangono improvvisamente gelide le relazioni fra Francia ed Italia dopo il 1960. Il flusso migratorio italiano verso la Francia diminuisce e risale verso la Germania, ma solo da parte dell’Italia Meridionale. Nel complesso tale flusso assume rilevanza interna nel decennio 1959/1969, collegato all’aumento del Prodotto Interno Lordo ed all’incremento dei Servizi Pubblici, con salari finalmente superiori all’inflazione. Siamo cioè nel decennio del c.d. boom economico e sociale, che però vede le relazioni economiche con la Francia piuttosto riservate al turismo d’élite perché quello di massa resta pressoché indirizzato al territorio nazionale.
Il fenomeno descritto però non tocca le relazioni culturali, da secoli acquisite a livelli molto superiori a quelli con altre Nazioni. Per esempio, in letteratura spopolano due scrittori che vanno per la maggiore nei due Paesi: il romanziere belga e francese d’adozione Georges Simenon ed il siciliano Leonardo Sciascia. Il primo è un notorio giallista, creatore del famoso Maigret, egregiamente rappresentato al cinema da Jean Gabin ed in televisione da Gino Cervi.
Non disdegna poi il romanzo drammatico, come Il testamento Donadieu (1937) e Le campane di Bicêtre (1963), dove sviluppa un’analisi spietata degli ambienti provinciali piccolo-borghesi e poi le grandi città in cui dipinge la caduta dell’alta finanza che crede nella Grandeur di De Gaulle. Poi non manca la biografia di In caso di disgrazie (1956) e di Pedigree (1948), il racconto amaro della propria infanzia e l’adolescenza nella Francia conservatrice del Midi e della Parigi esistenzialista del secondo dopo guerra. Una rassegna di situazioni da Vizi privati e pubbliche virtù, che il secondo nostro autore sviscera nei primi due romanzi/saggi che lo lanciano negli anni a cavallo del 1955 al 1958, vale a dire Le parrocchie di Regalpetra e Gli zii di Sicilia, affreschi di un graffiante realismo che guardano allo stesso territorio picolo borghese, agrario e cattolico del’900, in cui è descritta con un velo di ironia una società immobile e provinciale negli usi e costumi ancora intrisi di Medioevo, fino a farsi lo scrittore giudice, avvocato ed imputato di storie che ripropongono un Cristianesimo spesso falso o superficiale.
E’ l’età del boom economico per le stesse sorelle latine. Sono autori che si ripropongono come gli Stendhal del momento, fustigatori di una società che ormai sembra sparire, in armonia alla transizione dell’età agraria del tutto in decomposizione e di cui sentono la nostalgia – si pensi al coevo Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – che si lasciano sedurre dalla società industriale in arrivo e di cui saranno vittime e carnefici, come Luciano Branciardi per La vita agra (1962) ed Albert Camus che con La peste fin dal 1947 mette il dito sulla piaga del mito della Francia vincitrice del secondo Conflitto mondiale. La quarta Repubblica invero persegue l’ambizione di ricostituire il vecchio apparato coloniale. Malgrado la schiaffo della crisi di Suez del 1956 e la tragica rivolta algerina che la porta all’orlo della guerra civile.
Di più: lo sbandieramento della sua forza nucleare – oggi purtroppo in ripresa nella questione Ucraina – ed il suo seggio al consiglio dei Membri permanenti dell’ONU, le conferisce il potere di veto che esercita in modo negativo rispetto al processo di decolonizzazione. Poi la continuità ad essere presente in parecchi Stati africani ed asiatici solo apparentemente decolonizzati, costituiscono una Francia sempre presente ad autoreferenziarsi come un Potere Mondiale, specialmente da quando il generale De Gaulle nel 1958 arriva al Governo e la trasforma da Repubblica Parlamentare a Repubblica Presidenziale a vocazione maggioritaria.
Essa assume una condotta centrale geopolitica nelle relazioni internazionali, non più pari alle Nazioni della CEE, quanto quella di Prima inter pares, tenuto conto della divisone della Germania e dell’Italia, che come dice la Costituzione considera la Guerra non una realtà eventuale, quanto e piuttosto diversa da Parigi che la intende in modo fisiologico. Questa è proprio la peste che Camus indica come il virus che negli anni ’50 e che nei primi anni ’60 inquina e poi potrebbe distruggere la ritrovata azione unitaria del Continente, sempre in allarme per la presenza dell’URSS che dalla maledizione panslava non è affatto guarita.
L’egemonismo di De Gaulle rivela allora un vecchio male oscuro, che però un personaggio cinematografico da rileggere può smontare alla luce del suo intrinseco sarcasmo, vale a dire Il monsieur Hulot (1953) di Pierre Daninos, che sotto le forme di Jacques Tati, interpreta al cinema le abitudini del latino medio, esposte nei suoi lati umoristici, forse anche tragicomici, specialmente nella quotidiana lotta per la sopravvivenza contro gli altri esseri umani nella Parigi moderna ed anche nella stessa provincia, del pari sferzate dai delitti che Maigret/Simenon è chiamato a risolvere.
Non gli è lontano il nostro Ennio Flaiano, che per esempio nella sua commedia La conversazione continuamente interrotta (1972) ci dà un quadro della solitudine umana, intervallata da rapidi epigrammi contraddittori di realtà ordinarie che all’improvviso rivelano il bene ed il male dell’uomo in famiglia, al lavoro ed in macchina, come Alberto Sordi e Totò nel frattempo di mostrano al cinema sulla nostra età del boom appena imboccata nel nostro Paese.
Ancora: mentre Camus ci strazia col suo Uomo in rivolta per l’estrema difficoltà di trovare un punto di mediazione fra Grandeur e rispetto della libertà dell’altro; Daninos ci illumina sull’arroganza del parigino medio quando narra le disavventure di un inglese a Parigi nel Carnet del maggiore Thompson (1954), una pièce letteraria poi trasposta in film, che sembra la metafora del dramma che il Paese non riesce a risolvere, vale a dire la triste realtà algerina. Quanto all’Italia di Fanfani, essa vive politicamente le convulsioni di un Fascismo che rialza la testa con Tambroni e rigira il coltello sulla piaga francese perchè ancora non cambia lo spirito neocolonialista. Proprio nei suoi Colloqui mediterranei, tenuti da Giorgio La Pira a Firenze di cui è sindaco, si tratta nel 1°colloquio del 1955 del problema algerino, sull’onda dei notissimi dubbi di Camus.
Scoppia il caso classico di scontro fra letteratura, ideologia e società. La Santa Sede – retta dal vecchio conservatore Pio XII° – difende il governo francese a guida dell’esponente di destra Mèndes France, sorretto da De Gaulle. Anche da parte dello stesso fronte di Liberazione algerino non mancano critiche. Dice La Pira: La Francia, se non vuole spegnersi come faro di civiltà cristiana, deve anzitutto regolare politicamente – e non poliziescamente – l’affare algerino. Il Popolo di questo Paese vuole l’indipendenza. Ne ha il diritto. Non c’è petrolio che tenga davanti ad un problema che sta scuotendo il mondo intero… Questo tempo nostro è singolare: presenta per la prima volta, in termini totalmente nuovi, il problema dei rapporti fra Cristianità ed Islam e fra Cristianità ed Israele …
Il contrasto diplomatico fu notevole e solo l’acuta mediazione di DE Gaulle, all’epoca all’opposizione, con il Presidente socialista Edgar Faure e quello italiano Gronchi, un democristiano progressista, impedisce effetti che possono inficiare l’adesione alla CECA ed alla CEE. A questa notevole pietra di inciampo fa però scudo anche l’intervento della cultura artistica: prevale fra i due paesi l’idea di recuperare fra le varie avanguardie di primo ‘900, in nome della comune lotta antifascista, pur se depurata dalla Stalinismo ormai desueto. Pensiamo alla revisione dei pittori neo-cubisti come Birolli, Santomaso e Corpore, il cui stile più astrattista viene riletto alla luce della civiltà industriale, ormai di stampo espressionistico.
Renato Guttuso è il principale restauratore di questa scuola dimenticata, peraltro sodale con Sciascia nel ritornare alla ragione reale del mondo, anche con qualche tono magico a margine di una pittura focalizzata sul fattore umano. Ma è il cinema il campo di interazione fra la sinistra popolare di Robert Bresson e Roberto Rossellini. L’uno nel 1956, l’altro nel 1959, presentano due film su episodi di resistenza al Nazifascismo in chiava problematica: un eroe della Resistenza che evade dalle carceri prima di essere fucilato, si nasconde e si salva dalla persecuzione, quasi un eroe della Regione e non più un valoroso che si fa mito. Del pari, Rossellini ritorna dopo un decennio al neorealismo col controverso film Il Generale della Rovere, qui descrivendo un eroe per caso, cioè un piccolo truffatore che vive millantando il credito di essere un collaborazionista dei nazifascisti.
Catturato da questi per aver abusato troppo di tale pratica e creduto per davvero un generale della Resistenza, torturato per non aver rivelato i nomi dei presunti compagni si fa fucilare gridando viva l’Italia e viva il Re…In entrambi i casi brilla il sussulto di dignità umana che accomuna il senso di rassegnazione che serpeggia nella cultura progressista dei due Paesi. Siamo all’inizio degli anni ’60: in Francia oramai è consolidato il gollismo ideologico di destra conservatrice che come si è visto, pur rinunziando formalmente al vecchio colonialismo politico, perpetua un neocolonialismo economico in Africa centro occidentale allo scopo di avere assicurate le fonti di energia essenziali per mantenere lo sviluppo industriale acquisito.
De Gaulle – con il bonario appoggio del socialismo democratico del giovane Mitterand – per un decennio conserverà il potere a colpi di Referendum che gli consentiranno di stare alla guida del paese fino allo scoppio inevitabile della contestazione studentesca del ’68, un evento spartiacque per la successiva storia non solo di quel Paese. In parallelo, l’Italia dal boom di Fanfani e del giovane Moro, di fronte al rischio di spaccature nella Democrazia Cristiana, perché una parte continua a sorridere alla destra neofascista pur di mantenere la maggioranza parlamentare e che non dimentica la scelta che produce i disordini popolari del citato caso Tambroni; apre finalmente alla sinistra democratica socialista di Nenni e De Martino, peraltro distaccatasi progressivamente dalla sinistra comunista dopo la morte di Togliatti ed in cerca di collocamento autonomo dalla costellazione della Russia sovietica. L’operazione di De Gaulle è diametralmente opposta anche se l’obiettivo di stabilità politica è eguale.
Il Generale, ottenuti i pieni poteri del Presidente Coty, per limitare i rischi di colpi di Stato e di tumulti nelle piazze – od attentati ormai frequenti dell’O.A.S, sferrati da estremisti di destra guidati dai Generali Salan e Massè alla liberazione coloniale dell’Algeria – salverà la democrazia costituzionale, favorendo un sistema governativo maggioritario con poteri autoritari e presidenziali autonomi rispetto al Parlamento. E’ la c.d. V Repubblica, dove il Referendum confermativo popolare funge da sostegno all’attività politica ed istituzionale del Presidente. In Italia invece, dopo l’allargamento della maggioranza al Partito Socialista e la rafforzata presenza delle minoranze repubblicana e socialdemocratica, si tende parimenti verso la stabilità governativa rivolta ad una legislazione di Welfare State connessa a quel boom economico e peraltro si nota il boom anagrafico della popolazione italiana.
Il centro sinistra a Roma; il centro-destra a Parigi, la Comunità Economica Europea a Bruxelles; il Concilio Vaticano II di Papa Giovanni e la distensione fra gli U.S.A. di Kennedy e l’URSS di Krusciov; sembrano fattori di pace appena scalfiti dalla costruzione del Muro di Berlino (13.8.1961). Scelte che produranno un lungo periodo di pace fra le Superpotenze. Fa eccezione la difesa occidentale di un paese asiatico, il lontano e poco conosciuto in Italia chiamato Vietnam, aggredito dalla repubblica consorella del nord, che non spaventa più di tanto, in una realtà politica abituata a Guerre per procura da parte delle due Superpotenze. A breve, un altra vicenda di guerra farà tremare il mondo, il cd. incidente di Cuba (16-29 ottobre 1962) che riporterà più che mai vicina la vecchia paura della Guerra Nucleare.
Bibliografia
- Per la guerra italo/francese del giugno 1940, vd. ALFRED MONTAGNE, La bataille pour Nice et la Provence: le sacrifice de Menton.1952. Per l’Italia vd. GIORGIO ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943, Milano, 2008.
- Sui primi pensatori dell’Unità Europea italiani e francesi, vd. Federalismo ed autonomia dal Settecento a oggi, a cura di FRANCESCA POZZOLI, Milano 1997. Sulla storia degli anni preparatori ai trattati Europei di Roma del 1957 vd. UMBERTO MORELLI, L’Unione Europea e le sfide del XXI secolo, Celid, Torino, 2000.
- Sul processo di decolonizzazione francese, cfr. GIAN PAOLO CALCHI NOVATI e PIERLUIGI VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma, 2008, pagg. 293 e ss.
- Sull’Italia del boom. vd. GIULIANO PROCACCI, Storia degli italiani, vol. 2°, ed. Laterza, Bari, 1998, pagg. 547 e ss. Per la Francia, cfr. MARC FERRO, Storia della Francia, ed. Bompiani, 2003.