CONTENUTO
Il compromesso storico
Il 16 marzo 1978 a Roma è previsto il dibattito alla Camera dei deputati e il voto di fiducia per il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. Si tratta di un momento di grande importanza poiché, per la prima volta dal 1947, il PCI concorrerà direttamente alla maggioranza parlamentare che sosterrà il nuovo esecutivo. Principali artefici di questa complessa e difficoltosa manovra politica sono Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ed Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista.
Nel luglio 1976 si inaugura la stagione del compromesso storico tra DC e PCI con il primo governo della VII legislatura. Il nuovo governo, chiamato “governo della non sfiducia”, supera la votazione di fiducia in parlamento grazie all’astensione del PCI e degli altri partiti dell’arco costituzionale: PSI, PSDI, PRI e PLI. Rimasto in carica dal 30 luglio 1976 al 13 marzo 1978, è ribattezzato “governo monocolore di solidarietà nazionale”, grazie alla formula della non opposizione da parte del PCI. Infatti il PCI assicura l’appoggio esterno al governo monocolore DC guidato da Giulio Andreotti.
Il rapimento di Aldo Moro
La presentazione delle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Andreotti alla Camera dei deputati è fissata per le 10:00 del 16 marzo. Fin dalle 8:45 gli uomini della scorta di Aldo Moro sono fuori dalla sua casa, in via del Forte Trionfale 79, in attesa che l’uomo politico esca dalla propria abitazione per accompagnarlo in Parlamento.
Aldo Moro scende qualche minuto prima delle 9:00 e viene accompagnato dal maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, suo fedele collaboratore da molti anni, all’auto di rappresentanza, una Fiat 130 berlina non blindata. Subito dopo il piccolo convoglio, l’auto del presidente e quella della scorta, si mette in movimento in direzione di via della Camilluccia. Prima di raggiungere la Camera dei deputati è prevista l’abituale sosta nella Chiesa di Santa Chiara.
Poco dopo le 9:00, come di consueto, la Fiat 130 attraversa via Mario Fani. A bordo di essa vi sono l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci al volante, il caposcorta maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi e Aldo Moro sul sedile posteriore. Li segue un’Alfetta, anch’essa in servizio di protezione dell’onorevole, condotta dall’agente di P.S. Giulio Rivera, accompagnato dal vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi e dall’agente di P.S. Raffaele Iozzino.
All’incrocio tra via Fani e via Stresa, una 128 targata Corpo Diplomatico sbarra la marcia della vettura con a bordo Moro, bloccandola. A quel punto, i brigatisti giunti con la 128, travestiti da personale dell’Alitalia, e i loro complici presenti sul posto aggrediscono il convoglio presidenziale.
I brigatisti colgono di sorpresa e uccidono a copi di arma da fuoco i cinque uomini della scorta di Aldo Moro, poi prelevano quest’ultimo. Lo fanno salire a bordo di una loro automobile e si allontanano con lui, prima che le forze dell’ordine abbiano il tempo di fare accorrere rinforzi. Lungo il percorso da via Fani a via Montalcini, dove è allestita la prigione nella quale l’ostaggio sarà rinchiuso per tutta la durata del sequestro, i terroristi trasbordano Moro all’interno di un furgone. Dopo questo primo trasbordo, effettuato in piazza della Madonna del Cenacolo, c’è un secondo in via dei Colli Portuensi.
Aldo Moro e le Brigate Rosse
Il commando brigatista è composto da almeno dieci elementi: Rita Algranati, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Alessio Casimirri, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Alvaro Lojacono, Mario Moretti, Valerio Morucci e Bruno Seghetti. L’agguato e il rapimento sono rivendicati alle ore 10:10 con una telefonata di Valerio Morucci all’agenzia ANSA, che detta il seguente messaggio: “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse“.
Nel comunicato emesso il 18 marzo, i brigatisti definiscono Moro “il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano“, “il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste” e di “ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese – dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del ‘centro-sinistra’ fino ai giorni nostri con ‘l’accordo a sei’“. Il comunicato ricorda che “da tempo” le Brigate rosse hanno individuato “nella DC il nemico più feroce del proletariato“, in quanto “forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato“. La cattura di Moro è il punto di partenza per “sviluppare una parola d’ordine” tra le masse, ossia “mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l’ulteriore crescita della guerra di classe per il comunismo” e attaccare lo “Stato imperialista delle multinazionali“.
La prigionia di Aldo Moro
La «prigione del popolo» in cui si trova Aldo Moro è situata in un appartamento di via Camillo Montalcini 8, sempre a Roma, acquistata nel 1977 con i soldi provenienti dal sequestro di Pietro Costa, dalla brigatista Anna Laura Braghetti. Durante il sequestro, nell’appartamento vivono con l’ostaggio la Braghetti, il suo apparente fidanzato, l’«ingegnere Luigi Altobelli» che era in realtà il brigatista Germano Maccari, e Prospero Gallinari, brigatista clandestino che, essendo già ricercato, rimane per tutti i giorni del rapimento chiuso dentro l’appartamento e funge da carceriere di Moro.
Mario Moretti, che vive in prevalenza in via Gradoli insieme a Barbara Balzerani, si reca quasi tutti i giorni in via Montalcini per interrogare l’ostaggio ed elaborare, in collegamento con gli altri membri del comitato esecutivo, la gestione politica del sequestro.
Lo stesso covo pochi mesi dopo viene scoperto e tenuto sotto controllo dalla polizia, cosa che costringe i brigatisti, che si rendono conto di essere pedinati, a vendere e smantellare l’appartamento entro i primi di ottobre.
Durante il periodo della sua detenzione, Moro scrive 86 lettere ai principali esponenti della Democrazia Cristiana, alla famiglia, ai principali quotidiani e all’allora Papa Paolo VI (che avrebbe poi presenziato alla solenne messa funebre di Stato nella basilica di San Giovanni in Laterano, peraltro celebrata senza il feretro del cadavere, negato dalla famiglia in polemica con la conduzione della vicenda).
Alcune arrivano a destinazione, altre non sono mai recapitate e vengono ritrovate in seguito nel covo di via Monte Nevoso, a Milano. Attraverso le lettere Moro cerca di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime cariche dello Stato.
Nella lettera recapitata l’8 aprile scaglia un vero e proprio anatema:
“Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro”.
Pochi mesi dopo l’uccisione dell’ostaggio copie di alcune lettere non ancora note sono trovate dagli uomini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa mentre altre sono trovate nello stesso appartamento nel 1990, durante i lavori di ristrutturazione dell’abitazione.
I comunicati e la trattativa
Durante i 55 giorni del sequestro Moro le Brigate Rosse recapitano nove comunicati con i quali spiegano i motivi del sequestro e danno notizie sul “processo” a Moro.
Le Brigate Rosse propongono, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi in quel momento in carcere, il cosiddetto “fronte delle carceri”, accettando persino di scambiare Moro con un solo brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari con lo Stato.
Un riconoscimento viene comunque ottenuto quando Papa Paolo VI, amico personale di Moro, in data 22 aprile rivolge un drammatico appello pubblico col quale supplica «in ginocchio» gli «uomini delle Brigate Rosse» di rendere Moro alla sua famiglia e ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò deve avvenire «senza condizioni».
La politica si divide in due fazioni: da una parte il fronte della fermezza, composto dalla DC, dal PSDI, dal PLI, e con particolare insistenza dal Partito Repubblicano (il cui leader Ugo La Malfa propone il ripristino della pena di morte per i terroristi), che rifiuta qualsiasi ipotesi di trattativa, e il fronte possibilista, nel quale spiccano Bettino Craxi, i radicali, la sinistra non comunista, i cattolici progressisti come Raniero La Valle, uomini di cultura come Leonardo Sciascia. PCI e MSI, anche se con atteggiamenti diversi, sono gli estremi del “no” alla trattativa.
Tuttavia all’interno dei due schieramenti vi sono delle posizioni in dissenso con la linea ufficiale: una parte della DC è per il dialogo, tra cui il Presidente della Repubblica Giovanni Leone (pronto a firmare richieste di grazia) e il Presidente del Senato Amintore Fanfani, nel PCI Umberto Terracini è per un atteggiamento «elastico», tra i socialdemocratici Giuseppe Saragat dissente dalla posizione ufficiale del segretario Pier Luigi Romita, mentre tra i socialisti Sandro Pertini dichiara di non voler assistere al funerale di Moro ma neppure a quello della Repubblica.
Secondo il fronte della fermezza, la scarcerazione di alcuni brigatisti costituirebbe una resa da parte dello Stato, non solo per l’acquiescenza a condizioni imposte dall’esterno, ma per la rinuncia all’applicazione delle sue leggi e alla certezza della pena; una trattativa coi rapitori inoltre potrebbe creare un precedente per nuovi sequestri, strumentali al rilascio di altri brigatisti, o all’ottenimento di concessioni politiche e, più in generale, una trattativa con i terroristi rappresenterebbe un riconoscimento politico delle Brigate Rosse.
Di contro la linea del dialogo aprirebbe alla possibilità di una rappresentanza partitica e parlamentare del loro braccio armato, e posto questioni di legittimità in merito alle loro richieste. I metodi intimidatori e violenti, e la non accettazione delle regole basilari della politica, pongono il terrorismo al di fuori del dibattito istituzionale, indipendentemente dal merito delle loro richieste.
La morte e il ritrovamento del corpo di Aldo Moro
Non tutto il vertice brigatista è concorde con il verdetto di condanna a morte. Lo stesso Moretti telefona direttamente alla moglie di Moro il 30 aprile 1978 per premere sui vertici della DC al fine di accettare la trattativa: la telefonata viene registrata dalle forze dell’ordine. La brigatista Adriana Faranda cita una riunione notturna tenuta a Milano e di poco precedente l’uccisione di Moro, ove ella e altri terroristi (Valerio Morucci, Franco Bonisoli e forse altri) dissentono, tanto che la decisione finale è messa ai voti. Il 3 maggio Morucci e Faranda incontrano Moretti in piazza Barberini e ribadiscono la loro contrarietà all’omicidio.
Il 9 maggio, dopo 55 giorni di detenzione, al termine di un “processo del popolo”, Moro è assassinato per mano di Mario Moretti, con la complicità di Germano Maccari. Il cadavere è ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in via Caetani, vicino alla sede della DC e del PCI in pieno centro di Roma.
Secondo quanto affermato dai brigatisti più di un decennio dopo l’omicidio, Moro fu fatto alzare alle 6:00 con la scusa di essere trasferito in un altro covo. Franco Bonisoli ha invece raccontato che a Moro venne riferito di esser stato graziato (e quindi liberato): venne infilato in una cesta di vimini e portato nel garage del covo di via Montalcini. Fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa targata Roma N57686 e venne coperto con un lenzuolo rosso.
La vettura era stata rubata alcuni mesi prima. Mario Moretti allora sparò alcuni colpi prima con una pistola Walther PPK e, dopo che la pistola si era inceppata, con una mitragliatrice Samopal Vzor.61 (nota come Skorpion), con cui sparò una raffica di 11 colpi che perforarono i polmoni dell’ostaggio, uccidendolo (per molti anni, fino alla confessione di Moretti, si pensò che a sparare fosse stato Prospero Gallinari).
Alcune incongruenze riguardano le modalità dell’esecuzione: seppur la pistola che inizialmente viene adoperata per sparare a Moro poteva esser silenziata, difficilmente lo poteva essere la mitraglietta, in quanto il silenziatore non permette la soppressione totale del rumore.
Poi, una volta eseguito il delitto, l’auto con il cadavere di Moro fu portata da Moretti e Maccari in via Caetani, senza effettuare soste intermedie, dove fu lasciata parcheggiata circa un’ora dopo. All’ultimo tratto del percorso parteciparono su una Simca anche Bruno Seghetti e Valerio Morucci in funzione di copertura.
Dopo aver perso tempo a ricercare un posto sicuro per telefonare e per contattare uno dei collaboratori di Moro, verso le 12:30 Valerio Morucci riuscì a effettuare la telefonata finale con il professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro, qualificandosi inizialmente come il “dottor Nicolai”. Con un tono freddo, ma corretto chiese a Tritto, «adempiendo alle ultime volontà del presidente», di comunicare subito alla famiglia che il corpo del presidente si trovava nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani.