CONTENUTO
Le origini della questione romana
Dopo la proclamazione del nuovo Stato italiano (17 marzo 1861) e l’ascesa al governo della Destra storica, bisogna risolvere un problema che è rimasto in sospeso: il completamento dell’unità. E’ necessario, infatti, riunire quelle popolazioni italiane che sono rimaste fuori dai confini politici del nuovo Regno, come il Veneto, il Trentino, ma soprattutto Roma e il Lazio.
L’idea di portare a compimento l’unificazione è un tratto comune sia per i moderati sia per i democratici; a differire però sono le modalità con le quali si tenta il raggiungimento di tale obiettivo. Secondo i principali esponenti della Destra, bisogna gradualmente inserire l’Italia tra altre potenze europee attraverso le vie diplomatiche, sebbene richiedano più tempo. Per i leader della Sinistra è necessaria l’azione armata, vedendo la lotta per la liberazione di Roma un’occasione utile per il rilancio dell’iniziativa democratica.
La rivendicazione di Roma capitale è stata proclamata da Cavour con un celebre discorso, tenuto in Parlamento nel marzo del 1861, in cui egli spiega le ragioni che obbligano l’Italia a vedere Roma come propria capitale. In essa sono presenti tutte “le circostanze storiche, intellettuali e morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande stato”. Propone inoltre che la soluzione della Questione romana deve trovarsi in accordo con la Francia di Napoleone III, dal momento che senza di esso l’unità d’Italia non sarà mai raggiunta.
Infine ritiene che l’unico modo per non irritare la Francia sia quello di garantire l’indipendenza spirituale del Pontefice. Cavour quindi intuisce che la Questione romana non si potrà risolvere senza il riconoscimento dell’indipendenza spirituale della Chiesa. Solo la Roma temporale diventerà capitale del Regno d’Italia, mentre la Roma spirituale rimarrà completamente sotto il controllo dell’autorità pontificia, la quale non dovrà temere la perdita del potere spirituale. Da ciò emerge la concezione laica di Cavour e dei rapporti tra Stato e Chiesa; il suo motto a riguardo è “libera Chiesa in libero Stato”, nel senso che lo Stato deve consentire a tutti la libertà di professare la propria fede, ma la Chiesa non ha diritto ad alcun privilegio temporale.
La presenza del papa a Roma è il principale ostacolo per raggiungere l’unità. Non solo per gli ottimi rapporti con la Francia, che mantiene costantemente un suo corpo di occupazione a Roma e rappresenta per l’Italia il più sicuro alleato nonché il principale partner economico. Ma anche perché in Italia i cattolici costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione (più del 90% secondo censimenti ufficiali). Il clero rappresenta in molte zone rurali l’unica presenza organizzata e l’unico punto di riferimento culturale. Nella stessa scuola pubblica sono gli ecclesiastici a costituire quasi la metà del corpo insegnante.
Inizialmente i primi governi dell’Italia unita cercano di percorrere la strada indicata da Cavour. Egli, nelle settimane successive alla proclamazione del nuovo Regno e in coerenza con la propria idea espressa nella celebre formula “libera Chiesa in libero Stato”, ha avviato delle trattative con la Santa Sede in vista di una soluzione che assicuri al papa e al clero piena libertà di esercitare il magistero spirituale. In cambio il papa deve rinunciare al potere temporale e riconoscere il nuovo stato. Le proposte di Cavour si scontrano con l’intransigente Pio IX in pieno conflitto con i valori della civiltà liberale.
I tentativi di conquista di Roma
Il fallimento di questi tentativi moderati e diplomatici porta all’affermazione dell’iniziativa democratica sempre fedele all’idea della guerra popolare. Così Garibaldi, nel giungo del 1862 torna in Sicilia e rilancia il progetto di una spedizione contro lo Stato della Chiesa appoggiato dall’allora Primo ministro Urbano Rattazzi, senza che le autorità facciano nulla per bloccarlo. Napoleone III fa capire in modo esplicito di voler impedire, anche con la forza, un attacco contro Roma, minacciando l’intervento dell’esercito francese se l’iniziativa prosegue.
A questo punto il re Vittorio Emanuele II è costretto ad inviare l’esercito italiano e fermare l’impresa garibaldina, decretando in questo modo lo stato d’assedio in Sicilia e nel Mezzogiorno. Nell’agosto del 1862 i garibaldini vengono intercettati in Calabria sull’Aspromonte e, dopo essersi scontrati con l’esercito regolare, muoiono circa una dozzina di persone. Durante tale scontro lo stesso Garibaldi viene ferito e arrestato.
Dopo questo episodio i governanti italiani, convinti che l’unica soluzione sia l’accordo con la Francia, decidono di avviare delle trattative con Napoleone III e concludono un accordo nel 1864, la Convenzione di Settembre, con cui l’Italia si impegna a difendere i confini dello Stato della Chiesa in cambio del graduale ritiro delle truppe francesi da Roma. Come garanzia di questo impegno l’Italia trasferisce la capitale da Torino a Firenze.
Pochi anni più tardi scoppia la Terza guerra di indipendenza che si conclude con un esito deludente, seppur l’Italia riesce ad ottenere il Veneto. Le aspettative di ottenere anche il Trentino e il Friuli Venezia Giulia, rimaste sotto il dominio austriaco, sono disattese.
Proprio in questo periodo riprende l’attività dei gruppi democratici di mazziniani e garibaldini, mossi sempre dalla costante idea di liberare Roma. L’azione dei volontari dovrà poggiare su un’insurrezione degli stessi patrioti romani, in modo da far apparire l’iniziativa agli occhi di Napoleone III come un atto di volontà popolare, evitando così l’intervento delle truppe francesi. Solo in un secondo momento interverranno i garibaldini.
L’insurrezione fallisce per la scarsa partecipazione popolare e per la regolare sorveglianza della polizia. Nonostante ciò, il 3 novembre del 1867 le forze garibaldine si scontrano a Mentana con le truppe francesi, sbarcate poco prima a Civitavecchia e molto ben equipaggiate. Per Garibaldi è una disfatta e, dopo una dura e sanguinosa battaglia, egli stesso viene arrestato e condotto presso l’isola di Caprera. Svanisce in questo modo ogni speranza di risolvere la Questione romana attraverso l’accordo con il papa e con la Francia di Napoleone III.
Da Roma capitale d’Italia al non expedit
L’opportunità di annettere Roma al Regno d’Italia si verifica pochi anni più tardi, in seguito alla guerra franco-prussiana, che porta al ritiro delle truppe francesi presenti nel Lazio. All’indomani della battaglia di Sedan, che vede la vittoria dell’esercito prussiano contro truppe francesi, il governo italiano decide di inviare un gruppo di milizie nel Lazio e contemporaneamente tenta di avviare un negoziato con il Papa, cercando di giungere ad una soluzione concordata.
Nonostante l’isolamento europeo a cui è giunto, Pio IX rifiuta ogni accordo, deciso a mostrare al mondo di essere stato costretto a ricorrere alla violenza. Il 20 settembre del 1870 un gruppo di bersaglieri e altri reparti di fanteria, comandati dal generale Raffaele Cadorna, dopo aver aperto una breccia con l’artiglieria nella cinta muraria che circonda Roma e dopo un breve scontro con le truppe pontificie, entra in città attraverso la cosiddetta breccia di Porta Pia. Le truppe vengono accolte festosamente dalla popolazione e pochi giorni dopo, attraverso un plebiscito, viene approvata l’annessione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia.
Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma sarà effettuato circa un anno dopo nel luglio 1871. Pio IX all’indomani della breccia di Porta Pia promulga l’enciclica Respicientes ea, in cui delinea chiaramente la visione che degli eventi ha la Santa Sede: l’Italia è un invasore e occupante illegittimo; la presa di Roma da parte delle truppe italiane è ritenuta “ingiusta, violenta, nulla e invalida”; gli Stati Pontifici vanno restituiti, sia perché presi contra legem, sia perché il Pontefice non può esercitare con sicurezza e libertà la propria autorità religiosa senza la sovranità su un territorio indipendente.
Inoltre il Papa si proclama “prigioniero dello Stato Italiano”, si dimostra indisponibile ad ogni trattativa e, lanciando violenti attacchi allo Stato, provoca in risposta un’aggressiva campagna laicista e anticlericale da parte della Sinistra. Lo Stato italiano vuole regolare i rapporti con la Santa Sede e risolvere quell’insieme di problemi conseguenti a questi episodi. Il 13 maggio del 1871 viene approvata unilateralmente dallo Stato una legge, detta delle “guarentigie”, cioè delle garanzie, in quanto con essa il Regno d’Italia si impegnerà a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale, secondo quanto era stato proposto da Cavour.
La legge considera il papa “persona sacra e inviolabile” e, di conseguenza, non soggetta alle leggi dello Stato italiano; inoltre vengono riconosciute delle prerogative simili a quelle di un capo di Stato, come: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica. Viene riconosciuta la sovranità sulla città del Vaticano insieme ai palazzi del Laterano e della villa di Castelgandolfo; inoltre lo Stato italiano offre alla Santa Sede una dotazione annua di 3 milioni di lire.
La legge delle guarentigie ridurrà enormemente il peso temporale della Chiesa, la quale finirà con il guadagnare dinamismo e capacità di influenza. Allo stesso tempo, come afferma lo storico gramsciano Giorgio Candeloro, la legge delle guarentigie ha anche il merito di evitare che il contrasto con la Santa Sede si trasformi in una lotta religiosa, pericolosa per l’unità del Paese appena raggiunta e contribuisce a stemperare il clima politico internazionale.
L’intransigenza di Pio IX nei confronti del Regno d’Italia non si attenua minimamente, infatti il Papa respinge prontamente queste norme. Per di più l’invito, rivolto dal clero ai cittadini, ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato all’indomani dell’unità, si trasforma nel 1874 in un divieto esplicito ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana. Il divieto pronunciato dalla Curia romana è riassunto nella formula non expedit (“non conviene”, “non è opportuno” che i cattolici partecipino alle elezioni politiche). La conquista di Roma aumenta le fratture all’interno della società italiana tra il mondo cattolico e il mondo laico. Dopo l’emanazione del non expedit, infatti, Vaticano e Stato italiano non si riconoscono più.
La Rerum Novarum
Negli ultimi anni dell’Ottocento, di fronte all’avanzare della società industriale, alla crescita del movimento operaio e alle prime manifestazioni della società di massa, la Chiesa reagisce prendendo posizioni differenti: se da un lato rifiuta la società industriale, condanna energicamente l’individualismo borghese e le ideologie socialiste, quindi sia il socialismo sia il libero mercato, invitando imprenditori e lavoratori ad abbandonare lo scontro e realizzare una collaborazione pacifica, dall’altro lato si assiste ad un chiaro tentativo di rilanciare la Chiesa stessa adeguandone le forme alle mutate condizioni storiche. Sul piano della presenza nella società, la Chiesa risponde con una articolata struttura organizzativa ad esempio parrocchie e associazioni cattoliche.
Se il pontificato di Pio IX si contraddistingue per lo sforzo di cogliere errori che si diffondono nella società industriale, quello di Leone XIII, successore di Pio IX al Soglio di Pietro, è caratterizzato dalla costante ricerca di proposte sociali coerenti con il messaggio evangelico. Il documento più significativo di questo sforzo è l’enciclica Rerum Novarum (“Delle cose nuove”) che viene promulgata da Leone XIII il 15 maggio 1891 ed è espressamente dedicata ai problemi della condizione operaia.
In questo senso correttamente gli viene attribuito il nome di “Papa dei lavoratori” e di “Papa sociale”. Attraverso l’enciclica, per la prima volta, la Chiesa cattolica prende posizione in ordine alle questioni sociali e fonda la moderna dottrina sociale della Chiesa. La Rerum Novarum insiste su alcune precise indicazioni come la condanna diretta del liberismo e al tempo stesso la condanna delle teorie socialiste e collettivistiche.
Inoltre riafferma l’idea della concordia fra le classi sociali, condannando fortemente la lotta di classe ed esortando la collaborazione tra capitalisti e operai. Indica anche il rispetto dei doveri spettanti alle parti e, se il dovere degli operai è il rispetto delle gerarchie sociali, il dovere degli imprenditori consiste nel retribuire i lavoratori con il giusto salario e nel rispetto della dignità umana. In essa, a tal riguardo, viene affermato:
Principalissimo poi tra questi doveri è dare a ciascuno il giusto salario. Il
determinarlo secondo giustizia dipende da molte considerazioni, ma in generale si ricordino i datori
di lavoro che le leggi umane non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici,
e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi il dovuto salario è colpa così enorme che
grida vendetta al cospetto di Dio.
Infine la parte più interessante e originale dell’enciclica è quella riguardante il riconoscimento dei movimenti associativi fra i lavoratori, cioè si concede la possibilità di creare società operaie e artigiane ispirate ai principi cristiani.
Organizzazioni e movimenti cattolici
Agli inizi del Novecento emerge nel mondo cattolico una nuova tendenza politica che viene definita “democrazia cristiana”. Leader di questo nuovo movimento è un giovane sacerdote marchigiano Romolo Murri che, dopo aver militato fra gli intransigenti, passa a posizioni audacemente riformatrici. Secondo i democratici cristiani bisogna superare il non expedit e favorire la partecipazione alla vita politica italiana. Infatti svolgono un’intensa attività organizzativa, fondano riviste e circoli politici, danno vita alle prime unioni sindacali cattoliche.
L’idea di un partito cattolico però non trova l’adesione né di papa Leone XIII né di Pio X, poiché entrambi pensano che “la politica divide mentre la religione riunisce”. Tollerata e incoraggiata da Leone XIII l’azione dei democratici cristiani sarà invece duramente osteggiata dal suo successore, Papa Pio X. Va ricordato però che mentre Leone XIII, pur approvando l’espressione “democrazia cristiana”, mantiene il non expedit, Pio X lo attenua, seppur non eliminandolo del tutto. Con la formula pronunciata nel 1909 “cattolici deputati sì, deputati cattolici no” viene consentito ai cattolici di essere eletti, ma non di costituire un partito, perciò i cattolici possono presentare la propria candidatura solamente a titolo personale.
Ma di fronte all’avanzata delle forze laiche e socialiste Pio X, con l’enciclica Il fermo proposito del 1905, consente ai cattolici di partecipare alla vita politica, anche se in particolari circostanze riconosciute dai vescovi. L’evento più clamoroso del pontificato di Pio X è la condanna di una corrente di riforma religiosa che prende il nome di “modernismo”, in quanto si propone di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave moderna.
Nel corso dell’età giolittiana dunque i cattolici si recano alle urne, per la prima volta nel 1904, e votano i candidati liberali con l’intento di sconfiggere i socialisti che sono considerati il nemico più pericoloso. Dal momento che non è ancora permesso fondare un partito, i cattolici si impegnano nella società attraverso l’Opera dei Congressi, una federazione di circoli che si occupa dell’assistenza caritativa e dell’animazione culturale.
Nello stesso periodo sorgono i sindacati cattolici e le cosiddette cooperative bianche (il bianco era il colore dei cattolici come il rosso quello dei socialisti), ma soprattutto viene fondata l’Azione Cattolica, un’organizzazione che inquadra tutto il laicato cattolico, dai bambini fino agli adulti, sotto la guida del papa e dei vescovi. Essa è finalizzata alla stretta collaborazione con le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa cattolica.
Pio X, sempre nel 1904, temendo che l’Opera dei congressi possa finire sotto il controllo dei democratici cristiani, non esita a scioglierla, creando al suo posto tre organizzazioni distinte: Unione popolare, Unione economico-sociale, e Unione elettorale, che più tardi saranno riunite da un organo di coordinamento che verrà chiamato Direzione generale dell’Azione Cattolica. Romolo Murri rifiuta di sottostare alle direttrici pontificie, viene sconfessato e infine sospeso dal sacerdozio. Tuttavia la condanna di Murri e della “democrazia cristiana” non impedisce al movimento cattolico sindacale di svilupparsi; in Sicilia la guida viene assunta dal siciliano don Luigi Sturzo.
Nel 1913 Giovanni Giolitti, per ottenere nuovamente la maggioranza, stipula un accordo con l’Unione elettorale cattolica, presieduta da Filippo Gentiloni: il Patto Gentiloni. I cattolici promettono di votare i candidati liberali che si impegnino a difendere le esigenze, le richieste e i diritti della Chiesa, opponendosi a norme anticlericali in materia di insegnamento morale. Grazie al patto, i liberali vincono le elezioni e riescono ad eleggere in parlamento 304 deputati.
Il Partito popolare italiano
Il non expedit era stato sospeso in alcuni collegi del Nord già nelle elezioni del 1904, ed è completamente abrogato nel 1919, anno in cui i cattolici danno vita ad un vero e proprio partito: il Partito Popolare Italiano fondato don Luigi Sturzo, nonostante la diffidenza della Santa Sede. Va precisato che, fin dai primi anni del ‘900 Sturzo comincia l’elaborazione di un’idea politica nuova che denomina “popolarismo”, chiarendo che cosa si deve intendere con questa definizione: un orientamento sociale in cui il popolo sia il protagonista; un rifiuto del centralismo statale a favore di autonomie locali forti; una limpida ispirazione evangelica.
La sua stessa nascita era stata possibile grazie al nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal Papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di arginare la minaccia socialista. Come il movimento cattolico può essere considerato la proiezione del popolo di Dio nella sfera sociale, allo stesso modo il partito è la proiezione del popolo nella sfera politica.
Il PPI si presenta per la prima volta alle elezioni politiche del 1919 raccogliendo il 20,5% dei voti, confermati alle elezioni del 1921. Dopo la salita al potere del fascismo, contro il parere di Sturzo, alcuni suoi rappresentanti accettano di sostenere il primo governo Mussolini. Nel partito si assiste – con espulsioni e migrazioni verso il Partito nazionale fascista – il contrasto tra due anime: quella sinistra, contraria ad accordarsi con il governo, e quella destra, favorevole alla collaborazione.
Il capo del fascismo coglie l’occasione anche per dare inizio a una dura campagna contro Sturzo, che lo porta, il 10 luglio del 1923, alle dimissioni da segretario del Partito popolare. Dunque prende rapidamente la decisione di lasciare l’Italia e recarsi a Londra. Da lì a poco le gerarchie ecclesiastiche si avvicineranno sempre più al fascismo, emarginando costantemente il Partito popolare, fino a quando nel 1926 il partito verrà soppresso da Mussolini.
I Patti Lateranensi
Le gerarchie ecclesiastiche pensano sia giunto il momento di chiudere lo storico contrasto che aveva segnato i rapporti. Mussolini, nonostante i suoi trascorsi anticlericali, capisce che per allargare il suo consenso deve trovare un accordo con la Santa Sede. Già nella sua scalata al potere aveva riconosciuto la “scalata universale della Chiesa”. Ora, nel 1926 riprendendo le trattative avviate negli ultimi governi liberali, il duce addirittura mira a risolvere lo storico contrasto tra Stato e Santa Sede.
Dopo un periodo di trattative segrete, l’11 febbraio del 1929 vengono stipulati i Patti lateranensi firmati da Mussolini, capo del governo in qualità di plenipotenziario del re d’Italia Vittorio Emanuele III, e dal segretario di Stato il cardinale Pietro Gasparri, nelle vesti di plenipotenziario del Sommo Pontefice Pio XI. I Patti comprendono tre documenti: un trattato internazionale, con il quale la Chiesa riconosce ufficialmente lo Stato Italiano e la sua capitale, ottenendo la sovranità sullo Stato della Città del vaticano; una convenzione finanziaria, con la quale l’Italia si impegna a pagare alla Santa Sede un’indennità per la perdita dello Stato pontificio; infine il concordato, che regola le condizioni della religione in Italia, garantendo alla Chiesa un ruolo di particolare importanza e di rilievo.
Si riconosce la religione cattolica come religione di Stato; inoltre si rende obbligatoria l’ora di religione nelle scuole quale “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”. Infine viene riconosciuta l’Azione Cattolica, a patto che agisca al di fuori di ogni partito politico. La sistemazione giuridica dei rapporti tra Italia e Santa Sede, che si realizza con la firma dei Patti lateranensi, conclude definitivamente la Questione romana.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- R. Cirelli, La questione romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, 1997.
- G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, 1982.
- S. Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l’Italia da Pio IX a Benedetto XVI, Longanesi, 2005.
- D. I. Kertzer, Il papa che voleva essere re. 1849: Pio IX e il sogno rivoluzionario della Repubblica romana, Garzanti, 2019.
- P.G. Camaiani, Il diavolo e la questione romana. Saggi sulle mentalità dell’Ottocento, Il Mulino, 2018.