CONTENUTO
Publio Cornelio Scipione nasce a Roma tra la fine del 236 e i primi mesi del 235 a.C. dalla gens Cornelia, una delle più antiche e prestigiose famiglie dell’aristocrazia romana.
Giovane dalle straordinarie doti militari, a lui si deve la vittoria sul cartaginese Annibale a Zama e il trionfo di Roma nella seconda guerra punica: da quel momento è da tutti conosciuto come Scipione Africano.
Le fonti storiche su Publio Cornelio Scipione l’Africano
Per conoscere la vita di Scipione Africano abbiamo la fortuna di possedere un’opera storica di valore inestimabile: le Storie del greco Polibio.
Polibio, giunto a Roma come ostaggio dopo la sconfitta del re macedone Perseo nel 168 a.C., entra in contatto con la famiglia degli Scipioni e diventa precettore di Scipione Emiliano, nipote adottivo di Scipione Africano. Quando Polibio si dedica alla stesura della propria opera storica, che aveva come obiettivo quello di narrare gli anni dell’espansione di Roma nel Mediterraneo, si trova ad avere accesso ai racconti di alcuni testimoni diretti degli avvenimenti, primo fra tutti Gaio Lelio, intimo amico e collaboratore di Scipione Africano.
Oltre a questo, Polibio può attingere alla memoria familiare della gens Cornelia: da Cicerone sappiamo anche che uno dei figli di Scipione Africano aveva scritto un’opera storica in greco sulle imprese del padre; benché per noi non sia rimasta traccia di questo resoconto, è molto probabile che Polibio invece abbia potuto leggerlo.
Occorre però sottolineare e ricordare che le informazioni cui Polibio ha avuto accesso, per quanto di prima mano, provenivano da voci vicine a Scipione Africano e dunque, senza dubbio, inclini a delinearne un ritratto il più possibile favorevole.
Dal resoconto di Polibio discende in larga parte quello dello storico romano Tito Livio, altra fonte di grande importanza per la conoscenza di Scipione Africano. Ad essi vanno aggiunti Appiano di Alessandria e Cassio Dione, storici di II e III secolo d.C.
Publio Cornelio Scipione: un inizio in medias res
Della vita di Scipione prima del 210 a.C., quando gli fu affidato il comando delle operazioni in Spagna nell’ambito della seconda guerra punica, sappiamo molto poco.
Oltre alla leggenda che attribuiva a Scipione (sul modello di Alessandro Magno) un’origine divina mediante l’unione di sua madre Pomponia con uno smisurato serpente, tre sono gli avvenimenti in cui, secondo le fonti antiche, l’Africano svolge un ruolo da protagonista:
- il primo è da collocarsi durante la battaglia del Ticino (218 a.C.), quando, secondo Polibio e Livio, il diciassettenne Scipione, alle dipendenze del padre Publio allora console, si distingue per un’azione eroica, riuscendo da solo a portare in salvo il padre rimasto ferito.
- Il secondo ha luogo, invece, all’indomani della disfatta di Canne (216 a.C.). Publio, all’epoca ventenne, ha il compito, come tribuno militare, di radunare i superstiti della battaglia per portarli in salvo; egli si accorge, però, che un gruppo di giovani nobili, scoraggiati dalla sconfitta subita, sta pensando di abbandonare l’Italia. Scipione, allora, rivolgendo loro parole molto dure, riesce a dissuaderli dalla fuga.
- Il terzo ha a che fare con un sogno che, secondo Polibio, Scipione fa per due volte nell’imminenza delle elezioni del 217: egli vede sé stesso eletto edile curule insieme al fratello Lucio. In effetti, Lucio vuole presentare la sua candidatura all’edilità curule, ma ha poche probabilità di successo; Publio, consapevole al contrario della grande benevolenza di cui egli stesso gode presso il popolo, decide di candidarsi al fianco del fratello, riportando così una vittoria per entrambi.
La veridicità di questi tre episodi (in particolare dell’ultimo – Scipione fu in realtà edile curule nel 213 con un collega diverso dal fratello) è stata più volte messa in dubbio dagli studiosi moderni, che li considerano aneddoti costruiti a tavolino per delineare l’immagine di Scipione come quella di un uomo dotato, sin dall’adolescenza, delle virtù imprescindibili per un cittadino romano: la pietas – la devozione nei confronti della propria famiglia e della propria patria – e la virtus vera e propria – il valore e il coraggio di soldato; a queste qualità se ne aggiunge una straordinaria, un contatto privilegiato con gli dei.
La gloria in Spagna: il proconsolato in Spagna: un conferimento eccezionale
A mettere in pratica i propri doveri di figlio Scipione è chiamato nel 211, quando sia il padre Publio che lo zio Gneo cadono vittime dei Cartaginesi in Spagna.
Il fronte spagnolo è scoperto e serve al più presto un nuovo comandante. Dall’andamento delle operazioni nella Penisola Iberica dipendono, infatti, le sorti dell’intero conflitto romano-punico: i due Scipioni erano riusciti, fino a quel momento, ad impedire ad Asdrubale e a Magone Barca, che occupavano gran parte della Spagna, di inviare aiuti e rifornimenti al fratello Annibale in Italia.
I comizi si radunano per eleggere il nuovo proconsole a cui affidare il comando delle operazioni iberiche: Scipione, nonostante non avesse né l’età sufficiente né l’esperienza politica necessaria, decide di presentare la propria candidatura. Il valore della pietas gli impone un ineluttabile dovere: vendicare il padre e lo zio morti sul campo di battaglia.
Contro le norme che regolavano il cursus honorum, secondo le quali prima di ottenere l’incarico di proconsole era necessario aver ricoperto quello di console, il popolo romano affida all’unanimità il proconsolato della Spagna all’appena ventiquattrenne Publio Cornelio Scipione.
Senza dubbio il suo carisma doveva avergli già guadagnato consensi, ma bisogna ammettere che, a quanto traspare dalle fonti, nessun altro dei comandanti più esperti si era presentato alle elezioni: la Spagna era un territorio infido ed evidentemente nessuno voleva assumere un incarico tanto arduo quanto rischioso.
A Scipione il Senato affianca il propretore Marco Giunio Silano. I due comandanti partono nella primavera del 210 con 10.000 fanti e un migliaio di cavalieri e una flotta di trenta navi.
Il primo banco di prova: la vittoria di Carthago Nova
Nell’estate del 210 l’esercito romano raggiunge la Penisola Iberica. Nei primi mesi, Scipione si dedica a rafforzare le alleanze con i capi iberici e a studiare il territorio nemico per capire l’effettiva dislocazione delle forze cartaginesi.
Il primo obiettivo di Scipione è Carthago Nova, il centro della potenza punica in Spagna: lì si trovano gli ostaggi e le risorse dei Cartaginesi, armi, macchine da guerra e denaro. Eppure, la città è difesa da un contingente di soli mille uomini: per Scipione è l’occasione perfetta.
In un solo giorno, con un’abile manovra di accerchiamento, i Romani hanno la meglio sui Cartaginesi e si impossessano di Carthago Nova: Scipione ha dato prova del suo genio strategico. Egli, infatti, ha sfruttato la natura dei luoghi, su cui si era accuratamente informato: la città era circondata da una palude, le cui acque alla sera si ritiravano, permettendo l’accesso alle mura in punti altrimenti inattaccabili.
Per i suoi soldati, questa vittoria è anche il segno del favore di cui Scipione gode presso gli dei: nell’imminenza della battaglia, infatti, Publio aveva raccontato ai suoi uomini che era stato Nettuno, in sogno, a suggerirgli la strategia d’attacco; quando le acque della palude si ritirano, ecco la prova dell’intervento del dio.
Una volta entrato a Carthago Nova, Scipione si dimostra clemente con gli ostaggi iberici lì imprigionati: in particolare, restituisce ad alcuni capi iberici i propri figli, ottenendo così in cambio la loro alleanza alla causa romana.
La riforma dell’esercito di Publio Cornelio Scipione: la legione coortale sul campo di Baecula
All’indomani della presa di Carthago Nova Scipione si dedica ad un lungo e costante addestramento dei propri soldati, dimostrando, ancora una volta, il proprio genio militare. Publio, che aveva visto in prima persona l’esercito romano devastato a Canne, ha compreso la necessità di una riforma militare.
Dall’epoca della seconda guerra sannitica e fino a quel momento, ogni legione romana era costituita di trenta manipoli che, suddivisi su tre file (triplex acies) di dieci manipoli ciascuna, si schieravano a scacchiera: la prima fila era quella degli hastati (120 uomini per manipolo), i soldati più giovani armati di lancia, scudo e spada, i quali avevano il compito di sfondare il fronte avversario; dietro di loro c’erano i principes (anch’essi 120 per manipolo), uomini più esperti ugualmente armati, i quali dovevano subentrare agli hastati per rinnovare l’attacco; in fondo c’era la linea dei triarii (60 per manipolo), i veterani che costituivano l’ultimo baluardo di difesa ed entravano in gioco solo se la situazione si metteva male per Roma.
A questi tre gruppi si affiancavano i velites, i fanti armati alla leggera (generalmente coloro che non avevano il censo necessario per procurarsi l’armamento completo), che dovevano ingaggiare il combattimento con delle schermaglie iniziali. Questo particolare schieramento, che prendeva il nome di quincunx (“il numero cinque sulla faccia del dado”), aveva quasi sempre dato prova della propria efficacia, eppure Annibale era riuscito a sconfiggere a più riprese le legioni inviate contro di lui.
Ecco allora che Scipione mette a punto una tattica diversa: il campo di prova è quello di Baecula, nella valle del fiume Baetis, dove è accampato l’esercito di Asdrubale. Nella primavera del 208 a.C. il proconsole romano è pronto ad attaccare il nemico: invece di optare per il classico assalto frontale caratteristico dello schieramento manipolare, egli si serve di una manovra a tenaglia. I velites prendono il posto degli hastati con il compito di sfondare la linea avversaria e di tenere occupati i nemici, mentre i manipoli, suddivisi in due gruppi, sfilano verso le ali andando ad accerchiare lo schieramento nemico sui lati: Asdrubale, colto alla sprovvista, ordina la ritirata.
Per mettere in atto questo tipo di manovra, l’ordinamento manipolare salta: si viene a formare un’unità più compatta e numerosa, in cui non è più possibile mantenere la rigida suddivisione tra hastati, principes e triarii. Nasce così la coorte e, di conseguenza, la legione coortale.
Scipione ha riportato un’altra rapida vittoria; tuttavia, Asdrubale riesce a fuggire e a passare i Pirenei per portare aiuto ad Annibale in Italia, senza che i Romani cerchino di fermarlo. La battaglia di Baecula, dunque, è una vittoria tattica sul campo, ma una sconfitta strategica, perché Scipione fallisce proprio in quello che doveva essere il suo principale obiettivo. Questa défaillance costerà a Scipione un’onta che continuerà a gravare sul suo onore, anche a distanza di qualche anno.
L’acclamazione a re
Ciò nonostante, la vittoria di Baecula si risolve nell’immediato con un avvenimento di incredibile risonanza: gli alleati iberici si fanno intorno a Scipione e lo acclamano re, senza però sapere che per un romano un titolo del genere non può far altro che generare imbarazzo.
Secondo Polibio, infatti, Publio
disse che voleva essere chiamato da tutti – ed essere nella realtà – «regale», mentre non desiderava essere né esser chiamato re da nessuno. Dopo aver detto queste parole, invitò a salutarlo come «generale».(Polibio, Storie, X 40, 5)
Livio, riprendendo quasi alla lettera il testo polibiano, aggiunge una considerazione tipicamente romana:
Allora Scipione dopo aver intimato il silenzio a mezzo di un araldo disse che lui ambiva moltissimo al titolo di comandante in capo, con cui i suoi soldati lo avevano salutato; l’appellativo di re, altrove illustre, a Roma era intollerabile. (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXVII 19, 4)
Polibio crea un gioco di parole tra il termine “re” (basileus) e quello di “regale” (basilikós): Publio, per quanto senza dubbio lusingato dall’acclamazione degli Iberi, è pur sempre un generale romano e non può cedere a tale deriva monarchica che, come ricorda proprio Livio, sarebbe intollerabile tra i suoi concittadini e, soprattutto, per il Senato.
Egli si tutela da eventuali accuse di aspirazione alla monarchia (adfectatio regni) spostando l’attenzione sul piano morale: ciò cui ambisce è la “regalità”, una superiorità determinata non tanto da un potere più forte, quanto più da una nobiltà d’animo, un’abilità militare e un’acutezza d’ingegno fuori dal comune, tutte caratteristiche di cui Scipione sta dando prova sul territorio iberico.
La conclusione della campagna in Spagna e l’urto con il Senato
Nel 206 a.C., con la vittoria di Ilipa, i Romani sanciscono la chiusura delle operazioni in Spagna: i Cartaginesi vengono definitivamente cacciati dalla Penisola Iberica, eccezion fatta per Gades, ultima roccaforte punica.
Scipione ha, in realtà, un progetto più ampio: nella speranza di vedersi rinnovato il comando dell’esercito, vorrebbe passare direttamente in Africa. Anche se Annibale è ancora in Italia, il proconsole romano ha compreso che l’unico modo per porre fine al conflitto è quello di portare la guerra sul territorio dei Cartaginesi. Proprio in quest’ottica, si adopera per ottenere alleanze in Africa: già all’indomani della vittoria di Baecula Scipione aveva preso contatti con Massinissa, re dei Numidi Massili, il cui sostegno in Africa si rivelerà poi fondamentale per il favorevole esito della guerra; adesso, dopo Ilipa, manda Gaio Lelio da Siface, re dei Numidi Massesili.
Siface, però, non si accontenta di un legato: vuole incontrare Scipione in persona. Così, pur con tutti i rischi del caso, il proconsole romano parte alla volta del suolo africano. Raggiunto Siface, Scipione incontra Asdrubale, anch’egli intenzionato a chiedere il sostegno del sovrano numida: le fonti antiche ci informano del fatto che Siface ricevette entrambi i condottieri nella speranza che trovassero un punto di incontro. I tre prendono parte a un banchetto, in cui Scipione dà prova della propria comitas, “affabilità”, tale da accattivarsi non soltanto Siface, ma lo stesso Asdrubale, il quale
mostrava apertamente che quell’uomo (scil. Scipione) appariva più straordinario a lui dopo averlo conosciuto di persona che per le imprese compiute in guerra. (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXVIII 18, 7)
Da quest’incontro Scipione riporta probabilmente un vantaggio, perché Livio parla di un patto stretto con Siface.
Il progetto scipionico, tuttavia, trova nel Senato un grande ostacolo alla sua realizzazione: sul finire del 206, infatti, il proconsole viene destituito dell’incarico e richiamato a Roma. Da Cassio Dione sappiamo che:
Scipione, dopo aver conquistato tutto il territorio a sud dei Pirenei, si preparava alla spedizione in Africa, che era sempre stato il suo obiettivo. […] Ed egli avrebbe certamente ottenuto qualcosa di degno delle sue aspirazioni – o portando la guerra alle porte di Cartagine e catturando il luogo o allontanando Annibale dall’Italia, come fece più tardi – se i Romani in patria, per gelosia e per paura di lui, non lo avessero ostacolato. […] Così mandarono due dei pretori a dargli il cambio e lo richiamarono a casa. Inoltre non gli votarono un trionfo, perché aveva condotto la campagna come un privato, non essendo stato nominato ad alcun comando legale. (Cassio Dione, Storia romana, XVII 57, 53-56)
La resa dei conti: il consolato in Africa
Nonostante l’ostilità del Senato, alle elezioni consolari del 205 a.C. Scipione presenta la candidatura e viene eletto all’unanimità dai comizi:
Si tramanda che i comizi furono animati con un affollamento maggiore di qualsiasi altro durante quella guerra: erano convenuti da ogni parte non solo per dare il voto ma anche per vedere P. Scipione […] e nell’animo loro nutrivano la convinzione che come G. Lutazio aveva posto fine alla precedente guerra punica, così P. Cornelio avrebbe concluso quella che incalzava, e come aveva scacciato i Punici da tutta l’Ispania, allo stesso modo li avrebbe banditi dall’Italia. (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXVIII 39, 7-10)
Scipione nutre la speranza che gli venga affidata la provincia d’Africa così da poter portare la guerra direttamente sul territorio cartaginese. Le reticenze della classe dirigente si manifestano, in quest’occasione, nella persona di Quinto Fabio Massimo, il cosiddetto Cunctator (“Temporeggiatore”), così chiamato per la strategia da lui adottata volta a sconfiggere Annibale non con uno scontro in campo aperto, ma con l’attesa e il logoramento.
Massimo è fortemente contrario al progetto scipionico di portare la guerra in Africa: Annibale è ancora in Italia e il primario obiettivo dei nuovi consoli deve essere quello di cacciarlo dalla penisola. Egli, dunque, tiene un lungo discorso in Senato con il chiaro intento di screditare Scipione e, soprattutto, il suo operato in Spagna: per fare questo, si richiama all’unica colpa di cui il giovane proconsole si era reso responsabile, la fuga di Asdrubale dalla Spagna all’Italia.
Sulla scia delle parole di Quinto Fabio Massimo, il Senato opta per un compromesso: a Scipione viene assegnata la provincia di Sicilia con il permesso di passare in Africa se l’evoluzione del conflitto lo avesse richiesto, senza però che questo comportasse oneri per le casse dello Stato. In pratica, se Scipione avesse voluto portare la guerra in Africa il Senato non si sarebbe opposto, ma egli avrebbe dovuto provvedere alle risorse necessarie a proprie spese. E così accade: arruola un esercito di volontari, tra i quali i superstiti della battaglia di Canne, e accetta gli aiuti degli alleati per la costruzione della flotta e l’allestimento delle vettovaglie.
La battaglia di Zama
Terminato l’anno di consolato, Scipione raggiunge la Sicilia da dove, nella primavera del 204 a.C., passa in Africa. Appena sbarcato, egli pone il proprio accampamento in una località a circa 3 km a est di Utica, da quel momento chiamata Castra Cornelia: qui, nella primavera del 203, Scipione ottiene il primo successo militare sull’alleanza numido-cartaginese; nel frattempo, infatti, Siface, contravvenendo agli accordi stretti con Scipione, aveva deciso di passare dalla parte avversaria, sposando la figlia di Asdrubale, Sofonisba.
Forte di questa vittoria, il proconsole romano procede con l’avanzata sul territorio africano e, di lì a poco, affronta e sconfigge nuovamente Asdrubale e Siface nella battaglia dei Campi Magni, dove mette in atto l’ormai consolidata manovra a tenaglia. Siface, caduto prigioniero, verrà poi portato a Roma e, secondo Polibio, fatto sfilare nella processione trionfale: la Numidia passa definitivamente nelle mani di Massinissa, rimasto saldamente a fianco dei Romani.
L’evoluzione degli avvenimenti induce il Senato cartaginese a richiamare Annibale in Africa: siamo ormai alla resa dei conti.
Lo scontro finale ha luogo nei pressi di Zama il 19 ottobre del 202 a.C., dove l’esercito romano ha definitivamente la meglio su quello cartaginese.
Le fonti antiche raccontano di un incontro avvenuto nell’imminenza della battaglia tra i due generali, Scipione e Annibale: il comandante cartaginese cerca di venire a patti con Scipione, intimandogli di non sfidare troppo la sorte che, fino a quel momento, si era dimostrata a lui favorevole; i Cartaginesi, dunque, rinunceranno al controllo della Sicilia, della Sardegna e delle isole tra l’Africa e l’Italia, a patto di evitare lo scontro in campo aperto. La risposta di Scipione non si fa attendere: egli è consapevole che la sua fortuna dipende esclusivamente dal favore degli dei e dal valore dei suoi soldati. Così si rivolge ad Annibale:
“Se tu avessi abbandonato l’Italia spontaneamente, prima che i Romani fossero sbarcati in Africa, e avessi avanzato allora queste proposte di pace, le tue speranze, credo, non sarebbero state deluse. Ma tu sei andato via dall’Italia perché costretto, dal momento che noi, invasa l’Africa, eravamo rimasti padroni del campo: è chiaro quindi che la situazione è radicalmente mutata”. (Polibio, Storie, XV 8, 4-5)
E continua:
“Vuoi sapere qual è la conclusione del mio discorso? Non vi resta che consegnarci le vostre persone e la vostra patria, oppure vincerci in battaglia”. (Polibio, Storie, XV 8, 14)
Non c’è possibilità di un accordo: i due generali rientrano nei propri accampamenti, pronti allo scontro. Anche questa volta Scipione dà prova del proprio genio militare: Annibale, infatti, aveva studiato una strategia per reagire alla manovra a tenaglia su cui ormai le legioni scipioniche erano perfettamente addestrate; Scipione, nonostante la sorpresa, ha la straordinaria prontezza di ordinare una contromossa e ribaltare a proprio vantaggio l’effetto sorpresa.
Contravvenendo alla prassi romana, per cui un generale doveva essere esposto in prima linea a capo del suo esercito, e seguendo al contrario l’ideale del comandante ellenistico, Scipione assiste alle operazioni da un luogo sopraelevato: questo gli permette di avere uno sguardo a 360° sul campo di battaglia e di poter prendere, in breve tempo, decisioni cruciali per l’andamento dello scontro. Non è dunque una questione di fortuna, ma di intelligenza tattico-militare a decidere la superiorità di Scipione su Annibale.
Il trionfo senza precedenti di Scipione Africano
Dopo aver stipulato la pace con i Cartaginesi, nel marzo del 201 a.C. Scipione torna a Roma. Le fonti ci informano della calorosa accoglienza dimostrata dai concittadini che si riversano nelle strade al suo passaggio:
Conclusa la pace per terra e per mare, imbarcato l’esercito, Scipione passò in Sicilia, a Lilibeo. Di qui, dopo aver mandato avanti sulle navi gran parte dell’esercito, egli attraversò l’Italia piena di gioia per la pace non meno che per la vittoria, mentre non solo si accalcavano sulla via i cittadini dei centri rurali a rendergli onore, ma anche la folla dei cittadini; giunse a Roma, dove entrò in città col trionfo più splendido che mai fosse stato. (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXX 45, 2)
Polibio aggiunge:
Poiché le folle lo attendevano con un’impazienza commisurata alla grandezza delle sue imprese, furono grandi sia il fasto con cui fu accolto quell’uomo, sia la benevolenza della massa nei suoi confronti. Ed era ovvio e giusto che questo si verificasse. Infatti, mentre non avevano mai sperato di espellere Annibale dall’Italia e di liberarsi del pericolo che minacciava sé stessi e le persone a loro più care, il pensiero che ora erano certi non solo di essere liberi da ogni paura e pericolo, ma di aver vinto i loro nemici, provocava una gioia che non conosceva limiti. (Polibio, Storie, XVI 23, 2-4)
Alla celebrazione del trionfo, seguono giornate di giochi e di feste finanziate proprio dal vincitore. Tra i tanti onori, Scipione riceve quello del soprannome di Africanus, primo nella storia di Roma a riportare un cognomen ex virtute, ovvero un titolo che derivava dal nome della popolazione sconfitta. Da quel momento in poi, egli sarà sempre conosciuto come l’Africano.
Una carriera in bilico, la guerra contro Antioco di Siria: a fianco del fratello Lucio
Nel 190 a.C. suo fratello minore, Lucio, ottiene il consolato con la speranza che gli venga concessa, per l’anno successivo, il comando della provincia di Grecia, punto di accesso privilegiato per l’Asia Minore: le controversie con il re di Siria, Antioco III, stanno infatti arrivando ad un punto di rottura e Lucio intravede il grande potenziale che può avere per la propria carriera il merito di trionfare su Antioco.
L’assegnazione delle province proconsolari avveniva mediante un sorteggio in Senato: il giorno preposto per l’estrazione, Publio si presenta davanti ai patres sostenendo la causa del fratello e promettendo di accompagnarlo in Oriente come legato, fornendo la garanzia della propria esperienza militare. Il Senato acconsente e, prima della fine di marzo, i due fratelli partono per la Grecia con l’ordine di passare in Asia se la situazione lo avesse richiesto.
Nei primi mesi, Publio e Lucio guidano insieme le operazioni belliche, anche se la fama di cui l’Africano gode lo rende più autorevole tanto agli occhi dei propri soldati quanto a quelli degli ambasciatori stranieri: giunti in Asia, infatti, l’ambasciatore inviato da Antioco per trattare le condizioni di pace chiede a Publio di conferire con lui privatamente. Scipione acconsente per un motivo per preciso: nei giorni precedenti, suo figlio Lucio è stato fatto prigioniero dai nemici e vorrebbe avere sue notizie; l’ambasciatore di Antioco è pronto a far restituire l’ostaggio senza alcuna pretesa di riscatto e a concedergli una grande quantità d’oro, se, in cambio, ottiene la pace. Insomma, un tentativo di corruzione che potrebbe causare a Publio non pochi problemi a Roma.
Questa, secondo Livio, la risposta di Scipione:
“Considero mio figlio il dono più splendido, degno della munificenza di un re; di tutto il resto prego gli dei che la buona sorte non mi faccia mai sentire il bisogno – di certo non ne sentirà la mancanza la mia indole. Di una simile generosità mostrata nei miei confronti sappia il re che gli sarò riconoscente, se alla mia personale gratitudine avrà occasione di fare appello, in cambio di un favore personale: ufficialmente non avrò da lui nulla, né gli darò nulla. Per il momento posso solo offrigli un consiglio fidato: va’, digli da parte mia che rinunci alla guerra, e non respinga nessuna condizione di pace”. (Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXXVII 36, 6-8)
Fallite le trattative, lo scontro con Antioco è imminente: questa volta, però, Publio, probabilmente malato, non partecipa alle operazioni che, dunque, si svolgono esclusivamente sotto la guida di Lucio. La battaglia di Magnesia (189 a.C.) si risolve in un grande successo per i Romani e nella concessione del trionfo e dell’appellativo di Asiaticus per Lucio Cornelio Scipione.
Una fine ingloriosa: i processi agli Scipioni
A tanta gloria nelle province corrisponde tanta ostilità in patria: le vittorie su Annibale e su Antioco hanno indubbiamente guadagnato ai due Scipioni una posizione di ineguagliabile rilievo. Essi si distinguono come grandi generali, le cui abilità personali hanno fatto grande il nome di Roma. Tutto questo è, per la parte più conservatrice della classe dirigente romana, una deriva intollerabile: a ergersi a campione del conservatorismo e dei valori tradizionali della res publica è Catone il Censore, il quale si impegna alacremente per minare alle fondamenta il prestigio e la fama dell’Africano e dell’Asiatico.
Per Catone, infatti, la grandezza di Roma risiede nella virtus dei suoi cittadini che, all’occorrenza, si trasformano in soldati valorosi e che combattono insieme, in una dimensione fortemente comunitaria, senza che nessuno di loro prevalga o emerga sugli altri: Scipione, che con il suo carisma si era distinto e aveva impresso una svolta individualistica nella conduzione delle operazioni militari, costituiva un pericolo per questa compattezza collettiva e andava eliminato.
Proprio Catone è il promotore dei cosiddetti “processi degli Scipioni” che segnano il definitivo tramonto dell’esperienza politica dei fratelli Scipioni. Il primo colpo è assestato nel 187 a.C. a Lucio, il quale viene condannato per malversazione nell’ambito della gestione dell’indennità di guerra pagata da Antioco alla fine della guerra siriaca; in quest’occasione Publio interviene in difesa del fratello in Senato dove, mossa da rabbia e indignazione, lancia i registri presentati da Lucio.
A distanza di tre anni, nel 184 a.C., è il turno dell’Africano: accusato a sua volta, egli preferisce recarsi in esilio volontario e lasciare Roma prima della fine del processo. Si trasferisce nella villa di Literno, dove muore nello stesso 184 o, al più tardi, nel 183.
Scipione Africano: un generale ellenistico
Una fine così ingloriosa non rende certo merito alla grandezza delle sue imprese: dotato di un’innata leadership e di un’intelligenza strategica fuori dal comune, Scipione è il primo vero e proprio generale romano capace di emergere dal parterre della classe dirigente e di attrarre intorno a sé un prestigio e una fama senza precedenti. Egli è, senza dubbio, l’antesignano delle grandi personalità che emergono nel I secolo a.C. e che, con i loro conflitti, determinano il declino della Repubblica e l’ascesa del Principato: lo stesso Augusto, a distanza di duecento anni, avrà un occhio di riguardo per la figura di Scipione Africano.
L’eccezionalità di Scipione e, soprattutto la conseguente ostilità nei suoi confronti, trova spiegazione nei modelli di riferimento cui si ispirava: la gens dei Cornelii Scipioni è la prima famiglia romana a manifestare un chiaro interesse per il mondo greco-ellenistico e Publio Scipione in questo non è da meno.
Egli guarda con ammirazione alla figura del sovrano ellenistico che deve la propria regalità non solo alla preminenza politica, ma anche e soprattutto alla sua superiorità morale che si rivela nell’abilità militare, nella clemenza e nell’evergetismo, nel favore degli dei, tutte queste caratteristiche che lo stesso Scipione ha sempre cercato di fare proprie. L’Africano, infatti, non è stato solo uno stratega ineguagliabile, ma anche un comandante autorevole e magnanimo, capace di farsi amare e rispettare dai propri soldati e, di riflesso, dai concittadini: un carisma come il suo non poteva lasciare indifferenti, nel bene e nel male.
Il tempo, però, gli ha dato ragione: passate in sordina le accuse rivoltegli negli ultimi della sua carriera, Scipione è ancora oggi per tutti il grande e glorioso Africano.
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- H. Scullard, Scipio Africanus: Soldier and Politician, Clarendon Press 1951.
- Brizzi, Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma, Laterza 2007.
- Breccia, Scipione l’Africano, Salerno Editrice 2017.
- Frediani, Le grandi guerre di Roma. Newton Compton Editori 2020.
Molto ben scritto e interessante