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La biografia di Primo Levi: una vita dedicata alla testimonianza

In questo articolo ripercorreremo la vita, le opere e il pensiero di Primo Levi: non solo testimone dei campi di sterminio nazisti, ma anche uomo di scienza e grande comunicatore.

di Medea Santonocito
26 Gennaio 2022
TEMPO DI LETTURA: 9 MIN
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Primo Levi

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CONTENUTO

  • Gli anni giovanili di Primo Levi
  • Primo Levi e l’esperienza della deportazione
  • Primo Levi, il chimico e lo scrittore
  • Primo Levi, la Shoah e l’antisemitismo
  • Primo Levi, l’identità ebraica e Israele
  • Primo Levi, la questione del suicidio

Gli anni giovanili di Primo Levi

Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919 all’interno di una famiglia di ebrei piemontesi. Primogenito di Cesare Levi ed Ester Luzzati, ha una sorella più piccola, Anna Maria, a cui sarà sempre molto legato. Egli stesso racconta di come il padre, benché spesso assente per motivi di lavoro, abbia esercitato su di lui una certa influenza soprattutto per quanto riguarda l’interesse verso la scienza e la letteratura.

Con l’avvento del fascismo, l’educazione scolastica ed extra scolastica vengono ovviamente inquadrate nell’ideologia del regime e il giovane Primo Levi si ritrova a far parte dei Balilla e poi degli Avanguardisti. L’atteggiamento della sua famiglia nei confronti del fascismo è quello di un’accettazione insofferente, di controvoglia.

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Il giovane Primo Levi

Levi sviluppa una personalità schiva e introversa, nonché una passione per la scrittura, l’alpinismo e la chimica. Quest’ultima diventa la sua professione e lo porta prima a laurearsi presso l’Università di Torino, poi a trasferirsi a Milano dove trova un lavoro all’interno di un laboratorio. Nel 1938 vengono introdotte le leggi razziali, che prevedono una graduale discriminazione ed esclusione dei cittadini ebrei dalla vita sociale. A tal proposito, Levi è riuscito a completare i suoi studi solo per via di una clausola secondo la quale chi era già iscritto al momento dell’entrata in vigore del decreto poteva terminare il percorso di studi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Primo Levi fa rientro a Torino e si avvicina sempre di più alle idee antifasciste.

È così che sceglie di opporsi al regime entrando a far parte di una piccola banda partigiana legata al movimento Giustizia e Libertà, attiva fra Valle d’Aosta e Piemonte. Tuttavia, come lui stesso afferma, si tratta di un gruppo di giovani inesperti e sprovvisti di armi e appoggi. Nel dicembre 1943 viene arrestato in seguito a una delazione e interrogato dalla milizia fascista.

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Primo Levi e l’esperienza della deportazione

La prima fase della sua detenzione si svolge nel campo di concentramento di Fossoli (Modena) finché, nel febbraio 1944, Levi non viene caricato su un treno merci diretto ad Auschwitz assieme ad altre 650 persone, di cui faranno ritorno, lui compreso, solo in tre. Superata la selezione iniziale, egli trascorre la prigionia a Monowitz (o Auschwitz III), un sottocampo annesso a una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà della IG Farben e denominata Buna-Werke. Lì i deportati vengono impiegati come manodopera a costo zero per la costruzione degli impianti industriali; la fabbrica in realtà non entrerà mai in funzione.

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Gli impianti della Buna a Monowitz

Levi attribuisce la sua sopravvivenza alla fortuna e a una sua curiosità verso il mondo, che ha fatto sì che non cadesse nell’indifferenza e nella rassegnazione. In secondo luogo contribuiscono altri fattori come la conoscenza del tedesco, anche se basilare; il possesso di un titolo professionale sfruttabile, in quanto la sua esperienza in campo chimico gli permette di ottenere un incarico all’interno di un laboratorio e di trascorrere il gelido inverno al riparo; infine, l’essere stato deportato relativamente tardi (febbraio 1944), quando l’avanzata e la supremazia militare nazista sono ormai in declino, e dopo che il governo tedesco ha deciso di “allungare” la vita media dei prigionieri data la scarsità di manodopera.

A questo proposito, in Se questo è un uomo l’autore stesso descrive un paio di bombardamenti da parte degli Alleati sugli edifici della Buna. Inoltre, ha giocato a sua favore l’essersi ammalato al “momento giusto”, cioè quando i nazisti, incalzati dall’avanzata sovietica, decidono di abbandonare il campo e di lasciare indietro i prigionieri più deboli e malati.

Dopo quasi un anno di peripezie, il 27 gennaio 1945 arriva il giorno della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche ed è il momento per Levi di pensare al ritorno a casa. I giorni immediatamente precedenti all’arrivo dei soldati vengono vividamente descritti in un capitolo di Se questo è un uomo intitolato “Storia di dieci giorni”. A questo punto comincia l’odissea del rientro in Italia, un viaggio che si prolunga in maniera quasi frustrante e che attraversa un’Europa orientale ridotta in macerie. Finalmente, nell’ottobre 1945, Levi fa ritorno a Torino: la sua casa è ancora in piedi e gli altri membri della sua famiglia sono vivi, ma il bisogno di raccontare quanto successo è troppo forte da ignorare.

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La tregua, una ricostruzione delle tappe lungo il cammino verso casa

Primo Levi, il chimico e lo scrittore

Le due anime della sua persona, il chimico e lo scrittore, si riflettono nella scrittura e nella pubblicazione di opere di carattere diverso: da un lato il bisogno di raccontare riguardo alla sua esperienza in lager porta Levi a diventare uno degli autori più noti nell’ambito della memorialistica, anche grazie alla sua disponibilità a comunicare con le nuove generazioni; dall’altro lato il suo interesse per il mondo naturale e per quello scientifico, in particolare per gli animali, lo porta a scrivere racconti che potremmo definire di fantascienza e fanta-biologia.

Alla sua carriera di impiegato in ambito chimico, dunque, si affianca l’attività di scrittore. Inizialmente, però, le case editrici non si dimostrano interessate ai suoi scritti e anche Se questo è un uomo (la prima edizione del 1947 è di un piccolo editore chiamato De Silva) non sembra destare molto interesse, almeno non fino al decennio successivo. È in quel periodo che in Italia si comincia a parlare maggiormente dei lager nazisti e, nel 1958, Einaudi pubblica una nuova edizione di Se questo è un uomo, che renderà Primo Levi noto al pubblico generale. Einaudi resterà la sua casa editrice per tutte le opere seguenti.

Una grossa fetta della sua opera letteraria non può che focalizzarsi sulla sua esperenza nei lager nazisti: titoli come Se questo è un uomo, La tregua, I sommersi e i salvati sono ormai classici tradotti in molte lingue e noti in tutto il mondo, che hanno reso Levi un protagonista della letteratura moderna italiana e non solo. Il pensiero scientifico e l’analisi razionale che da un lato caratterizzano la sua formazione da chimico, dall’altro influenzano anche il suo modo di scrivere e di vedere il mondo. La sua prosa si distingue per essere lineare, sobria ed estremamente precisa, quasi scientifica appunto. Vediamo di seguito alcuni dei suoi lavori più importanti.

Se questo è un uomo (1947) è l’opera oggi più celebrata e famosa dello scrittore. È il racconto della sua deportazione nel campo di Monowitz. Il linguaggio impiegato è pacato ed estremamente razionale, il tono non è accusatorio poiché il suo scopo è quello di cercare di comprendere e spiegare quello che ha vissuto, di fornire una documentazione per lo studio di quanto successo. All’interno vengono narrate le condizioni disumane di vita dei prigionieri, le amicizie strette con altri compagni, le situazioni in cui egli stesso ha avuto direttamente a che fare con i nazisti, e di come il suo mestiere l’abbia salvato facendogli passare l’inverno a lavorare dentro a un laboratorio di Monowitz. L’ordine dei capitoli, a detta dell’autore stesso, non segue un ordine cronologico bensì di urgenza. Il desiderio di scrivere questo libro nasce già all’interno del lager.

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Copertina della prima edizione di Se questo è un uomo (1947)

La tregua (1963, Premio Campiello) è la narrazione delle vicende e dei personaggi che si sono succeduti lungo il cammino che conduce Levi da Auschwitz a Torino. Il libro dà l’opportunità a chi legge di capire in che situazione si trovasse l’Europa nell’immediato dopoguerra: l’avanzata del comunismo nei Paesi che faranno parte, di lì a breve, del blocco orientale; l’antisemitismo che continua a serpeggiare in certe zone d’Europa; la stanchezza e la miseria lasciate dal conflitto.

I sommersi e i salvati (1986) è un saggio di riflessione su vari aspetti dell’animo umano, specialmente in relazione a quanto accaduto nei lager. I campi nazisti sono visti come dei laboratori a cielo aperto, in cui si mettono a nudo le fragilità dell’essere umano. Ad esempio, Levi parla della “zona grigia” ossia di quella categoria di persone che non ha preso posizione per paura o interessi personali, che in tal modo avrebbe permesso ai totalitarismi del Novecento di insediarsi e agire. Nella zona grigia rientrano anche quei casi di collaborazione fra vittime e carnefici in cui è difficile attribuire le responsabilità dei fatti, così come quei casi in cui prevale l’istinto di sopravvivenza a discapito di altri. La cruda verità è che se alcuni sono sopravvissuti (i salvati) è perché altri sono morti (i sommersi), come in una selezione darwiniana. Eppure sono loro, i sommersi, a essere i testimoni integrali, poiché hanno visto il fondo dell’abisso. Levi sente che il suo dovere da sopravvissuto, e nei confronti di chi non ce l’ha fatta, è quello di raccontare.

Se non ora, quando? (1982) è un romanzo ambientato nell’Europa orientale durante la Seconda guerra mondiale e che è valso a Levi un Premio Campiello. I protagonisti sono dei partigiani ebrei russi e polacchi che mettono in atto la loro resistenza per sopravvivere alla guerra e per rifarsi una vita lontano dai loro luoghi d’origine. La meta finale: la Palestina.

La chiave a stella (1978) è un romanzo sul mondo del lavoro. Il protagonista è un operaio specializzato nel montaggio di gru, ponti e tralicci, chiamato Libertino Faussone, il quale ha viaggiato in tutto il mondo per svolgere il suo mestiere. Questa celebrazione del lavoro come elemento positivo per l’uomo è valso a Levi il Premio Strega nel 1979.

Storie naturali (1966) è una raccolta di racconti di fantascienza, spesso a carattere umoristico e non privi di spunti di riflessione sul progresso tecnologico. Gli episodi si svolgono in un futuro immaginario popolato da macchine bizzarre ed esperimenti quasi inquietanti. È stato pubblicato da Einaudi con lo pseudonimo Damiano Malabaila.

Il sistema periodico, uscito nel 1975, è una raccolta di ventuno episodi in parte autobiografici, a ognuno dei quali è stato associato un elemento chimico della tavola periodica. In quest’opera si intrecciano racconti delle sue esperienza da chimico in gioventù, dell’amore per la montagna, della deportazione e della sua crescita personale.

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Primo Levi, chimico e scrittore

Primo Levi, la Shoah e l’antisemitismo

Una tema ricorrente nelle interviste rilasciate da Levi è ovviamente quello del suo pensiero nei confronti del nazifascismo e dell’antisemitismo. Intervistato nel 1981, fa un’analisi molto razionale che può essere sintetizzata come segue: il fascismo rappresenta “la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza, e il nazismo non è che la metastasi di un tumore nato in Italia; le due ideologie hanno provocato il disastro della Seconda guerra mondiale e decine di milioni di vittime, portando quasi alla morte dell’Europa”. Auschwitz è stato il punto d’arrivo, “il coronamento dell’ideologia fascista”.

Dal punto di vista dell’autore i lager hanno rappresentato un grande esperimento sociale, all’interno del quale è avvenuto un processo di disumanizzazione non solo dei detenuti ma anche dei carcerieri. Levi inoltre definisce l’antisemitismo come un fenomeno di origine biologica, ossia paragonabile a quella ostilità osservata fra le specie animali verso chi non fa parte del gregge. Da quando gli ebrei si sono dispersi nella diaspora hanno sempre rappresentato il bersaglio facile in quanto minoranza. L’antisemitismo è insomma una di quelle eredità animalesche che andrebbero combattute al fine di poterci definire esseri umani; per questo motivo “il nazismo era fatto di non uomini”.

Primo Levi, l’identità ebraica e Israele

Primo Levi nasce e cresce in una famiglia di ebrei non praticanti, integrati con il resto degli italiani in tutti i sensi: linguistico, nel vestiario, nell’aspetto. In un’intervista del 1981 afferma “io non sono nato ebreo, cioè sono ebreo anagraficamente, ma quanto importasse esserlo mi è stato rivelato con violenza, prima al tempo delle leggi razziali e poi al tempo della deportazione. Mi sono sentito costretto dentro a questo perimetro, mi hanno definito tale e così ero”.

Ad Auschwitz entra in contatto con persone appartenenti a filoni dell’ebraismo diversi che lui stesso ammette di non conoscere in maniera approfondita, come i numerosi ashkenaziti dell’Europa orientale. Questa esperienza lo porta ad abbracciare l’ebraismo in termini culturali, per la sua storia e le sue tradizioni, ma non in termini religiosi dal momento che egli continua a professarsi ateo: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”.

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Primo Levi

Un altro nodo importante per capire il rapporto fra Levi e la sua identità ebraica è la questione d’Israele. Al contrario di molti ex compagni di prigionia dell’est Europa, Levi non sente il bisogno di trasferirsi in Israele, nemmeno dopo l’esperienza della guerra. “Le mie radici sono in Italia, al contrario dei miei ex compagni di prigionia che sapevano di non trovare nulla al loro rientro, io avevo lo scopo di ritornare a casa”.

Nella coscienza di Levi, un ebreo della diaspora, i sentimenti nei confronti dello Stato d’Israele sono ambivalenti: da un lato la consapevolezza di appartenere alla stessa comunità, che ha bisogno di avere una terra dove sentirsi sicura; dall’altro la disapprovazione delle politiche estere israeliane, in particolare dopo gli avvenimenti della Guerra dei sei giorni (1967) e dopo l’invasione del Libano nel 1982, quando Israele dimostra di essere diventato una potenza militarista come molte altre, perdendo così quella sorta di “vantaggio morale” che stava alla base della sua fondazione. In seguito a quegli eventi, agli occhi di Primo Levi l’idea originaria di una Terra promessa in cui ogni ebreo possa riconoscersi comincia a sgretolarsi.

Primo Levi, la questione del suicidio

Primo Levi passa quasi tutta la sua vita, eccezion fatta per gli anni della guerra e della deportazione, nella stessa casa di Torino in cui è nato. L’11 aprile 1987 il suo corpo viene ritrovato esanime in fondo alla tromba delle scale del condominio di corso Re Umberto 75. L’ipotesi comunemente accettata è che lo scrittore e chimico torinese si sia suicidato gettandosi al piano terra. Si sa che Levi ha sofferto di una grave depressione durante gli ultimi decenni della sua vita. Da osservatori esterni non sapremo mai i motivi alla base della malattia.

Tuttavia, c’è chi non crede all’ipotesi del suicidio, soprattutto coloro che sono stati a contatto con Levi poco prima della sua scomparsa, i quali parlano di un uomo con numerosi progetti per il futuro. Di certo non una persona che pensava di togliersi la vita.

Con il senno di poi, e a fatti avvenuti, è inutile cercare la verità. Ciò che è certo è che quel giorno si spegneva uno dei grandi scrittori dell’Italia moderna, che con lucidità e pacatezza ha saputo raccontare di cose terribili.

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  • P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 2014
  • P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 2014
  • P. Levi, M. Belpoliti (a cura di), Tutti i racconti, Einaudi, 2015
  • I. Thomson, E. Gallitelli (trad.), Primo Levi. Una vita, UTET, 2020
  • F. Camon, Conversazione con Primo Levi. Se c’è Auschwitz, può esserci Dio?, Guanda, 2014
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Medea Santonocito

Medea Santonocito

Ha conseguito la laurea magistrale in Storia Contemporanea all'Università di Edimburgo, presentando una tesi sul rapporto fra Primo Levi e la sua identità ebraica dal titolo "Anti-Semitism and identity. How discrimination reawakened Primo Levi's Jewishness". In passato ha lavorato e collaborato con musei, archivi e associazioni culturali. Ha contribuito con la stesura di un capitolo al libro "Il fondo fotografico di Gio Batta Sina. 1885-1967". Attualmente sta svolgendo ricerche riguardo ai prigionieri di guerra italiani (POWs) che durante la Seconda guerra mondiale caddero in mano agli Alleati. È traduttrice di testi, alcuni dei quali a carattere storico.

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