CONTENUTO
Il primo dopoguerra in Italia fu caotico. Dopo la vittoria l’Italia resta alle prese con i problemi che la grande guerra ha ovunque lasciato.
L’economia presenta i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Tutti i settori della società sono in fermento. La classe operaia, infiammata dagli echi di quanto sta accadendo in Russia, non solo chiede miglioramenti economici, ma reclama maggior potere in fabbrica e manifesta in alcune frange tendenze rivoluzionarie. I contadini tornano dal fronte con una accresciuta consapevolezza dei loro diritti, decisi a ottenere dalla classe dirigente l’attuazione delle promesse fatte nel corso del conflitto. I ceti medi tendono ad organizzarsi e a mobilitarsi più che in passato per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici.
Tutti problemi che sono aggravati dalla debolezza delle strutture democratiche e dalla crisi della classe dirigente liberale sempre più contestata ed isolata. Sono favorite le forze socialiste e cattoliche, non compromesse con le responsabilità della guerra.
Il primo dopoguerra in Italia: la nascita del Partito popolare italiano
I cattolici abbandonano la tradizionale linea astensionista. Nel gennaio 1919 danno vita al Partito popolare italiano. Il padre riconosciuto e primo segretario è don Luigi Sturzo. Il nuovo partito è strettamente legata alla Chiesa. La sua stessa nascita è resa possibile dal nuovo atteggiamento assunto dal papa e dalle gerarchie ecclesiastiche dopo la guerra, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista.
Il Partito socialista italiano
Il primo dopoguerra in Italia è segnato dall’avanzata del Partito socialista che aumenta rapidamente i suoi iscritti. Schiacciante è la prevalenza della corrente di sinistra, chiamata massimalista, su quella riformista. I massimalisti, il cui leader è il direttore dell’”Avanti!” Giacinto Menotti Serrati, si pongono come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiarano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. In realtà i massimalisti più che preparare la rivoluzione la aspettano. In polemica con questa impostazione, si formano nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani. Si battono per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all’esempio dei comunisti russi. Fra questi gruppi emergono quello napoletano guidato da Amedeo Bordiga, che punta soprattutto sulla creazione di un nuovo partito rivoluzionario ricalcato sul modello bolscevico, e quello che opera a Torino attorno ad Antonio Gramsci e alla rivista “L’Ordine Nuovo”, affascinato dall’esperienza dei soviet russi, visti come strumenti di lotta contro l’ordine borghese e al tempo stesso come embrioni della società socialista. Il grosso del Partito Socialista è dunque schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie.
I Fasci di Combattimento
Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fonda a Milano i Fasci di combattimento. Politicamente questo nuovo movimento si schiera a sinistra, chiede audaci riforme sociali e si dichiara favorevole alla repubblica; nel contempo ostenta un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi il fascismo raccoglie solo scarse ed eterogenee adesioni, ma si fa subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento. Non a caso i fascisti sono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile ’19 e conclusosi con l’incendio della sede del giornale socialista l’”Avanti!”. E’ il segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi, a causa delle polemiche provocate dall’andamento della conferenza di pace e dell’inasprimento delle tensioni sociali.
Il primo dopoguerra in Italia e il mito della vittoria mutilata
La delegazione italiana alla conferenza di Versailles chiede l’annessione della città di Fiume sulla base del principio di nazionalità in aggiunta ai territori promessi nel ’15. Tali richieste incontrano l’opposizione degli alleati, in particolare del presidente americano Wilson, che non è vincolato dalle clausole del Patto di Londra. Ciò suscita in larghi strati dell’opinione pubblica un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l’Italia dei frutti della vittoria, e verso la stessa classe dirigente, giudicata incapace di tutelare gli interessi nazionali. Si parla allora di vittoria mutilata: un’espressione coniata da Gabriele D’Annunzio. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ha nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di D’Annunzio, occupano la città di Fiume e ne proclamano l’annessione all’Italia.
Il primo dopoguerra in Italia: Le agitazioni sociali e le elezioni del ’19
Sul piano interno nel biennio 19-20, in coincidenza con l’impresa fiumana, l’Italia attraversa una fase di acute agitazioni sociali e di profondi mutamenti negli equilibri politici. L’aumento del costo della vita si traduce in una grande ondata di scioperi operai, agrari, nei servizi pubblici e occupazioni delle terre. Le prime elezioni politiche del dopoguerra hanno luogo nel novembre del 1919. Sono le prime tenute con il sistema proporzionale. I liberali perdono la maggioranza assoluta del Parlamento. I socialisti si affermano come il primo partito seguiti dai popolari. Dal momento che il Psi rifiuta ogni collaborazione, l’unica maggioranza possibile è quella basata sull’accordo fra popolari e liberali. Indebolito dall’esito delle elezioni, il governo Nitti sopravvive fino al giugno 1920.
Il governo Giolitti
Giolitti è chiamato a costituire il nuovo governo. Durante il suo mandato è risolta la questione di Fiume. Il 12 novembre 1920 con la firma del trattato di Rapallo l’Italia conserva Trieste, Gorizia, Zara e l’Istria. La Jugoslavia ottiene la Dalmazia. Fiume fu dichiarata città libera e solo nel ’24 diventa italiana grazie ad un successivo accordo con la Jugoslavia. D’Annunzio annuncia una resistenza ad oltranza. Ma quando il giorno di Natale del 1920 le truppe regolari italiane attaccano la città, preferisce abbandonarla. Nella politica interna il disegno giolittiano, già sperimentato ai primi del secolo, di ridimensionare le spinte rivoluzionarie del partito socialista accogliendone in parte le istanze di riforma fallisce.
L’occupazione delle fabbriche
I conflitti sociali nell’estate-autunno del ’20 raggiungono l’episodio più drammatico con l’agitazione dei metalmeccanici culminata nell’occupazione delle fabbriche. La maggior parte dei lavoratori in lotta vive questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario. Grazie all’iniziativa mediatrice di Giolitti, prevale invece la linea dei dirigenti sindacali della Cgl, che riesce a trovare un accordo che accoglie le richieste economiche. L’esito della vertenza diffonde in tutta la borghesia un desiderio di rivincita. Nelle file del movimento operaio nascono polemiche e recriminazioni. I dirigenti della Cgl vengono accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale. La direzione massimalista del Partito socialista è attaccata dai gruppi di estrema sinistra per il suo comportamento incerto.
Il Partito comunista d’Italia
Queste polemiche si intrecciano con le fratture provocate dal II Congresso del Comintern: dove come si ricorderà si fissano le condizioni per l’ammissione dei partiti operai all’Internazionale comunista.
Due sono i punti più controversi: quello in cui si ingiunge ai partiti aderenti di assumere la denominazione di Partito Comunista e quello in cui si impone l’espulsione degli elementi riformisti. Serrati e i massimalisti rifiutano di sottostare a queste condizioni, sia perché le ritengono lesive dell’autonomia del partito, sia perché sanno che espellendo i riformisti il Psi perderebbe buona parte dei suoi quadri sindacali, dei suoi deputati e dei suoi amministratori locali.
Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio 1921 presso il teatro Goldoni, i riformisti non sono espulsi. E’ invece la minoranza di estrema sinistra guidata da Bordiga e Gramsci ad abbandonare il Partito socialista per fondare il Partito comunista d’Italia.
La fine dell’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnano la fine di un periodo definito biennio rosso.