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Nella primavera del 1967 “L’Espresso” pubblica un articolo di Lino Jannuzzi in cui è scritto che, tre anni prima, il generale Giovanni De Lorenzo – medaglia d’argento della Resistenza e nel 1964 comandante dell’Arma dei carabinieri – con la protezione dell’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, aveva ordito un colpo di Stato. In quell’estate del’64 era entrato in crisi il primo governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro, governo nato nel dicembre del 1963 con ministri socialisti e con il leader del Psi, Pietro Nenni, vicepresidente del Consiglio.
Il giornale diretto da Eugenio Scalfari scrive che Segni, volendo approfittare della crisi di governo per interrompere l’esperienza di centrosinistra, aveva incoraggiato de Lorenzo – comandante come si è detto dei carabinieri, ma soprattutto ex capo dei servizi segreti, il Sifar, su cui mantiene una grande influenza – a predisporre un intervento straordinario per l’ordine pubblico che si configurava come un vero e proprio golpe.
Secondo i difensori di Segni e de Lorenzo, invece, Quirinale e comando generale dell’Arma si erano limitati a programmare una reazione in grado di contenere gli effetti dei possibili disordini che – come era accaduto nel luglio del 1960 all’epoca del governo Tambroni – l’intera sinistra avrebbe potuto provocare nel momento in cui fosse stato costituito un governo tecnico guidato dal presidente del Senato Cesare Merzagora. Come era nelle intenzioni di Segni.
Lo scandalo è grande: dal maggio del 1967 alla fine del 1970 l’affaire denunciato da “L’Espresso” impegnerà le Camere in ben nove dibattiti (nella quarta e quinta legislatura); sarà poi oggetto di numerosi processi (con esiti alterni) e addirittura di tre commissioni d’ inchiesta: una ministeriale, una militare e una parlamentare.
Secondo lo storico Franzinelli, il Piano Solo è nient’altro che “un’interpretazione estensiva e autonoma” del “piano di emergenza speciale” predisposto dalla polizia nel novembre del 1961, quando si sono temute violenze di piazza in seguito alla crisi di Berlino.
Il Sifar
Nel 1952 il Sifar (Servizio informazioni delle Forze Armate) da vita alla rubrica “E”, che include i nomi dei cittadini sospettati di poter organizzare atti di sabotaggio, guerriglia e azioni contro le forze armate. L’anno successivo, la sua gestione viene affidata dal ministro dell’Interno alla Commissione speciale per la lotta al comunismo. Nel 1956, il generale Giovanni de Lorenzo (medaglia d’argento della Resistenza) viene nominato capo del servizio segreto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, con l’accordo del presidente della Repubblica Gronchi.
Dal 1958 il Sifar cessa però di aggiornarla, perché nei fatti i dati utili sono già presenti nel Casellario politico centrale e negli schedari delle questure. Sotto la guida di de Lorenzo, intraprende però nello stesso anno un’intensa attività di dossieraggio che colpisce prima i parlamentari e poi si allarga a macchia d’olio: in pochi anni, tra il 1959 e il 1962, quando de Lorenzo lascia la guida del Sifar per approdare al comando dell’Arma dei carabinieri, le schede personali da 10 mila diventano 157 mila.
Il Sifar di de Lorenzo aveva allestito dossier diffamatori (spesso non corroborati da prove certe) su quasi tutti gli uomini pubblici italiani. Materiale utile per pressioni e ricatti. Il generale Egidio Viggiani, uomo di de Lorenzo e suo successore alla guida del Sifar, aggiorna la rubrica “E”: nella primavera del 1964 gli individui da sorvegliare con particolare attenzione perché pericolosi per la sicurezza dello Stato salgono a 731. Ed è servendosi anche di questi dossier che il Sifar prepara il “Piano Solo”.
Il progetto elaborato da de Lorenzo prende il nome di “Piano Solo” perché, pur riprendendo le disposizioni (Piano E-S ossia Emergenza Speciale) emanate dal capo della polizia Vicari a fine 1961 in caso di “emergenza” (“occupazione Rai-TV, centrali telefoniche, sedi di partito [limitatamente a Pci, Psi e Psiup] o giornali, disarmo di esponenti politici in vista etc.”) prevede solo l’intervento dei carabinieri, escludendo il programmato coinvolgimento anche di prefetture, questure, pubblica sicurezza e forze armate.
Il primo governo di centrosinistra
Nel dicembre 1963 si costituisce il primo governo di centrosinistra, presieduto da Moro con Nenni come vicepresidente, con la partecipazione organica del Psi. Il presidente della Repubblica Segni (eletto il 6 maggio del 1962) gradisce poco. Il Pci è sorprendentemente duro nei confronti del nuovo gabinetto. De Lorenzo per due o tre mesi guarda con simpatia a Moro, nonostante il capo del governo sia accusato da una parte del mondo democristiano e soprattutto da quello confindustriale di essere eccessivamente arrendevole nei confronti del Psi.
Poi de Lorenzo, lusingato dalle attenzioni del presidente della Repubblica, “diviene”, secondo Franzinelli, “un fiero oppositore del centrosinistra e interagisce con le posizioni allarmistiche di Segni”. Cerca di convincerlo che polizia e esercito sono in combutta con la sinistra. De Lorenzo alimenta in ogni modo le preoccupazioni di Segni. E cerca di fare lo stesso con gli americani.
Un ruolo da protagonisti nell’incoraggiare Segni a mettersi di traverso all’attività di Moro lo svolgono il governatore della Banca d’Italia Guido Carli, il presidente del Senato Cesare Merzagora (che in una lettera del gennaio 1965 alla duchessa Anna d’Aosta rivelerà di essersi pronunciato per un governo di emergenza “in pieno accordo col presidente Segni”) e il ministro del Tesoro Emilio Colombo.
Il 14 maggio Colombo si reca al Quirinale. Espone a Segni considerazioni allarmistiche sullo stato dell’economia. Segni lo esorta a metterle per iscritto in una lettera da inviare riservatamente a Moro. Colombo esegue attingendo, per le valutazioni di ordine generale, a veline del Sifar. Qualche settimana più tardi, dopo che Carli ha illustrato al governo un progetto di risanamento dell’economia che allarma i socialisti, Colombo consegna la lettera al giornalista Cesare Zappulli, che la pubblica sul “Messaggero” innescando la crisi di governo che esploderà di lì a breve.
In quegli stessi giorni Carli confida al segretario democristiano Mariano Rumor che, a suo avviso, “la situazione non si riaggiusta se il Psi non lascia il governo”. Merzagora a metà giugno così si rivolge a Segni: “Cerca di far capire a Moro su quale strada pericolosa, anche costituzionalmente, si muove senza nemmeno l’appoggio dei sindacati in campo politico! E, se questa sarà la strada, non vedo proprio come io possa continuare a dare la mia collaborazione alla vita politica italiana”.
Il 26 giugno, a seguito di uno scontro sulle sovvenzioni alla scuola privata, si apre la crisi di governo. La parte ostile della Dc, non solo la destra, scende in campo contro i socialisti e contro Moro. Moro si dimette e Segni lavora a che queste dimissioni siano definitive. Merzagora si tiene pronto per succedere a Moro e se ci sarà protesta di piazza o altri imprevisti, scatterà il Piano Solo.
Il 16 luglio Segni incontra di primo mattino de Lorenzo e, cosa inconsueta, ne dà comunicato ufficiale. Poi manda De Lorenzo a casa di Tommaso Morlino, dove il generale incontrerà Moro, il segretario della Dc Rumor, e i capigruppo di Camera e Senato, Zaccagnini e Gava, e li metterà al corrente del Piano Solo. Poche ore dopo Nenni avverte lo stato maggiore del suo partito di aver udito nel sottofondo della crisi un “tintinnio di sciabole”.
La tensione sembra però rientrare quando, socialisti e democristiani di sinistra accettano di rinunciare alle riforme più incisive e permettono la nascita del secondo governo Moro. I socialisti scendono a patti e il 18 luglio si può firmare l’accordo per la nascita di un nuovo governo presieduto da Moro (Antonio Giolitti, il cui piano di programmazione economica è stato definito dal Corriere della Sera “d’ispirazione e finalità eversiva”, non è confermato ministro).
Subito dopo il reinsediamento di Moro, Merzagora annuncerà riservatamente (per settembre) le sue dimissioni da presidente del Senato. Il 7 agosto, in seguito di un diverbio con Moro e Saragat (il colloquio è registrato dal Sifar, Saragat accusa il presidente della Repubblica di aver tramato con i carabinieri), Segni sarà colto da malore (trombosi cerebrale). Il suo posto verrà preso provvisoriamente da Merzagora e a fine anno sarà proprio Saragat ad essere eletto suo successore al Quirinale.
In quello stesso agosto del 1964, a Yalta, muore Palmiro Togliatti, che nel suo ultimo intervento pubblico accusa Nenni di “aver agitato lo spauracchio del colpo autoritario di destra per strappare e imporre l’accettazione di una politica sbagliata”.
Scontro tra generali
Dopo un periodo di calma, nel dicembre 1965 il generale Aloia viene nominato capo di stato maggiore della Difesa ed è sostituito da de Lorenzo nella carica di capo di stato maggiore dell’Esercito, su proposta di Andreotti appoggiata da Nenni e Saragat.
In quella occasione, alcuni generali (Aldo Beolchini, Paolo Gaspari, Giorgio Manes) reagiscono segnalando a Ugo La Malfa e a Ferruccio Parri le scorrettezze di de Lorenzo come capo del Sifar prima e dei carabinieri poi. Gaspari, in segno di protesta, addirittura si dimette. Ma il giornale del Pci, con un articolo di Silvestro Amore, difende de Lorenzo da quei generali bollati come reazionari, per i quali, secondo “l’Unità”, “l’aver partecipato attivamente con funzioni di comando alla lotta di liberazione nazionale non costituisce adeguato merito militare”.
Da questo momento sui giornali si comincia a parlare delle malefatte del Sifar. Anche come conseguenza dello scontro che oppone il nuovo capo di stato maggiore della Difesa Giuseppe Aloia a de Lorenzo.
Nel frattempo, morto Viggiani a metà 1965, diventa capo del Sifar un altro delorenziano, Giovanni Allavena, che temendo di trovarsi nei guai fa sparire alcuni dossier che riguardano alte personalità dello Stato, compreso lo stesso Aloia. Il fatto viene però scoperto nell’autunno del 1966 e insieme a esso emerge l’esistenza dei 157 mila fascicoli compilati dal servizio. Lo scandalo che ne nasce porta alle dimissioni di Allavena (nominato però, quasi a compensazione, al Consiglio di Stato) e alla sua sostituzione con l’ammiraglio Eugenio Henke.
Le commissioni indagano
Per indagare sullo scandalo nasceranno tra il 1967 e il 1970 ben tre commissioni, una ministeriale, una militare e un’ultima parlamentare. La prima è diretta dal generale Aldo Beolchini, su incarico del ministro della Difesa Roberto Tremelloni, e ha l’incarico di capire come possano essere scomparsi i fascicoli Sifar che non si trovano più e perché siano stati creati per schedare uomini politici, e non spie, né sabotatori o uomini in qualche modo pericolosi per lo Stato.
Beolchini inizia i lavori nel mese di gennaio 1967 e presenta il suo rapporto a marzo. Dalla relazione emergono particolari molto inquietanti, anche se il Paese ne potrà prendere piena consapevolezza solo nel 1990, quando saranno finalmente tolti gli omissis che ricoprono le parti più scottanti del testo. Il 15 aprile il Consiglio dei ministri destituisce de Lorenzo da capo di stato maggiore dell’Esercito. La colpa delle gravi deviazioni è scaricata su di lui e sui suoi successori alla guida del Sifar (tutti ancora sotto il suo controllo, visto che de Lorenzo ha creato “un vero e proprio gruppo di potere” che a lui fa capo), mentre vengono escluse responsabilità politiche.
Viene alla luce che a partire dal 1959, l’Ufficio D del Sifar ha cominciato a raccogliere informazioni biografiche sui singoli parlamentari (“vita civile, commerciale, professionale, politica, privata”) poi catalogate in fascicoli personali. Nel 1960 è la volta di prelati, vescovi e sacerdoti, poi di altri generali, per alcuni dei quali viene avanzato il sospetto di una loro presunta omosessualità.
Inoltre, nello stesso periodo una direttiva prescrive che ogni volta che una persona viene nominata in un fascicolo, bisogna aprire un fascicolo pure su quest’ultima. Il che ne comporta la proliferazione. Bisogna conoscere “tutto di tutti”, anche manipolando le informazioni ricevute: lo scopo è avere nelle proprie mani notizie scandalistiche con il fine, ipotizza la Commissione, di creare strumenti di “intimidazione [e] di pressione nei confronti degli uomini più influenti”.
Le notizie contenenti “materiale informativo … più gravemente efficace per il fine scandalistico” vengono raccolte in “superfascicoli gialli”, riguardanti “persone di speciale importanza” (di cui 36 su 40 spariti anch’essi). Infine, cosa di notevole rilievo, la relazione Beolchini sottolinea che il Sifar ha diffuso notizie non controllate relative a prossimi rivolgimenti politici nel Paese, contribuendo consapevolmente ad aumentare “la psicosi del pericolo immanente”. Non si dice esplicitamente, ma il “pericolo immanente” è l’insurrezione comunista.
Il 3 maggio del 1967 il deputato socialista Luigi Anderlini pronuncia alla Camera un discorso esplosivo. E’ in corso un dibattito sui servizi segreti, reso necessario dalle gravissime irregolarità che sono state scoperte dalla commissione Beolchini. L’onorevole rivela che nell’estate del 1964 il Sifar aveva predisposto tutte le mosse necessarie per realizzare un golpe autoritario: “Abbiamo corso tutti il rischio di vivere, nel 1964, una notte come quella che hanno vissuto gli uomini politici in Grecia”.
Un’inchiesta de “L’Espresso” riprende le affermazioni fatte alla Camera dall’onorevole Luigi Anderlini. Il 14 maggio l’articolo Complotto al Quirinale fa sapere al Paese il tentativo di golpe di de Lorenzo, subito dopo la crisi del primo governo Moro e prima della nascita del suo secondo esecutivo nel luglio 1964. Ne seguono altri dello stesso tenore.
Il generale de Lorenzo decide allora di querelare i giornalisti Eugenio Scalfari (direttore de “L’Espresso”) e Lino Jannuzzi (autore degli articoli), dando l’avvio a una causa che contribuisce in realtà a far emergere ulteriori scenari inquietanti attraverso le testimonianze di molti ufficiali perplessi di fronte alle direttive ricevute da de Lorenzo. Alcuni di loro ammettono l’esistenza delle liste degli enucleandi, che invece il loro comandante ha sempre negato. Alla fine, i due giornalisti saranno inaspettatamente condannati, anche se il pubblico ministero Vittorio Occorsio, che ha cambiato idea nel corso del processo, chiederà paradossalmente l’assoluzione per i querelati e la condanna per de Lorenzo, il querelante.
Sempre nel mese di maggio 1967, il comandante generale dell’Arma Carlo Ciglieri affida al suo vice, generale Giorgio Manes, un’inchiesta per capire chi ha fornito le informazioni alla base degli articoli de “L’Espresso” del 14 maggio. Anche il rapporto di Manes (che pur essendo vicecomandante dell’Arma è stato tenuto all’oscuro di tutto da De Lorenzo) si concentrerà in realtà sulla questione dei dossier, confermando le gravi irregolarità accertate da Beolchini.
Nel 1968 nasce la seconda commissione, quella militare. Nasce perché la Dc, e Moro in prima fila in quanto presidente del Consiglio, non vogliono una commissione parlamentare d’inchiesta, che potrebbe rivelarsi un boomerang per il partito, rivelando i rapporti tra i generali, Segni e alcuni ministri. Per la stessa ragione, Moro invoca il segreto di Stato e incarica il sottosegretario Francesco Cossiga di coprire di omissis tanto la relazione Beolchini quanto gli allegati al rapporto Manes.
La commissione militare, decisa anch’essa dal ministro della Difesa Tremelloni, ha l’incarico di chiarire la questione delle liste degli enucleandi ed è presieduta dall’ex comandante dei carabinieri Luigi Lombardi. Nella relazione finale vengono stigmatizzate le iniziative di de Lorenzo, il cui comportamento è considerato “censurabile” perché andato oltre le sue prerogative: in particolare, per non aver coinvolto il ministero dell’Interno – che ha diretta competenza riguardo all’ordine pubblico – nel piano di enucleazione degli elementi ritenuti pericolosi; di aver distribuito ai comandi regionali le liste degli enucleandi; e di aver intavolato trattative con aeronautica e marina per il trasporto di questi ultimi in Sardegna.
Tuttavia, il suo piano viene considerato dalla commissione “non adeguato allo scopo e inattuabile per deficienza di forze”, e quindi non pericoloso. Ritiene pertanto di poter escludere che le iniziative tra la primavera e l’estate del 1964 avessero come fine la realizzazione di un colpo di Stato. Anche Manes non se la cava bene, perché gli si rimprovera di aver oltrepassato i compiti affidatigli (doveva limitarsi a individuare le persone che avevano passato le informazioni a “L’Espresso”) e di aver redatto il rapporto “in modo preconcetto e non del tutto obiettivo”. Chiamato a metà 1969 a testimoniare dalla commissione parlamentare sui fatti del giugno-luglio 1964, forse logorato dall’accanita battaglia che lo coinvolge da due anni, morirà per un improvviso attacco di cuore prima di deporre.
La commissione parlamentare, nata nel mese di marzo 1969, è presieduta dall’onorevole democristiano Giuseppe Alessi. Anche in questo caso il sottosegretario Cossiga, come racconterà lui stesso molti anni più tardi, copre di omissis gran parte dei documenti, compresi quelli relativi alle azioni previste dal “Piano Solo”.
La mancata conoscenza dei nomi presenti nelle liste degli enucleandi fa sì che, com’è già successo nella commissione Lombardi, l’intera vicenda venga sottovalutata nella relazione di maggioranza della commissione, e che si escluda che si sia trattato di un colpo di Stato. È stata, si dice, solo un’improvvida e deplorevole iniziativa di cui sono responsabili de Lorenzo e pochi altri ufficiali. Più dura la relazione stilata dai componenti delle sinistre, che sottolineano invece la gravità e la pericolosità dei fatti.
Giudizi storici
Scalfari e Jannuzzi, condannati nel 1968, verranno eletti in Parlamento sui banchi del Psi. De Lorenzo, invece, ne uscirà distrutto. Bersagliato dal Pci, che fino a pochi mesi prima ne aveva fatto quasi un eroe, concluderà la sua vita pubblica tra le file parlamentari dell’estrema destra (più accorto di lui, il suo rivale Aloia – che pure era un uomo di destra e aveva ordito trame di cui non si erano perse le tracce – rifiuterà una candidatura al Parlamento offerta dalla Dc e andrà a fare il presidente dei cantieri riuniti di Taranto). Perfino Segni ne uscirà parzialmente riabilitato.
Franzinelli ne trae la conclusione che la pur grave iniziativa di de Lorenzo sia stata “sopravvalutata nella sua dimensione militare”, che “è ancora oggi oggetto di valutazioni esagerate o erronee, anche perché le interpretazioni politico-ideologiche mancano di un adeguato retroterra documentario», che la tesi del Piano Solo «archetipo dei tentati vi golpisti” è “discutibile”, e che “alla prova dei fatti quel Piano ha svolto un ruolo politico e favorito il ricompattamento del centrosinistra in versione moderata”.
Secondo Franzinelli non si sarebbe mai potuto ordire un golpe in quelle circostanze, anche perché mancava il consenso della Chiesa e soprattutto quello degli Stati Uniti. Da tutti i documenti portati alla luce risulta come il Vaticano valutasse assai positivamente l’esperienza di centrosinistra e che gli Stati Uniti erano più che favorevoli alla formula di governo del centrosinistra, definita “la nostra occasione migliore di isolare il Pci”.
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- M. Franzinelli, Il piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il «golpe» del 1964, Oscar Mondadori, Milano 2014
“Secondo Franzinelli non si sarebbe mai potuto ordire un golpe in quelle circostanze, anche perché mancava il consenso della Chiesa e soprattutto quello degli Stati Uniti. Da tutti i documenti portati alla luce risulta come il Vaticano valutasse assai positivamente l’esperienza di centrosinistra e che gli Stati Uniti erano più che favorevoli alla formula di governo del centrosinistra, definita “la nostra occasione migliore di isolare il Pci”.
Questa considerazione è più rispondente alla verità dei fatti ed a “possibili” verifiche su documenti storici dei due Stati indicati da Franzinelli.