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La pandemia di Covid-19 che si è abbattuta negli ultimi anni sul nostro pianeta ha riportato l’attenzione di molti su episodi analoghi verificatisi in epoche meno recenti. Tra questi, uno dei più noti è fuor di dubbio il contagio che si propaga drammaticamente ad Atene nel V secolo a.C., precisamente nell’arco temporale che va dal 430 a.C. al 427 a.C.
I sintomi della peste ad Atene
Gran parte delle notizie sull’evento sono ricavabili dalle Storie di Tucidide. Lo storico, infatti, è testimone oculare e vittima indenne del morbo, come afferma egli stesso (Storie II, 48): ταῦτα δηλώσω αὐτός τε νοσήσας καὶ αὐτὸς ἰδὼν ἄλλους πάσχοντας («mostrerò quei [sintomi] poiché io stesso ne sono stato affetto e ho visto altri soffrirne»). Ci fornisce, così, un’importante descrizione dei fenomeni attraverso cui si manifesta la malattia (Storie II, 49):
«[…] se poi qualcuno anche prima aveva contratto un malanno, tutti si convertivano in questo (malanno). Vampate violente alla testa, arrossamento e gonfiore degli occhi prendevano, invece, gli altri senza alcun motivo, ma all’improvviso, mentre erano sani, e le parti interne, sia la gola che la lingua, erano subito sanguinolente ed emettevano uno strano alito fetido; dopo questi sopraggiungevano starnuti e raucedine, e in breve tempo il morbo scendeva nel petto con una tosse violenta; e quando si localizzava nello stomaco lo metteva sottosopra e sopraggiungevano tutte quelle secrezioni di bile che sono state descritte dai medici, e per di più con grande sofferenza. Alla maggior parte capitavano conati di vomito a vuoto, che provocavano convulsioni violente che in alcuni cessavano dopo di esse, ad altri invece anche molto dopo. E il corpo, all’esterno, per chi lo toccava, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, ricoperto di piccole piaghe ed ulcere; le parti interne invece bruciavano al punto da non sopportare il contatto né di vesti molto leggere e di lenzuola né niente altro se non (l’essere) nudi, e da gettarsi con estremo piacere nell’acqua fredda. […] e il bere di più o di meno produceva il medesimo effetto. L’impossibilità di riposare e l’insonnia continuamente li affliggeva. Il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era al culmine, non languiva, ma resisteva alla sofferenza contro ogni aspettativa, così che i più perivano al nono o al settimo giorno a causa dell’interna arsura, mentre avevano un po’ di forza, oppure se scampavano, quando il male scendeva nell’intestino e in esso sopraggiungeva una grave ulcerazione e si verificava al tempo stesso una violenta diarrea, i più in seguito perivano a causa sua per la debolezza. Passava infatti attraverso tutto il corpo, avendo cominciato dall’alto, il male che all’inizio si era localizzato nel capo, e se qualcuno fosse sopravvissuto alle conseguenze più gravi, l’affezione lasciava il segno alle sue estremità. Intaccava infatti le parti genitali e le estremità di mani e piedi, e molti riuscirono a scampare pur privi di queste, e alcuni anche degli occhi. Una smemoratezza di ogni cosa colse alcuni, non appena guariti, tale da non riconoscere né se stessi né i familiari». ([…] εἰ δέ τις καὶ προύκαμνέ τι, ἐς τοῦτο πάντα ἀπεκρίθη. τοὺς δὲ ἄλλους ἀπ’ οὐδεμιᾶς προφάσεως, ἀλλ’ ἐξαίφνης ὑγιεῖς ὄντας πρῶτον μὲν τῆς κεφαλῆς θέρμαι ἰσχυραὶ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν ἐρυθήματα καὶ φλόγωσις ἐλάμβανε, καὶ τὰ ἐντός, ἥ τε φάρυγξ καὶ ἡ γλῶσσα, εὐθὺς αἱματώδη ἦν καὶ πνεῦμα ἄτοπον καὶ δυσῶδες ἠφίει· ἔπειτα ἐξ αὐτῶν πταρμὸς καὶ βράγχος ἐπεγίγνετο, καὶ ἐν οὐ πολλῷ χρόνῳ κατέβαινεν ἐς τὰ στήθη ὁ πόνος μετὰ βηχὸς ἰσχυροῦ· καὶ ὁπότε ἐς τὴν καρδίαν στηρίξειεν, ἀνέστρεφέ τε αὐτὴν καὶ ἀποκαθάρσεις χολῆς πᾶσαι ὅσαι ὑπὸ ἰατρῶν ὠνομασμέναι εἰσὶν ἐπῇσαν, καὶ αὗται μετὰ ταλαιπωρίας μεγάλης. λύγξ τε τοῖς πλέοσιν ἐνέπιπτε κενή, σπασμὸν ἐνδιδοῦσα ἰσχυρόν, τοῖς μὲν μετὰ ταῦτα λωφήσαντα, τοῖς δὲ καὶ πολλῷ ὕστερον. καὶ τὸ μὲν ἔξωθεν ἁπτομένῳ σῶμα οὔτ’ ἄγαν θερμὸν ἦν οὔτε χλωρόν, ἀλλ’ ὑπέρυθρον, πελιτνόν, φλυκταίναις μικραῖς καὶ ἕλκεσιν ἐξηνθηκός· τὰ δὲ ἐντὸς οὕτως ἐκάετο ὥστε μήτε τῶν πάνυ λεπτῶν ἱματίων καὶ σινδόνων τὰς ἐπιβολὰς μηδ’ ἄλλο τι ἢ γυμνοὶ ἀνέχεσθαι, ἥδιστά τε ἂν ἐς ὕδωρ ψυχρὸν σφᾶς αὐτοὺς ῥίπτειν. […] καὶ ἐν τῷ ὁμοίῳ καθειστήκει τό τε πλέον καὶ ἔλασσον ποτόν. καὶ ἡ ἀπορία τοῦ μὴ ἡσυχάζειν καὶ ἡ ἀγρυπνία ἐπέκειτο διὰ παντός. καὶ τὸ σῶμα, ὅσονπερ χρόνον καὶ ἡ νόσος ἀκμάζοι, οὐκ ἐμαραίνετο, ἀλλ’ ἀντεῖχε παρὰ δόξαν τῇ ταλαιπωρίᾳ, ὥστε ἢ διεφθείροντο οἱ πλεῖστοι ἐναταῖοι καὶ ἑβδομαῖοι ὑπὸ τοῦ ἐντὸς καύματος, ἔτι ἔχοντές τι δυνάμεως, ἢ εἰ διαφύγοιεν, ἐπικατιόντος τοῦ νοσήματος ἐς τὴν κοιλίαν καὶ ἑλκώσεώς τε αὐτῇ ἰσχυρᾶς ἐγγιγνομένης καὶ διαρροίας ἅμα ἀκράτου ἐπιπιπτούσης οἱ πολλοὶ ὕστερον δι’ αὐτὴν ἀσθενείᾳ διεφθείροντο. διεξῄει γὰρ διὰ παντὸς τοῦ σώματος ἄνωθεν ἀρξάμενον τὸ ἐν τῇ κεφαλῇ πρῶτον ἱδρυθὲν κακόν, καὶ εἴ τις ἐκ τῶν μεγίστων περιγένοιτο, τῶν γε ἀκρωτηρίων ἀντίληψις αὐτοῦ ἐπεσήμαινεν. κατέσκηπτε γὰρ ἐς αἰδοῖα καὶ ἐς ἄκρας χεῖρας καὶ πόδας, καὶ πολλοὶ στερισκόμενοι τούτων διέφευγον, εἰσὶ δ’ οἳ καὶ τῶν ὀφθαλμῶν. τοὺς δὲ καὶ λήθη ἐλάμβανε παραυτίκα ἀναστάντας τῶν πάντων ὁμοίως, καὶ ἠγνόησαν σφᾶς τε αὐτοὺς καὶ τοὺς ἐπιτηδείους).
L’autore aggiunge, poi, che il male non aggredisce due volte la stessa persona e, qualora ciò si verifichi, la ricaduta non è letale.
Tale vastità di sintomi non consente di ricostruire un quadro clinico preciso né qualche testo medico del tempo ci tramanda indicazioni utili; è, possibile, così, purtroppo soltanto avanzare ipotesi: alcuni sostengono che si sia trattato di febbre tifoide, altri hanno identificato la malattia nel vaiolo, altri ancora optano per il tifo esantematico. Non ci fornisce un aiuto la descrizione che ne fa Lucrezio (De rerum natura VII, 1145-1196), riprendendo lo storico greco:
«Da prima avevano il capo bruciante d’arsura, entrambi gli occhi rossi di interna luce diffusa. Trasudava sangue la gola, dentro annerita, ostruita da piaghe si serrava la via della voce, e l’interprete della mente, la lingua, colava umore sanguigno indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto. Poi, quando per le fauci la forza del morbo aveva riempito il petto, affluendo sin dentro al cuore angosciato degli infermi, allora cedevano ormai tutti i serrami della vita. L’alito fuor dalla bocca versava un lezzo greve, come odorano nel disfacimento i cadaveri abbandonati. E subito tutte le forze dell’anima e tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte. Ai mali intollerabili erano assidui compagni un’ansiosa angoscia e un lagno interrotto da gemiti. Spesso un singhiozzo frequente, notte e giorno senza mai sosta costringendoli a contrarre i tendini e le membra, li sfiniva logorandoli, già prima estenuati. Né per troppa arsura avresti notato in alcuno che scottasse la superficie della pelle all’esterno del corpo, ma piuttosto era tiepido il contatto che offriva alle mani; e insieme tutto il corpo rosseggiava di piaghe quasi impresse col ferro rovente, come avviene quando il fuoco sacro si spande per le membra. Ma la parte interna del corpo ardeva fino alle ossa, nello stomaco divampava una fiamma come in una fornace. Nessun indumento, per quanto leggero e sottile, poteva dar ristoro alle membra di alcuno, ma sempre e solo il vento e la frescura. […] E molti altri segni di morte apparivano allora: la coscienza dell’animo offuscata da tristezza e paura, accigliata la fronte, il viso duro e stravolto, inquiete le orecchie e piene di ronzii, frequente il respiro o profondo e interrotto, lucide stille di sudore sparse sul collo, rari sputi minuti, macchiati di colore giallastro e salsi, espulsi a stento per la gola da una tosse rauca. Non cessavano di contrarsi i nervi delle mani, di tremare gli arti, e dai piedi di strisciare su lentamente il freddo. Infine, avvicinandosi il momento supremo, le narici erano compresse, la punta del naso aguzza e sottile, incavati gli occhi, affossate le tempia, fredda e dura la pelle del volto, floscia la bocca aperta, la fronte tesa e gonfia» (Principio caput incensum fervore gerebant/ et duplices oculos suffusa luce rubentis./ Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae / sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat / atque animi interpres manabat lingua cruore / debilitata malis , motu gravis, aspera tactu. / Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum / morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, / omnia tum vero vitai claustra lababant. / Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, / rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. / Atque animi prorsum vires totius (et) omne / languebat corpus leti iam limine in ipso. / Intolerabilibusque malis erat anxius angor / assidue comes et gemitu commixta querela. / Singultusque frequens noctem per saepe diemque / corripere assidue nervos et membra coactans / dissoluebat eos, defessos ante, fatigans. / Nec nimio cuiquam posses ardore tueri / corporis in summo summam fervescere partem, / sed potius tepidum manibus proponere tactum / et simul ulceribus quasi inustis omne rubere / corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis. / Intima pars hominum vero flagrabat ad ossa, / flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus. / Nil adeo posses cuiquam leve tenveque membris / vertere in utilitatem, at ventum et frigora semper. / […] Multaque praeterea mortis tum signa dabantur, / perturbata animi mens in maerore metuque, / triste supercilium, furiosus vultus et acer, / sollicitae porro plenaeque sonoribus aures, / creber spiritus aut ingens raroque coortus, / sudorisquem adens per collum splendidus umor, / tenvia sputa minuta, croci contacta colore / salsaque, per fauces rauca vix edita tussi. / In manibus vero nervi trahere et tremere artus / a pedibusque minutatim succedere frigus / non dubitabat. Item ad supremum denique tempus / compressae nares, nasi primoris acumen / tenve, cavati oculi, cava tempora, frigida pellis / duraque in ore, iacens rictum, frons tenta tumebat. / Nec nimio rigida post artus morte iacebant).
Certo è, in ogni caso, che tale male, non essendosi mai presentato prima, è sconosciuto ai medici dell’epoca, che periscono essi stessi nell’assistere i pazienti senza poter fornir alcun aiuto.
Peste di Atene: conseguenze sociali e politiche
Esposti i segni fisici della malattia, entrambe le fonti passano poi a raccontare quelli psicologici, che si presentano altrettanto gravi. Il crescente aumento dei contagi fa precipitare i malati e l’intera popolazione in uno stato di panico, causando disgregazione sociale, perdita dei freni morali e una condotta indifferente alle leggi umane e divine. Gli Ateniesi, infatti, prostrati nello spirito anche a causa dell’inutilità dei rimedi tentati, stravolgono le norme riguardanti i riti funebri, a volte non seppellendo neppure i cadaveri oppure ammucchiandoli nei santuari.
Capita che, mentre un corpo esanime arde sulla pira, qualcuno vi getti sopra quello del proprio defunto; i morti abbandonati per strada diventano cibo per cani e uccelli che poi muoiono a causa delle tossine dei corpi infetti mangiati. Soprattutto si va alla ricerca di piaceri rapidi e concreti senza farsi scrupolo di commettere azioni irrispettose verso gli altri o sacrileghe, convinti di morire per mano del morbo prima di essere condannati dalla giustizia. La constatazione, inoltre, che la malattia coglie tutti indistintamente favorisce la convinzione che non vi sia alcuna differenza tra l’essere pii e religiosi e il non esserlo. Ogni finalità comune viene accantonata per perseguire la propria soddisfazione egoistica. Appare, dunque, questo il dato più significativo da rilevare: di fronte all’incombenza della morte, l’istinto di sopravvivenza fa crollare istituzioni e regole di vita che, sostenute da una lunga tradizione, sembrano molto salde.
Non sono, tuttavia, di minore rilievo le conseguenze che lo scoppio del contagio ha in campo politico: cade vittima del morbo anche l’uomo che in quel momento guida la polis, Pericle, dopo essere stato colpito da vari lutti familiari. Muore, infatti, sua sorella e i suoi due figli legittimi Santippo e Paralo; sopravvive unicamente il terzogenito, Pericle il giovane, che al tempo ha dieci anni. Il vuoto di potere venutosi a creare con la morte dello stratego determina lo scontro tra due opposte fazioni: quella conservatrice moderata e quella radicale guerrafondaia, rappresentate rispettivamente da Nicia e da Cleone. È quest’ultimo ad avere la meglio, segnando l’inizio, secondo la tradizione, alla degenerazione politica di Atene.
Cause della malattia
Meritano una riflessione, infine, le pagine che Tucidide dedica alla spiegazione delle cause della diffusione del morbo. Egli, infatti, respinge la diceria degli abitanti del Pireo che accusano i Peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi e ci informa che
«[il male] incominciò, a quel che si dice, dall’Etiopia, al di là dell’Egitto, poi scese anche in Egitto, in Libia e nella maggior parte del territorio del Re. Nella città di Atene piombò all’improvviso e dapprima contagiò gli uomini che abitavano al Pireo. […] Successivamente giunse anche nella parte alta della città, e da quel momento ne morivano molti di più» (Storie II, 48) (ἤρξατο δὲ τὸ μὲν πρῶτον, ὡς λέγεται, ἐξ Αἰθιοπίας τῆς ὑπὲρ Αἰγύπτου, ἔπειτα δὲ καὶ ἐς Αἴγυπτον καὶ Λιβύην κατέβη καὶ ἐς τὴν βασιλέως γῆν τὴν πολλήν. ἐς δὲ τὴν Ἀθηναίων πόλιν ἐξαπιναίως ἐσέπεσε, καὶ τὸ πρῶτον ἐν τῷ Πειραιεῖ ἥψατο τῶν ἀνθρώπων […]. ὕστερον δὲ καὶ ἐς τὴν ἄνω πόλιν ἀφίκετο, καὶ ἔθνῃσκον πολλῷ μᾶλλον ἤδη).
L’analisi del brano richiede una breve precisazione: presso i Greci il termine “Etiopia” indica genericamente l’estremo meridione della Terra abitato da gente dalla “faccia bruciata”, ossia dalla pelle scura; Tucidide, invece, lo usa qui per riferirsi all’Etiopia propriamente detta. Occorre sottolineare, in generale, soprattutto il metodo razionale che contraddistingue l’approccio dello scrittore, con la speranza che diventi sempre connotativo di coloro che si trovano a disquisire di pandemie.
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- C. Geddes da Filicaia-M. Geddes da Filicaia, Peste. Il flagello di Dio fra letteratura e scienza, Firenze, Edizioni Polistampa, 2015
- Mastroianni, Verrà la guerra e la peste con lei. La peste di Atene e la fine di una democrazia, Roma, Efesto, 2020