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La fondazione del Partito popolare italiano
Il 18 gennaio 1919, nasce il Partito popolare italiano, tra i fondatori don Luigi Sturzo insieme a Giovanni Bertini, Giovanni Longinotti, Achille Grandi, Angelo Mauri, Remo Vigorelli e Giulio Rodinò con il consenso della Santa Sede.
L’atto sancisce l’ingresso massiccio dei cattolici, in quanto gruppo politico, nella vita politica italiana dopo le esperienze di partecipazione individuale alle elezioni del 1904 e del 1913 (patto Gentiloni) e dopo lunghi decenni di assenza a causa del non expedit di Pio IX conseguente alle vicende dell’unificazione nazionale.
Il partito, che non può designarsi ufficialmente come partito dei cattolici, per non immischiare la Santa Sede nelle vicende di politica interna, si dichiara “laico, aconfessionale, costituzionale e non classista”: sono questi i pilastri su cui si fonda il Ppi secondo lo spirito della dottrina sociale della Chiesa.
In realtà il partito è legato al mondo cattolico e alle sue strutture organizzative. La sua stessa nascita è possibile grazie al nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal Papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di arginare la minaccia socialista. Nelle file del Partito Popolare Italiano inoltre confluiscono, accanto agli eredi della democrazia cristiana di Romolo Murri e ai capi delle leghe bianche, schierati su posizioni avanzate, anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate che avevano guidato il movimento cattolico nell’anteguerra.
Il programma del Partito popolare italiano
Il programma del Partito popolare si propone da un lato di trasformare le strutture invecchiate del regime liberale e dall’altro di contrastare la crescita del socialismo. Il suo obiettivo è quello di differenziarsi sia dai socialisti, dei quali non accetta la critica alla proprietà privata e la visione conflittuale tra classi sociali, sia dai liberali, ai quali rimprovera la scarsa attenzione alla questione del decentramento del potere politico e il disinteresse per le condizioni di vita precarie di molti lavoratori.
Con il manifesto di fondazione, denominato “Appello ai liberi e forti”, don Sturzo, nominato segretario del partito, si rivolge:
A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà.
e auspica che la Società delle Nazioni:
- riconosca le giuste aspirazioni nazionali;
- affretti l’avvento del disarmo universale;
- abolisca il segreto dei trattati;
- attui la libertà dei mari;
- propugni nei rapporti internazionali la legislazione sociale;
- propugni l’uguaglianza del lavoro;
- propugni le libertà religiose contro ogni oppressione;
- abbia la forza della sanzione e i mezzi per la tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffattrici dei forti.
In politica interna, premessa la necessità della tutela della famiglia, dell’infanzia e della moralità pubblica rivendica:
- il riconoscimento giuridico;
- la libertà dell’organizzazione di classe nell’unità sindacale;
- l’attuazione di una legislazione sociale nazionale;
In ambito amministrativo sostiene la libertà e l’autonomia degli enti pubblici locali e la riforma fiscale, in ambito istituzionale l’introduzione del sistema proporzionale.
L’emblema scelto dal partito, conservato, poi, dalla Democrazia cristiana, è lo Scudo Crociato con il motto Libertas, rappresentante da un lato la difesa dei valori cristiani dall’altro il legame con i Liberi Comuni medievali italiani, da qui il forte impegno per il decentramento amministrativo ed uno Stato più snello.
L’ingresso nel governo Mussolini
Alle elezioni del 16 novembre 1919, le prime dopo la riforma elettorale in senso proporzionale, il PPI si presenta per la prima volta. Il nuovo partito raccoglie il 20,5% dei voti, cioè 1.167.354 preferenze, e ottiene 100 deputati, dimostrando di essere una forza indispensabile per la formazione di qualsiasi governo. Alle elezioni del 15 maggio 1921 il Ppi conferma la sua forza elettorale con il 20,4% dei voti e 108 deputati.
Mentre la violenza fascista colpisce le organizzazioni sindacali e politiche del Ppi e Pio XI sale al soglio pontificio, il partito perde progressivamente capacità di iniziativa. Dopo la marcia su Roma, per frenare l’irrompere dello squadrismo fascista e l’azione di asservimento dello Stato da parte del partito fascista e nell’illusione di una normalizzazione, il Ppi accetta di entrare a far parte del governo Mussolini. Il parere di don Sturzo è contrario, in quanto si esprime invece a favore di una collaborazione con i socialisti proprio in chiave antifascista.
Dopo la salita al potere del fascismo, alcuni suoi rappresentanti accettano di sostenere il primo governo Mussolini: Vincenzo Tangorra è nominato ministro del Tesoro e Stefano Cavazzoni ministro del Lavoro e Previdenza Sociale. Nel partito si assiste, con espulsioni e migrazioni verso il Partito nazionale fascista, al contrasto tra due correnti: quella di sinistra, contraria ad accordarsi con il governo, e quella di destra, favorevole alla collaborazione.
Lo scioglimento del Partito popolare italiano
Il capo del fascismo coglie l’occasione anche per dare inizio a una dura campagna contro il ‘sinistro prete’, presentando Sturzo come un ostacolo alla soluzione della Questione romana. Mussolini, infatti, cerca in tutti i modi di far credere alle gerarchie vaticane che Sturzo costituisca un vero e proprio pericolo per l’incolumità dello Stato e la politica di avvicinamento tra i fascisti e il Vaticano.
Alla fine di questa campagna e a causa delle divisioni nel partito, il 10 luglio del 1923 il prete di Caltagirone decide di dimettersi da segretario del partito e viene invitato dai vertici della Santa Sede a ritirarsi dall’attività politica. Dunque prende rapidamente la decisione di lasciare l’Italia e recarsi a Londra, cercando di accettare quanto sostanzialmente gli viene richiesto: almeno per qualche tempo deve togliere l’impaccio che la sua persona costituisce, con la sua forte, ingombrante, e significativa presenza, nelle relazioni tra il nascente regime fascista e la Chiesa cattolica. Da lì a poco le gerarchie ecclesiastiche si avvicinano sempre più al fascismo, emarginando costantemente il Partito popolare.
Nelle elezioni del 6 aprile 1924, svoltesi in un clima di violenze e brogli elettorali perpetrati dai fascisti, il Partito popolare riesce comunque ad ottenere il 9,0% dei voti e 39 deputati e diviene il primo tra i partiti non-fascisti. Visto vano ogni tentativo di impedire l’instaurazione della dittatura, dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, il Ppi (dal maggio 1924 guidato da Alcide De Gasperi), contro la volontà delle gerarchie ecclesiastiche, partecipa alla secessione dell’Aventino e passa all’opposizione.
Con il delinearsi del regime totalitario e la soppressione delle libertà civili, gli spazi politici del Partito popolare si riducono rapidamente fino al 9 novembre 1926 quando viene forzatamente sciolto. Tutti i maggiori esponenti sono costretti all’esilio (don Sturzo, Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari) o a ritirarsi dalla vita politica e sociale (Alcide De Gasperi).