CONTENUTO
Il vinto si fa vincitore
Pio VII, prim’ancora di essere un monarca assoluto, è un prete. E come tale pensa: il Papa (poco importa se è lui) deve tutelare, a ogni costo, gl’interessi della Chiesa, anche e soprattutto verso Napoleone Bonaparte, al punto tale da fargli credere di essere un debole, un agnello pronto per essere immolato; ma l’agnello si trasforma in un uomo politico accorto, in grado di fare concessioni per non provocare lo scisma della Chiesa di Francia; accetta, addirittura, di umiliare la sua persona, andando a Parigi per l’incoronazione.
Pio VII è un Papa dell’Ottocento, il primo moderno, lontano anni luce dai suoi predecessori. Regna per 23 anni: dal 1800 al 1823; sa dar prova di buona amministrazione degli Stati della Chiesa e nella fase della restaurazione, con intelligenza e acume, tiene in piedi ciò che di buono la ventata rivoluzionaria aveva portato. Le novità rivoluzionarie non lasceranno più nulla come prima: il popolo italiano, seppur a fatica e nelle sole classi agiate, comprende che la Penisola ha necessità di un’entità statale unitaria, di essere liberata dal giogo straniero, insomma di autodeterminarsi.
In cuor suo Pio VII inizia a comprendere che il potere temporale non sarà eterno come quello spirituale, perché, più che un vantaggio, è un peso che limita l’azione pastorale, che mina l’autorità del Papa. Lo comprende appieno quando è spogliato di ciò; quando, prigioniero, Napoleone lo sposta da un luogo a un altro, come una trottola, riservandogli umiliazioni su umiliazioni, ma dandogli, nel contempo, la gioia dei bagni di folla che i popoli italiano e francese gli tributano. Pio VII è il vinto che si fa vincitore!
Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti (1742 – 1823)
Barnaba Chiaramonti nasce a Cesena il 14 agosto 1742 in una nobile, ma modesta, famiglia (il padre era un conte e la madre una marchesa). Dopo gli studi presso i gesuiti a Ravenna, a quattordici anni, entra nell’Ordine dei benedettini. A ventitré è ordinato sacerdote; successivamente è professore di teologia presso i monasteri di Parma e di Roma.
Il suo concittadino Papa (Pio VI) lo nomina priore di San Paolo fuori le mura e abate di San Callisto in Roma e nel 1782 lo assegna alla sede vescovile di Tivoli, dove si dimostra un bravo pastore, attento alle prescrizioni del Concilio di Trento. Il 14 febbraio 1785, a quarantadue anni, è creato cardinale e destinato alla sede di Imola, dove vi rimane per quindici anni, sino all’elezione a Sommo Pontefice.
Il contesto storico italiano
Mentre è vescovo d’Imola scoppia la Rivoluzione francese, il cui influsso, in Italia è, inizialmente, soltanto ideologico e limitato alla sparuta pattuglia degli intellettuali, gli unici in grado d’intenderne i motivi (la Rivoluzione, malgrado certe sue venature proletarie e socialiste, è di fatto essenzialmente borghese). Ma nel 1796 le idee si trasformano in baionette: l’assetto politico dell’Italia è messo a soqquadro. Si aprono vent’anni di dominio francese sulla Penisola. L’Italia, di fatto, è una preda!
La comparsa di Napoleone rimescola l’assetto degli Stati italiani, i quali, da un secolo, non hanno traumi: i Savoia regnano sul Piemonte e sulla Sardegna; la Lombardia è una provincia dell’Austria; il Veneto, le Venezie, l’Istria e la Dalmazia sono possessi della Serenissima Repubblica di Venezia; a sud del Po sopravvivono i ducati di Parma e Piacenza sotto i Borbone, nonché quelli di Modena e Reggio sotto gli Este; più a sud si trovano le legazioni pontificie di Ferrara e Bologna, punta avanzata degli Stati della Chiesa che inglobano Romagna, Marche, Umbria e Lazio; la Toscana è nel Granducato dei Lorena, con l’eccezione di Lucca che fa repubblica a sé; dall’Abruzzo in giù sopravvivono i regni di Napoli e della Sicilia, sotto i Borbone.
La padrona effettiva dell’Italia è l’Austria, la quale governa, direttamente, la Lombardia, e, indirettamente, la Toscana (il Granduca è il fratello dell’Imperatore): insomma, gli Stati italiani sono patrimonio personale delle corone europee, (i cadetti di queste ne sono i sovrani) e laddove vige un regime repubblicano il potere s’incarna in un piccolo gruppo di uomini o di famiglie che lo esercitano come loro esclusivo monopolio.
La rivoluzione subita
Gl’italiani subiscono la Rivoluzione; è un evento loro estraneo, le aspettative sono altre; è un fatto prodotto da cause esterne, indomabili, incomprensibili, a tratti non condivise. Ma ciò dà il leva agli eventi successivi, alla rivoluzione italiana che chiamiamo Risorgimento e che gl’italiani vivranno, finalmente, da protagonisti, assumendo un atteggiamento attivo, segno del raggiungimento di identità civica, politica e nazionale. La Rivoluzione francese, in Italia portata da Napoleone, è sconvolgente! Nulla sarà più come prima.
Pressione fiscale insostenibile e servizio militare obbligatorio
Il nuovo assetto statale portato dai francesi è pesante: l’aumento della pressione fiscale, dovuto sia alle contingenti guerre che si prolungano per tutto il periodo napoleonico, sia al fatto che il nuovo modello di Stato richiede un livello di tassazione più alto per sostenere l’intenso intervento delle istituzioni nella vita del territorio, è insostenibile. Le esigenze dell’apparato militari sono pesanti e crescenti e consistono sia nel mantenimento delle truppe d’occupazione sia nel servizio agli eserciti napoleonici impegnati in tutto il continente.
E poiché per fare le guerre servono soldati, molti uomini sono obbligati a prestare il servizio militare. Dagli elenchi degli arruolabili vengono periodicamente estratti a sorte, in ogni comune, i futuri soldati, i quali possono tentare di evitare l’arruolamento presentando un sostituto che, però, deve essere convinto a questo sacrificio con una congrua offerta economica, possibile solo a famiglie abbienti. Il servizio militare napoleonico è una corvée pesante e sgradita, soprattutto alle masse popolari; e, per la negatività che presenta, induce molti a darsi alla macchia per evitare di partire.
Il Direttorio al cittadino Generale: «Saccheggiare l’Italia!»
L’Italia è abituata a far da «premio al vincitore» come diceva Voltaire. E lo è anche durante l’occupazione – l’ennesima – dei francesi. Si riporta un messaggio che il Direttorio manda a Napoleone esortandolo a saccheggiare le opere d’arte italiane. Il Generale obbedisce con massimo zelo. Da questi tesori trafugati nascono non poche collezioni che a tutt’oggi arricchiscono il Louvre.
«Cittadino generale, il Direttorio esecutivo è convinto che per voi la gloria delle belle arti e quella dell’armata ai vostri ordini siano inscindibili. L’Italia deve all’arte la maggior parte delle sue ricchezze e della sua fama; ma è venuto il momento di trasferirne il regno in Francia, per consolidare e abbellire il regno della libertà. Il Museo nazionale deve racchiudere tutti i più celebri monumenti artistici, e voi non mancherete di arricchirlo di quelli che esso si attende dalle attuali conquiste dell’armata d’Italia. Questa gloriosa campagna, oltre a porre la Repubblica in grado di offrire la pace ai propri nemici, deve riparare le vandaliche devastazioni interne sommando allo splendore dei trofei militari l’incanto consolante e benefico dell’arte.
Il Direttorio esecutivo vi esorta pertanto a cercare, riunire e far portare a Parigi tutti i più preziosi oggetti di questo genere, e a dare ordini precisi per l’illuminata esecuzione di tali disposizioni. Non si potrebbe asportare la Santa Casa (ossia la Casa della Madonna di Loreto che Napoleone non asportò per paura di una sollevazione popolare) e i tesori accumulativi in quindici secoli di superstizione? Si dice che valgano dieci milioni di sterline. Fareste un’ottima operazione finanziaria, che danneggerebbe soltanto pochi frati».
Ma non tutto fila sempre liscio: un caso di sollevazione avviene a Venezia. Quando vi arrivarono, i francesi requisirono molte opere d’arte, cercano di portarsi via i cavalli di bronzo di San Marco, però, devono fronteggiare la popolazione della città, insorta in difesa delle statue, simbolo della propria passata grandezza. Il particolare da notare è che i cavalli a loro volta sono il frutto di un saccheggio, quello compiuto a Costantinopoli.
I francesi a Roma e il peregrinare di Pio VI, il papa della dignità
Nel 1798, l’Italia, per il Direttorio, è terra di saccheggio; non ne è esente nemmeno la Roma papale, anzi…A fornire il pretesto dell’aggressione dello Stato pontificio è l’avversione per la Francia. La conquista, secondo i rivoluzionari, dovrebbe essere una passeggiata (i francesi, guidati da Berthier, secondo i piani, non devono usare violenza al Papa; devono solo aspettare che il popolo romano lo scarichi). Ma passeggiata non è, perché il popolo romano ben se si guarda dallo scaricare Pio VI.
Nel novembre del ’98, quindi, Berthier scrive a Napoleone «in questa città non ho trovato che costernazione, nessuna traccia di spirito libertario; non un patriota è venuto a visitarmi». I romani simpatizzanti con la Rivoluzione vogliono, sì, che il Papa perda il potere temporale, ma non quello spirituale, ben consci che la Chiesa è l’unica industria di Roma; questo, però, contrasta con gli ordini che provengono da Parigi. Allora, Berthier ingiunge al Papa di lasciare Roma entro tre giorni. Papa Braschi è un signore rinascimentale, che sino a quel momento aveva ben governato gli Stati della Chiesa; alla soglia degli ottant’anni e dopo ventitré di soglio, però, non è più nelle forze di lottare, di contrastare i rivoluzionari.
Se ne andrà in punta di piedi, con grande dignità. Il suo orgoglio è messo a dura prova dai rifiuti che incontrano le sue domande d’asilo: per quanto si fregino del titolo di cattolici, né l’Imperatore d’Austria né il Re di Napoli accettano di ospitarlo; solo il Granduca di Toscana gli permette di accasarsi a Siena, ma con il divieto di avvicinarsi a Firenze (pover’uomo!). Da Siena viene scacciato, però, da un terremoto che distrugge il monastero che l’ospita.
Allora, il Granduca gli permette di trasferirsi alla Certosa di Firenze, ma vietandogli di entrare in città. Pio VI, sentendosi mal sopportato, si trasferisce a Parma. Ormai vecchio, mezzo paralizzato e soprattutto completamente solo (anche suo nipote, il duca Braschi viene arrestato e rimpatriato) decide di consegnarsi ai francesi. Senza seguito, quasi incosciente, si mette in viaggio e attraversa le Alpi.
La gente (non aveva mai visto, di persona, un Papa), al suo passaggio, si ammassa in strada per ammirarlo, s’inginocchia, manifesta un amore grande per la Chiesa e il suo Capo in terra. Da Briancon, dove è accolto con il titolo di Cittadino Papa, è trasferito a Grenoble e, poi, a Valence-sur-Rhône, ove la morte lo coglie il 29 agosto 1799: è la fine del Calvario!
L’elezione di Pio VII
Il clima giacobino dominava tutta l’Italia. A Roma, il nuovo Governo brancolava nel buio, sopraffatto dalle difficoltà, soprattutto economiche. Il Generale Berthier viene raggiunto dall’esattore Haller, il quale, non trovando più come spremere i cittadini della Repubblica Cisalpina, saccheggia l’Urbe per raccattare soldi, non solo per il Direttorio, ma anche per le proprie tasche.
Il Vaticano, quindi, è svuotato persino dei suo mobili. Gli stessi ufficiali francesi ne sono disgustati. Il popolo romano, vedendo i francesi divisi, ritorno a gridare: «W il Papa!». Sono gli anni degli arricchimenti sorprendenti, il Sommariva a Sant’Angelo Lodigiano, i Torlonia a Roma e via elencando. Il Generale francese Brune annota: «Tutti, di qualsiasi partito e opinione, concordano nel dire che mai, in nessuna epoca e in nessun luogo, la ruberia ha raggiunto le vette d’imprudenza che nella Repubblica Romana».
In questo clima, alla fine del 1799, a Venezia, dove quasi tutto il Collegio cardinalizio si è stabilito, sotto la protezione dell’Imperatore Francesco d’Austria, si riunisce il Conclave per eleggere il successore di Pio VI, morto qualche mese prima. L’Imperatore pone il veto per l’elezione di cardinali originari della Francia, della Spagna, di Napoli, di Genova e del Regno di Sardegna. Inizialmente, senza trovare una soluzione, si registra il classico scontro tra moderati e tradizionalisti. Per togliere lo stallo, l’Imperatore, il 12 dicembre, dà delle istruzioni ben precise, come al solito, disattese: vuole l’elezione del cardinale romano Mattei!
L’impasse, che dura ormai da tempo, si sblocca il 14 marzo del 1800, quando, dopo sette mesi di sede vacante, è eletto, all’unanimità, il cardinale benedettino Barnaba Chiaramonti, il quale assume il nome Pio, il VII, in onore del suo predecessore e concittadino, Papa Braschi. E’ il 250° successore dell’apostolo Pietro.
Il papa del dialogo tra Cristianesimo e Democrazia rivoluzionaria
La scelta cade sul Chiaramonti poiché non compromesso politicamente (con molta probabilità i cardinali ricordarono il discorso tenuto dal vescovo di Imola il Natale del 1797 in cui, non solo non stigmatizzò il nuovo regime napoleonico, ma si mostrò disposto al dialogo; intervento, come sottolineato negli studi dello storico Mario Rosa, nel quale si intravede la ricerca di un punto di incontro tra «cristianesimo e democrazia rivoluzionaria».
E’ forse per questo incontro tra cristianesimo e Rivoluzione che l’Imperatore non gradisce la sua elevazione al soglio pontificio, tanto che l’incoronazione non si tiene in San Marco, ma nella chiesa di San Giorgio Maggiore, il 21 marzo. Lo sgarbo della mancata concessione della basilica di San Marco lascia il segno: è il preludio dei tempi difficili che il nuovo Papa deve affrontare, schiacciato, da un lato, dai francesi con alla testa il Generale Napoleone, dall’altro dall’Imperatore d’Austria il quale voleva un suo cardinale come successore di Papa Braschi.
La firma del Concordato
Napoleone, quando torna in Italia, reduce dalla campagna d’Egitto, è Primo console (siamo nel 1800) e, in cuor suo, ha già il progetto di farsi imperatore, ma per realizzarlo ha bisogno dell’appoggio delle forze conservatrice, tra cui quello della Chiesa: questo lo pone in una posizione diversa verso il nuovo Papa, al quale non restituisce le legazioni di Bologna e Ferrara, parte integrande della Repubblica Cisalpina, ma nemmeno occupa il resto degli Stati della Chiesa.
Propone, anzi, un concordato per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa. Per Pio VII questa richiesta è un atto indigesto, perché, oltre ad essere imposto, contiene norme irricevibili, tra le quali, per citarne solo una, il giuramento imposto ai sacerdoti i quali sarebbero stati considerati dei semplici funzionari di Stato. Insomma, Napoleone voleva creare una Chiesa nazionale, la c.d. Chiesa gallicana.
Per Pio VII è importante regolarizzazione gli affari religiosi con la Francia, primo Paese della cattolicità in Europa, il quale, da un decennio, sta rivoluzionando il Continente attraverso la persecuzione della la Chiesa con l’esilio migliaia di ecclesiastici e di religiosi. Lo scopo è quello di estirpare la Fede e le pratiche religiose dal popolo, il quale deve essere educato ai principi della Rivoluzione francese.
La trattativa non è facile; dura mesi; per farla progredire Napoleone usa minacce e alla fine lancia un ultimatum: entro cinque giorni la curia deve decidere se firmare o no. Napoleone è all’apice della notorietà e del successo: l’Austria è cacciata dalla Penisola, l’Inghilterra sta per firmare la pace di Amiens con la Francia: il Papa, quindi, è solo, non può contare su nessuno.
Alla fine il Concordato è firmato il 19 marzo del 1801 dal Segretario di Stato, il cardinal Consalvi. È un atto che permette il riconoscimento formale del cattolicesimo in Francia e, soprattutto, apre le porte all’incoronazione, nel 1804, di Napoleone nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi.
Permette, inoltre, di far tornare dalla Francia, in Vaticano, il corpo di Pio VI, al quale vengono assicurati i dovuti funerali, solennemente presieduti da Pio VII: evento unico quello di un Papa regnante che celebra i funerali del predecessore, rimasto tale sino al recente funerale di Benedetto XVI, presieduto, nel gennaio del 2023, da Papa Francesco.
Non tutti sono d’accordo con la firma del concordato. Pasqualino con questi versi
«Un Pio perdé la sede
Per conservar la fede;
un Pio perdé la fede
per conservar la sede.»
accusa il Papa di una condotta piegata ai voleri della Francia, in netta contrapposizione con il predecessore.
L’errore di giudizio di Napoleone su Pio VII
Napoleone crede, così, di aver messo il Papa con le spalle al muro; crede di avere un interlocutore docile, debole. Ma non è così: Pio VII non è di certo un Pontefice carismatico, non è un politico; alla guerra, anche diplomatica, preferisce la preghiera (ama definirsi «Vicario del Dio della pace»), è, insomma, un prete a tutto tondo.
Il suo aspetto fisico (minuto, occhi incavati nel volto ossuto) lo dimostra: non poteva che fare il prete. Lo è fino al midollo: prima l’interesse della Chiesa di Cristo, poi tutto il resto. Questo Napoleone non lo comprende. Non ascolta nemmeno il suo ambasciatore presso la Santa Sede, Cacault, il quale cerca di spiegarglielo. Così facendo ottiene di essere sostituito con Fesch (è il classico momento in cui l’onnipotenza data dal potere tappa le orecchie dell’ascolto di chi lo detiene).
La benedizione a Napoleone Imperatore
Il 18 maggio del 1804, si tiene il plebiscito che proclama Napoleone Imperatore. Dieci giorni prima, Bonaparte aveva accennato al legato pontificio in Francia, il cardinale Caprara, del desiderio di farsi incoronare direttamente dal Papa. Il Caprara avvisa la Santa Sede suggerendo una risposta favorevole. La trattativa non è semplice, s’incaglia più volte. Pio VII è angosciato: ha paura di provocare, con un rifiuto, lo scisma della Chiesa di Francia. Il timore è fondato: Napoleone è all’apice del successo, non ha rivali in Europa. Dopo lo scisma d’Inghilterra, Pio VII non vuole essere il Papa di quello di Francia.
Il 2 novembre del 1804, si decide a partire. Il viaggio è penoso: alcuni prelati, anziani, muoiono durante il viaggio. Dopo tre settimane di diligenza, nella foresta di Fontainebleau, avviene l’incontro con il futuro Imperatore che la propaganda spaccia come fortuito, quando invece è accuratamente studiato e pianificato
L’incoronazione di Napoleone avviene il 2 dicembre del 1804. Non una vera incoronazione, ma una benedizione, perché il novello Imperatore decide di porsi la corona sulla testa con le proprie mani, dopo la benedizione di Pio VII. Un gesto teatrale ben studiato! Il Papa rimane in Francia (ospite di Napoleone?) per cinque mesi. Ottiene il permesso di tornare a Roma nell’aprile del 1805. Al suo arrivo trova diversi doni dell’Imperatore: una preziosa tiara, otto arazzi, due tappeti e due candelabri.
Pietro contro Cesare: «Non esiste un imperatore di Roma»
Incoraggiato dalle continue vittorie e conquiste contro Austria, Prussia e Russia, Napoleone sviluppa una politica aggressiva anche contro l’Inghilterra. Considera la Penisola l’anello debole dei suoi domini a causa della presenza del Papa che cerca di infastidire con l’introduzione del Codice civile francese, comprensivo di divorzio, nel Regno d’Italia.
Non solo: Napoleone fa occupare il porto di Ancona, piazzaforte delle Marche e il 15 febbraio del 1806 ordina all’esercito di dirigersi verso Napoli, attraversando, senza autorizzazione, lo Stato pontificio, con lo scopo di cacciare i Borboni e insediare come sovrano suo cognato Murat. Occupa anche il porto pontificio di Civitavecchia e chiede al Papa di espellere i funzionari inglesi, russi e sardi. I due principali porti papali sono occupati da Napoleone: così facendo è scongiurato il rischio che gl’inglesi possano sbarcarvi.
Pio VII protesta e scrive una lettera dai toni accesi. Napoleone non si aspetta la reazione, la considera una pugnalata alle spalle. Così risponde: «I nostri rapporti devono basarsi sul fatto che Vostra Santità mi deve, nel campo temporale, gli stessi riguardi che io ho per Essa nel campo spirituale. Vostra Santità è sovrana di Roma, ma io ne sono l’Imperatore». Al che il Papa ribatte: «Non esiste un Imperatore che abbia diritti su Roma… Non esiste un Imperatore di Roma».
L’annessione di Roma
Nel 1808, Napoleone ordina al Generale Miollis di muovere le sue truppe su Roma per occuparla. Deve essere un’occupazione momentanea per indurre Pio VII a un atteggiamento più mite. I romani hanno un atteggiamento canzonatorio (come al solito) che permette di contestare l’occupazione, ma senza compromettersi. Questi versi rivolti a Napoleone lo dimostrano chiaramente:
«Ma Santo Padre, in cosa abbiam peccato?
Voi l’avente unto e noi l’abbiam leccato.»
Il 17 maggio 1809, Napoleone annette all’Impero ciò che rimane dello Stato Pontificio (Umbria e Lazio). Memorabili sono le parole lapidarie pronunciate dal Quirinale, ormai in mano ai francesi, con le quali Pio VII definisce il sopruso: «Non debemus, non possumus, non volumus» (non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo).
Il decreto emesso da Napoleone da Vienna intende parlare al Papa in un linguaggio curiale per impartirgli insegnamenti sulle faccende del cielo. Oltre a queste, in sintesi, lo Stato papale è soppresso, i territori annessi all’Impero, al Papa vengono lasciati solo i suoi palazzi con garanzia di immunità e una rendita di due milioni l’anno. Il 10 giugno, fra le salve di cannone, la bandiera pontificia viene ammainata su Castel Sant’Angelo e sostituita dal tricolore francese. Lo stesso giorno il Papa emana la bolla di scomunica dei responsabili indirizzata a «qualunque sia l’onore dell’alta dignità cui sono investiti». Napoleone non è citato, ma è chiaro a chi è rivolto l’anatema!
Il governo francese, negli anni dell’occupazione di Roma, è attento. Secondo le indicazioni di Pio VI, prima, Pio VII, poi, continua il prosciugamento delle paludi pontine, rivede l’organizzazione amministrativa e finanziaria dello Stato; il debito pubblico è liquidato, seppur con metodologie discutibili; molti edifici e monumenti vengono restaurati. Non ci sono rivolte, ma da parte dei romani vi è un boicottaggio concretizzato con inerzia, ostilità silenziosa e le solite affissioni alla statua di Pasquino. Roma non mostra l’orgoglio di essere la seconda capitale dell’Impero, anzi…
L’esilio del «Buon uomo» diventato «pazzo furioso»
Napoleone è indignato con Pio VII: dal «buon uomo» non se l’aspettava. Furibondo scrive a Miollis: «Non bisogna avere più riguardi: questo pazzo furioso va rinchiuso». Nella notte fra il 5 e il 6 luglio, un drappello di soldati comandati da capo dei gendarmi Radet si reca al Quirinale con lo scopo di prendere in consegna il Papa. Trovandolo chiuso, con l’ausilio dei fabbri, Radet dà ordine di scassinare ben quattordici serrature, quante ne servono per raggiungere l’appartamento papale.
Quando i francesi sono al cospetto del Papa lo trovano cadaverico, ma nobile nell’atteggiamento: indossa gli abiti da Sommo Pontefice (veste bianca, stola papale, croce pettorale d’oro). Radet intima a Pio VII di rinunciare al potere temporale: il Papa si rifiuta. Per questo lo arresta. Il Papa non oppone resistenza; quando è in mezzo alla truppa che presidia il cortile, la benedice. Poi sale in carrozza: inizia l’esilio dal Sommo Pontefice, prima a Savona (1809-1812), poi a Fointainebleau (1812-1814) e, infine, ancora a Savona, nel 1814.
Napoleone, per il governo di Roma, lascia, con il titolo di Luogotenente, il Generale Miollis, dal quale dipendono i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno, cioè il Lazio e l’Umbria; il resto degli Stati della Chiesa sono annessi al Regno Italico.
L’inizio della fine
Con l’esilio del «buon uomo», Napoleone crede di aver risolto una volta per tutte i problemi con la Chiesa. Ma è l’inizio della fine. Non si accorge che la Chiesa non è un regno convenzionale: senza il Papa chi provvederà a nominare i vescovi delle diocesi vacanti?
Semplice: può provvedervi lui. Ma vescovi e preti rispondono solo al Papa, di certo non a Napoleone. L’Imperatore, quindi, propone al Sacro Collegio di ratificare le sue nomine vescovili. Il Sacro Collegio non può farlo e allora si rivolge al Papa, ma quest’ultimo è internato a Savona. Il Papa fa sapere al Collegio cardinalizio che non può provvedervi, perché non è un uomo libero: nega la ratifica. Napoleone va avanti lo stesso: nomina i vescovi delle sedi vacanti. Firenze e Asti, tra le tante, rifiutano di accogliere i vescovi nominati dall’Imperatore, fioccano così i primi arresti di sacerdoti.
Le resistenze arrivano dal basso come dall’alto clero: quando a dodici vescovi dell’Umbria è imposto il giuramento all’Imperatore, nove lo rifiutano. Ma l’opposizione non è solo dei sacerdoti: a Roma, su milleduecento, solo quaranta avvocati lo prestano. Napoleone si domanda: «Non c’è dunque un mezzo canonico di punire un Papa che predica la rivolta e la guerra civile?».
Napoleone, per uscire dall’impasse, convoca due consigli ecclesiastici, i quali decidono di non decidere e di rimettere le decisioni finali a un concilio, il quale, a sua volta, decide di non decidere e di rimettere ogni decisione al Papa. La Provvidenza inizia a fare il proprio corso!
Da Savona a Fontainebleau
Alla vigilia della campagna di Russia, Napoleone ordina il trasferimento di Pio VII a Fontainebleau. Partito da Savona il 9 giugno 1812, il Papa arriva a destinazione il 19. Viene immediatamente isolato negli appartamenti che aveva occupato in occasione del soggiorno in terra di Francia per l’incoronazione di Napoleone, il quale cerca in ogni modo di far apparire che il Papa si trovi a Fontainebleau di sua volontà e cerca di attirarsi le sue grazie per potergli estorcere un nuovo Concordato.
Tuttavia, Pio VII sembra totalmente estraneo al fasto che l’Imperatore gli fa trovare: vive isolato, si rifiuta di uscire anche per una semplice passeggiata a piedi o in carrozza, al massimo si concede qualche ora d’aria. Il Papa vive una solitudine volontaria, tutta monastica.
La fine di Napoleone
Al ritorno dalla disastrosa spedizione di Russia (vi parteciparono anche trentamila italiani), Napoleone è ormai lo spettro del grande dominatore. Pio VII, dal suo esilio di Fontainebleau, ne è all’oscuro. L’Imperatore ha bisogno del Papa per rifarsi una reputazione, per ricominciare, per riabilitarsi: nello specifico vuole l’appoggio della Chiesa e del Papa stesso. Vuole la firma di un nuovo concordato e l’ottiene il 25 gennaio del 1813, anche grazie alla libertà concessa a tredici cardinali che si trovavano a domicilio coatto. Il 14 marzo, Pio VII, con una lettera scritta di proprio pugno, fa sapere a Napoleone di ritenere nullo il concordato firmato solo pochi mesi prima.
La fine di Napoleone è ormai scritta: i sovrani di tutta Europa stringono in una morsa l’Imperatore di Francia, il quale, a Lipsia, il 23 gennaio del 1814, perde l’occasione di riscossa. Nello stesso giorno, Pio VII viene liberato; il 4 maggio, Napoleone raggiunge l’Isola d’Elba; venti giorno dopo Pio VII rientra trionfante in Roma.
Il rientro a Roma di Pio VII
Il viaggio di rientro dura dal 23 gennaio al 24 maggio ed è trionfale. Attraversa, prima, il sud-ovest della Francia; poi tutta l’Italia settentrionale, via Savona, Bologna, Imola, Cesena, Ancona, Fano, Loreto, Macerata, Tolentino, Foligno, Spoleto, Terni e Nepi. Il 24 maggio è nella sua città: Pio VII è di nuovo il Sovrano di Roma, di quello Stato che Goethe diceva che «stava in piedi solo perché all’inferno si rifiutavano di inghiottirlo».
Ma lo è per poco: nei cento giorni di Napoleone, il 22 marzo del 1815 deve, di nuovo, abbandonare Roma, a causa dell’attacco del Re di Napoli, Gioacchino Murat, per rifugiarsi a Genova, prima, a Torino, poi, sotto la protezione di Vittorio Emanuele I di Savoia. Il rientro definitivo nella Città eterna avviene il 7 giugno del 1815, quando Vienna gli restituisce integralmente i domini: è l’inizio della restaurazione, ma nulla sarà come prima.
Nulla sarà come prima
Il giudizio su Napoleone è controverso: da riformatore ed erede della Rivoluzione ne diviene prevaricatore del messaggio di emancipazione ed esponente di una logica imperiale che non concede respiro all’indipendenza delle nazioni occupate. Fichte scrive, in riferimento all’occupazione della Germania:
«La perdita dell’indipendenza rende a una nazione impossibile intervenire nel corso del tempo e determinare a sua volta gli avvenimenti. Finché non sarà uscita da questa situazione, non sarà essa a disporre del suo tempo né di se stessa, sarà la potenza straniera, padrona dei suoi destini; essa non avrà più, da questo momento, una vera storia personale (…). Non uscirà da questo stato che alla condizione specifica di veder nascere un “mondo nuovo”, la cui creazione segnerà l’origine di una nuova epoca, di un’epoca personale che essa riempirà del suo sviluppo particolare».
Quanto scritto vale anche per l’Italia: ma quando si libererà dal giogo ecco, allora, la nascita di un «mondo muovo», appunto il Risorgimento. Molti storici pensano che Napoleone sia l’artefice del nostro risveglio: se non avessimo avuto la cattiva dominazione francese non avremmo compreso la necessità di emanciparci, di essere liberi dallo straniero.
Senza Napoleone non avremmo avuto Felice Orsini e forse nemmeno Garibaldi. Dopo Napoleone, nella Penisola, questi pensieri, seppur relegati nei circoli elitari, iniziano a circolare: troveranno tentativi di attuazione nei primi moti rivoluzionari del 1820-21.
Gli ultimi anni del pontificato di Pio VII (1815-1823)
Pio VII, ritornato Sovrano di Roma, lascia ad altri, più competenti, l’amministrazione dello Stato pontificio, precisamente ai cardinali Pacca e Consalvi. Pacca è un riformista, un buon amministratore; il Consalvi, di nuovo Segretario di Stato, è un genio diplomatico: questo binomio garantisce ai sudditi papali un lungo periodo di pace.
Negli anni finali del suo regno (1814-1823), Pio VII prosegue la risistemazione neoclassica di Roma avviata con artisti del calibro di Canova e Valadier (basti pensare al Pincio e a piazza del Popolo). Papa Chiaramonti, il prigioniero di Napoleone, offre ospitalità in «un autentico spirito di misericordia» come sottolineato dal postulatore della causa di beatificazione, don Giovanni Margara, alla madre e alla famiglia di Napoleone, che nel frattempo è in esilio a Sant’Elena.
Il papa può finalmente fare il papa
Tra le misure più rilevanti adottate da Pio VII, dopo il suo rientro a Roma, vi è la promulgazione della bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum del 7 agosto 1814, con la quale restaura universalmente la Compagnia di Gesù, abrogando così il breve del 1773 Dominus ac Redemptor di Clemente XIV (già il 7 marzo 1801, aveva emanato il breve Catholicae fidei, con il quale aveva dato riconoscimento ufficiale alla Compagnia di Gesù in Russia).
Il Papa è convinto dell’utilità dei gesuiti per garantire la ricostruzione religiosa dopo la Rivoluzione, dopo i tremendi anni napoleonici. Ciò spiega perché Pio VII insiste tanto sull’obiettivo di istruire la gioventù nella religione cattolica e di formarla ai buoni costumi, nei collegi e nei seminari, contrapponendola a quella ideologica sortita dalla Rivoluzione francese. Preoccupato dal diffondersi delle idee giacobine in tutta Europa, condanna, nel 1821, la massoneria, dopo averlo fatto, con le società bibliche nel 1816, a causa delle loro origini protestanti.
Il Papa incoraggia l’organizzazione delle missioni parrocchiali, dei ritiri per il clero, i pellegrinaggi e le processioni; promuove le confraternite di laici attraverso la concessione di indulgenze; aumenta il numero delle feste della Madonna, così come rilancia i processi di canonizzazione. Nel corso degli ultimi anni, Pio VII, rimettendosi volentieri al cardinal Consalvi per tutte le faccende temporali dei suoi Stati, fa semplicemente il suo mestiere: il Papa.
La morte di Pio VII il 20 agosto 1823
Il benedettino Pio VII, il Papa «delle rivoluzioni, che attraversò nel pieno del suo svolgersi la storia dell’Impero napoleonico e della Restaurazione di Metternich, che affrontò la prova dei cinque anni di prigionia con una disposizione d’animo provvidenzialista che implicava, da parte sua, fermezza sul piano dei principi, fedeltà all’eredità ricevuta e rassegnazione alla volontà divina[1]», il 20 agosto 1823, all’età di 81 anni, dopo ventitré anni di regno, si spegne. Il suo corpo riposa nella Basilica di San Pietro, all’interno di uno splendido mausoleo, opera dell’artista protestante Thorwaldsen.
Per approfondire:
- Philippe Boutry, Enciclopedie dei Papi, Roma 2000.
- Bernard Ardura, Pio VII, “Vicario del Dio della pace”, Osservatore Romano, 19 agosto 2023 (https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2023-08/papa-pio-vii-chiaramonti-200-anni-morte-osservatore-romano.html)
- Filippo Rizzi, I duecento anni di Pio VII, il papa che affronto “i tempi nuovi”, Avvenire, 19 agosto 2023 (https://www.avvenire.it/agora/pagine/papa-pio-vii-duecento-anni-morte-il-pontefice-che-consacro-napoleone-a-notre-dame)
Nota:
[1] Philippe Boutry, storico francese, biografo di Pio VII.
Consigli di lettura: clicca sul libro e acquista la tua copia!
- M. Mengozzi, I pontificati di Pio VI e Pio VII, Stilgraf, 2000.
- Giovanni Paolo Tesei, I papi che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editori, 2022.
- Carla Nardi, Napoleone e Roma. Dalla consulta romana al ritorno di Pio VII, Gangemi Editore, 2006.