La fine dell’imperialismo zarista e la Rivoluzione d’ottobre del 1917. Il nuovo Panslavismo Internazionalista e federalista (1904-1924): la dottrina Masaryk
Il triennio 1904-1906 costituisce la gioia e il tormento della storiografia contemporanea sulle origini della fine dello zarismo autocratico e sulla parallela decadenza dell’imperialismo panslavista. Scorriamo i fatti più significativi: il 28 luglio del 1904 cade a San Pietroburgo per un attentato terroristico Vjačeslav Konstantinovič Pleve, Ministro degli Interni, capo del governo dello zar Nicola II Romanov e il 4 Febbraio del 1905 una bomba uccide a Mosca il granduca Sergej Aleksandrovič, fratello e primo consigliere dello zar.
Gli autori dei due gravissimi attentati sono individuati nel partito socialista rivoluzionario guidati dal massimo fondatore e animatore del marxismo russo, Georgij Plechanov, e che ha come esecutore materiale Egor Sozonov. Perché? Da capo della Polizia di Alessandro III, Pleve ha russificato la Finlandia, le Province Baltiche e la Polonia, con metodi impopolari spesso sfociati in massacri di massa – i cc.dd. Pogrom – di oppositori locali e spesso di ebrei, in armonia all’antisemitismo che soffia dalla Francia conservatrice, ma finanziatrice delle banche e delle grandi imprese russe rivolte ad industrializzare il Paese.
A questo motivo di rancore etnico, si accompagna il rancore sociale derivato dalla ferocissima strage del 9 Gennaio dei 1905, stavolta favorita dal fratello dello Zar. In realtà il quadro politico interno è divisi in tre aree politiche che chiedono un ammodernamento della Nazione: da una parte, la minoranza liberale filo-occidentale fautrice del partito costituzionale democratico, il partito dei Cadetti (KD), guidato dallo storico Pavel Miljukov (1859-1943), che rappresenta la debole classe borghese, dove le poche città numerose del paese derivano urbanisticamente da insediamenti governativi centralizzati e privi di fondamenti mercantilisti, con masse poverissime organizzate dall’Alto, cioè dalla classe autocratica e conservatrice guidata dallo Zar e che lo vedono come il buon Padre di famiglia, magnanimo come Caterina, Alessandro I e Alessandro II.
Pochi intellettuali progressisti che si limitano a proporre forme minimali amministrative e si limitano a razionalizzare la proprietà privata agraria. Un piccola borghesia già configurata da Gogol a metà ‘800 e poi stigmatizzata da Čechov nel Giardino dei ciliegi, che proprio nel 1904 è messa in scena insistendo sul passaggio dal realismo al melanconico soggettivismo.
Tale sentimento di impotenza di questo primo nucleo di classe dirigente emergerà prepotentemente proprio nel periodo della rivoluzione del marzo 1917, dove Miljukov non riesce a rinunziare al nazionalismo guerrafondaio e prosecutore della Grande Guerra, non comprendendo insieme al più democratico Kerenskij che le masse popolari non sono più disposte a continuare quella guerra in cui sono state trascinate senza un effettivo consenso.
All’opposto troviamo il congresso plenario dei Zemstvo (i consigli locali di iniziativa politica), sorto come reazione democratica della strage del 9.1.1905. In tale giornata, a Pietroburgo, la c.d. domenica insanguinata, quando la Cavalleria zarista carica una massa di povera gente che vuole presentare allo Zar al Palazzo d’Inverno una petizione, in cui si domanda al Piccolo Padre una giornata lavorativa di 8 ore, le libertà civili, organi pubblici democratici e la fine della guerra col Giappone.
Guerra che ha creato una fortissima inflazione e una massa di disoccupati, strumentale proprio a intraprendere quella guerra. Mentre moltissimi coscritti contadini cominciano a dubitare; mentre il pope popolare Gapon predica la pace – ma nel contempo segnala alla polizia i capi della fazione socialista rivoluzionaria, fra cui Aleksandr Parvus, futuro capo della Rivoluzione dell’ottobre del 1917; mentre i liberali progressisti – con in testa il giovane filosofo Berdjaev socialista e cristiano, professano la necessità di una nuova Costituzione democratica; la Cavalleria Cosacca Zarista carica la folla inerme e la Casa Reale appoggerà il Partito ultrareazionario e antisemita cintura nera.
Il solco fra popolo e Zar è tracciato. Malgrado la fine della guerra col Giappone dopo le sconfitte di Liaoyang (Agosto) e Sha-Ho (Ottobre); malgrado la concessione di Nicola di una Costituzione che prevede un Parlamento (Duma) dotato di poteri legislativi e di una moderata legislazione in materia di diritti civili (30 ottobre 1905); tuttavia l’anno 1905 è costellato di numerosi episodi di aperta rivolta, uno dei quali è quello del 14 giugno, il famoso ammutinamento a bordo della corazzata Potëmkin al largo di Odessa.
Qui, il plotone dei marinai che deve fare fuoco sui rivoltosi non obbedisce all’ordine. Saranno ancora i cosacchi – fedelissimi dello Zar – a sparare sul popolo indifeso nella scalinata del porto, scena sublime girata dal regista Ėjzenštejn nel corso dell’epico film del 1925. E così, già dal 1900 un ideologo marxista, tale Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, dal suo esilio di Monaco di Baviera , pubblica saggi e e giornali di ispirazione socialista intransigente, strettamente connesso al Karl Marx rivoluzionario del 1848.
Invece il Marxismo moderato di Plechanov e Martov – i cc. dd. Menscevichi – tende ad affidarsi a una politica di alleanze coi partiti liberali e democratici nella conduzione della riforma del potere, sul modello mazziniano e populista di Herzen. Piuttosto la scuola di Lenin vede nella crisi russa un focolaio più facile alla Rivoluzione operaia immediata. Un processo comandato da una piccola frazione di attivisti e intellettuali materialisti anti-deterministi.
Nell’opuscolo “Che fare” del 1902, Lenin profetizza l’alleanza fra operai della città e contadini delle campagne condita da una tradizione terroristica che rivaluta il fattore individuale nella storia. O meglio, il ruolo della classe dirigente di traino delle masse. Il socialismo rivoluzionario interclassista di Plechanov rimane ora al palo: la prima rivolta dei marinai di Kronštadt (14.6.1905) e la rivolta di una manifattura tessile a Ivanovo-Voznesensk (maggio dello stesso anno) rappresentano due occasioni estremiste del nuovo partito rivoluzionario leninista guidato in Russia da un giovane intellettuale adepto di Lenin, l’ebreo intellettuale Lev Trockij, sostenitore di un volontarismo sovvertitore assoluto, la Rivoluzione Permanente.
Non è questo il luogo per continuare nella cernita di rivolte che i socialisti rivoluzionari – e i loro fratelli leninisti detti bolscevichi – attuano lungo il 1905, rilevando per il momento il parallelo evolversi della corrente socialista di Plechanov e quella marxista-leninista, l’una romantica e spiritualista, l’altra più realista e altrettanto opposta nel suo peculiare anti evoluzionismo ricercando focolai accelerativi della invocata Rivoluzione.
Fenomeno che già la Rivoluzione Francese aveva manifestato nella veste di Girondini libertari incerti sul metodo; e i duri Giacobini, determinati a spezzare anche con la violenza terroristica il potere sia dei liberali centristi democratici, ma anche dei fratelli socialisti considerati troppo legati al mondo borghese.
Realtà che fa parlare di un Termidoro russo nel periodo dal 1906 al 1914, quando il Governo – forte dei finanziamenti anglofrancesi – riesce finalmente a dare un impulso di industrializzazione al Paese, malgrado un parziale revisione delle libertà civili e delle competenze della seconda Duma, che nel 1907, di fronte alla vittoria dei socialisti moderati e dei liberali progressisti, viene chiusa dal Governo Witte e dai Governi liberali conservatori successivi. In breve: fermentano intellettuali filoccidentali che covano riforme sotto le ceneri della Duma nel Governo Witte, o nel successivo Governo di Stolypin.
Tutti rivolti alla modernizzazione della Nazione (ferrovie, industrie militari, ricerca ed estrazione di materie prime, ecc. ecc.) circostanze che alimentano la nascita di una borghesia imprenditrice e di una maggiore urbanizzazione del Paese (1907-1914). La letteratura si rinnova parimenti: dal soggettivismo cecoviano e dal neoromanticismo di Aleksandrovič Blok (1880-1921) – un poeta che anticipa la mitizzazione della donna sull’esempio del danunzianesimo italiano (per esempio i Versi sulla bellissima donna); ora emerge il neorealismo di Maksim Gor’kij che nel 1907 pubblica il romanzo La madre, dove si sottolinea con rara potenza la crescita rivoluzionaria di una donna del Popolo.
Benché nel 1909 la borghesia di Pietroburgo e di Mosca segue con attenzione la musica dei Balletti Russi di Sergej Pavlovič, che da Parigi riporta in Patria le musiche di Stravinskij, Prokof’ev e del rinato Čajkovskij; mentre la pittura con Kandinskij dipinge il primo acquarello astratto; l’inquietudine politica non smette di interrompere l’iniziale crescita culturale e politica della Russia liberale. Infatti, il 14 settembre 1911 un anarchico uccide il Primo Ministro Pëtr Stolypin, reo di avere abbinato una nuova politica economica industriale ad una impressionante catena di processi politici e di impiccagioni nei confronti del partito socialista rivoluzionario.
Il fantasma di Alessandro III ritorna nella storia del Paese nelle vesti del debole Nicola II e della prussiana Zarina Aleksandra, affascinati dalla torbida figura del furbissimo manipolatore Grigorij Rasputin, mistico ortodosso che manipola le sorti psichiche e fisiche della Famiglia Reale, dove l’erede al trono Alexej, ammalato di emofilia, sembra guarire per effetto delle magiche pratiche di quel monaco imponente. La tolleranza dei laici di Corte, la cieca obbedienza degli amministratori centrali e il disinteresse della borghesia dirigente faranno il resto.
La classica logica corruttiva del potere – Karl Kraus parlerà all’epoca di vizi privati e pubbliche virtù – spiega in parte l’imminente deflagrazione mondiale. Peraltro, Lenin ha un asso nella manica con i Paesi dell’Est che invano i Romanov hanno tentato di assorbire in nome della fratellanza imperiale a costo di scatenare conflitti coi Paesi occidentali. Il Leader comunista è lettore di Wilson, il democratico Presidente Nordamericano e di un pensatore slavo di lingua tedesca, Thomas Masaryk (1850-1937).
Ambedue concordano sul diritto di autodeterminazione dei popoli slavi nei Balcani, un’area identitaria soffocata dal pangermanesimo teutonico nondimeno imperialista. E’ una domanda di libertà non lontana dal coevo irridentismo italiano in Istria e in Trentino. E’ Il Masaryk che ottiene a Versailles la istituzione della nuova Repubblica cecoslovacca, di cui sarà Presidente fino al 1936.
Nel suo più famoso saggio politico – Per una nuova Europa (1913) – il sociologo praghese delinea la radicale idea panslavista più originale, l’equivalenza fra fede ortodossa e cultura slava, causa principale della tendenza imperialista zarista, parlando di una maschera positiva indossata da quella classe dirigente per espandere il loro Potere.
Piuttosto, Masaryk, partendo dalla tesi della coesistenza pacifica fra cechi e slavi, del loro paritario diritto alla libertà di scegliere liberamente il proprio sistema di governo e di essere sciolti da ogni carattere coloniale; sviluppa la soluzione della reciproca integrazione spirituale e materiale, la via più democratica per sanare il conflitto etnico fra i popoli giuridicamente presenti in un singolo Stato.
Lenin prosegue da questo punto per sottolineare il dislivello economico come la vera pietra di inciampo foriera di guerre civili, come era avvenuto nelle non poche rivolte dei contadini russofili e dei borghesi germanofili lungo il dominio asburgico, mai obiettivamente contenute se non con l’apporto violento della repressione militare.
Wilson e Masaryk invece credono che razzismo, antisemitismo e diseguaglianze economiche e sociali siano superabili per far cessare le guerre nelle zone di confine e negli stati plurilingue, dove l’invocato spazio vitale per ciascuna etnia nasconde interessi di primazia politica autocratica. L’intuizione di Lenin, costituzionalmente legata al modello federalista statunitense e svizzero, sa di utopia alla luce degli eventi dell’Unione Sovietica di Iosif Stalin, ma merita attenzione in relazione alla attuale situazione dei rapporti fra la Russia di Putin e l’Ucraina democratica dopo la separazione della Madre Russia nel 1991 e fonte del presente conflitto.
Il Panslavismo Sovietico (1925-1968): il sovietismo imperialista secondo Stalin. Il caso della Polonia, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia
Come è noto, la furia guerrafondaia esplosa a seguito dell’attentato di Sarajevo dell’agosto del 1914, rompe il centenario di pace – pur con qualche variante conflittuale cui l’impero russo non è estraneo – che regna in Europa. Appare un saggio di Lenin proprio nel pieno della Grande Guerra: nella Monaco imperiale, il massimo teorico marxista espone la sua lettura del Capitalismo di cui libero mercato e concorrenza rappresenterebbero una minima parte di realizzazione. Piuttosto, il ‘900 era stato e sarebbe per sempre caratterizzato della primazia dei monopoli economici e dalle oligarchie finanziarie.
Era la fase imperialista che la Russia zarista aveva incarnato sotto la maschera del Panslavismo, non dissimile dal Pangermanesimo guglielmino e poi nazista, fino al panlatinismo fascista. Tale fenomeno politico comporta accentramento istituzionale, organizzazione amministrativa burocratica, pianificazione economica, schiavitù delle masse, basso livello di vita, colonialismo in tutte le sue applicazioni e globalizzazione industriale.
Di qui, la rivolta dei Popoli, la fine della civiltà delle macchine e innate relazioni internazionali fondate sulla pace e la collaborazione fra i Popoli, il ripudio delle guerre e il ritorno all’età dell’oro…La Salvezza cristiana, sarebbe stata costituita dall’avvento del Comunismo, ovvero la vita Eterna, come predica il Vangelo…Con l‘imperialismo fase suprema del Capitalismo (1916), la guerra dei Romanov ottiene la certificazione della loro fine. Nell’inverno del 1916 e già nel febbraio del 1917, l’Impero zarista crolla per penuria di pane e combustibili. Il popolo insorgerà, la monarchia decade, un governo provvisorio liberale prenderà lo Stato e saranno previste elezioni universali.
La democrazia sembra prevalere. Ma la guerra – propagandata dal socialista moderato Kerenskij – continua a fianco degli alleati franco- italo-inglesi. E qui la iniziale bivaricazione della storiografia liberale e marxista ricompare con tutta la sua ampiezza. Gli storici liberali e quelli marxisti divergono su un fatto obiettivo, perché alla costituita assemblea costituente si affiancano i consigli (i Soviet) di soldati e operai, ben più radicati nelle masse dietro un debole consenso liberaldemocratico lontano dai gravi bisogni della Società e per di più aggravati dalla guerra.
Dopo un semestre di attesa, Lenin – rientrato dalla Germania con l’appoggio di quello Stato ormai non più nemico e fiducioso del ritiro russo dalla guerra – il 24 ottobre del 1917 conquista con la sua minoranza bolscevica i Soviet della Capitale e poi S. Pietroburgo. E il giorno dopo – malgrado la reazione del Governo Kerenskij e la controrivolta del generale Kornilov. Il popolo affamato e i soldati esausti per la guerra, sotto il comando della Guardia Rossa occupa i Palazzi Pubblici.
Kerenskij fugge negli U.S.A. e l’8 Novembre il secondo Congresso dei Soviet si sostituisce all’Assemblea Costituente. Nasce così con un colpo di Stato – a dire degli storici liberali – il Consiglio dei Commissari del popolo, una Giunta rivoluzionaria analoga al Comitato di Salute Pubblica del 1793 a Parigi. Il primo atto che giustifica la vittoria di quella minoranza – il 24% sul 40% di socialisti rivoluzionari e di riformisti democratici dell’assemblea costituente decaduta – fu l’apertura di immediati negoziati di pace con la Germania, consacrati con l’accordo di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, operazione determinante per confermare il nuovo Governo.
Nondimeno, Lenin e Trotsky – ormai suo fido consigliere civile e militare – proclamano la socializzazione delle industrie e delle grandi proprietà terriere. normativa che comporta finalmente la redistribuzione di quelle terre ai piccoli contadini. E così l’alleanza immediata fra campagna e città è perfetta. Inoltre la Giunta Rivoluzionaria nazionalizza tutte le imprese, le banche e le ferrovie, non mancando poi di revocare ogni debito estero con gli ex alleati e gli ex nemici.
Monopolio economico e monopolio politico; monopolio ecclesiastico e monopolio giudiziario non sono però da meno: il monopartito bolscevico, sull’esempio giacobino, identificherà Stato e Partito, in connessione allo Stato totalitario che fra poco caratterizzerà la Repubblica di Weimar e ben presto l’Italia, vittime della concezione di un partito Unico in disprezzo delle libertà parlamentari conquistate in Occidente nel secolo precedente.
Purtroppo, la Rivoluzione d’Ottobre porta con sé gli stessi mali dell’autocrazia zarista: la polizia segreta diventa CEKA, mentre la leva militare diventa obbligatoria proprio per fronteggiare la guerra civile fra il 1919 e il 1921. Un punto sembra però chiudere l’era panslavista: la scelta di Lenin antimperialista ora ora citata cancella ogni forma di imperialismo politico per essere sostituita da una fratellanza proletaria con indirizzo federalista fra i Paesi balcanici e del Nord Europa.
Infatti lo spirito internazionalista di fratellanza slava, ricercato con alterne vicende nel secolo precedente, troverà nella sinistra di Trotsky un notevole prosecutore nel suo programma di bolscevismo internazionale, proponendo una Rivoluzione socialista permanente nei paesi sviluppati, come avverrà nel 1919 in Germania.
Morto Lenin nel 1924, mentre era in corso in politica interna una Nuova Politica Economica (NEP) dove il Leader bolscevico aveva fatto un passo indietro nei confronti delle collettivizzazioni delle campagne, sostituendo le requisizioni delle eccedenze agricole al pagamento di una tassa fissa; il Commissario Bucharin, ex menscevico, torna a sostenere invece la possibilità di instaurare il socialismo in un solo paese. Il duello con la maggioranza guidata ora da Stalin si combatte nel 1925 con l’idea di appoggiare la Rivoluzione non nell’Occidente capitalista, ma proprio in quelli di lingua slava, i più vicini all’Unione Sovietica.
E dunque un bolscevismo imperiale, cioè la vittoria del socialismo come una mera estensione della nuova Nazione Russa. Ecco perché il primo Governo Stalin attaccherà le campagne a favore dell’industrializzazione bellica, necessaria per occupare finalmente le aree slavofile confinanti. E proprio a proclamare una repubblica popolare bolscevica è l’Ucraina (Novembre, 1917) e dopo una prima guerra civile, durata un anno, già febbraio del 1919 l’Ucraina bolscevica diverrà una Repubblica Socialista Sovietica, malgrado il citato Trattato di Brest-Litovsk prescriva la rinuncia della Russia alla Finlandia, all’Estonia, alla Livonia, alla Curlandia, alla Lituania, alla Polonia e alla stessa Ucraina.
In realtà, la politica staliniana ha ormai abbandonato la scelta di Lenin di interpretare il Panslavismo come libera scelta dei popoli, ritornando Stalin ad aderire alla Rivoluzione nei paesi confinanti, sviluppando piuttosto l’aumento dell’industria bellica. E’ il caso della Polonia conservatrice, appena divenuta Stato indipendente a seguito del Congresso di Versailles del 1919, appare interessante per dare un quadro effettivo delle difficoltà iniziali della appena nata Unione Sovietica.
La Polonia del giovane generale Józef Piłsudski decide di riconquistare i territori che Alessandro I Romanov aveva annesso un secolo prima strappandoli al Vecchio Regno austriaco e dunque nell’Aprile del 1920 annette l‘Ucraina Sovietica. L’armata rossa contrattacca e il 14 Agosto giunge a pochi chilometri da Varsavia. I polacchi resistono con l’appoggio francese e la guerra riprende con più violenza, finché con La Pace di Riga nel 1921, la Polonia riprende Leopoli.
Interessante è però che questo breve rivolgimento dei confini di Varsavia, consente a Danzica di divenire una città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni, giusto il plebiscito dell’8 gennaio 1922 che confermerà l’annessione della Polonia di Piłsudski della ex città libera di Vilna. Scambio di Autonomia e di Sovranità alquanto complesso, da cui deriverà fra meno di 20 anni la questione formale che porterà alla Seconda Guerra Mondiale sul tema di Danzica tedesca.
Dalla Polonia alla Cecoslovacchia. Qui, il germe della seconda guerra mondiale è rappresentato dalle Regioni dei Sudeti di lingua tedesca. Il nuovo Stato è retto dal Masaryk proprio per mediare il naturale conflitto fra le nazioni di lingua tedesca e di lingua slava. Esso diviene certamente uno Stato plurilingue, ma di unica forma giuridica federale, una forma di Stato che si attaglia dal pensiero del lungimirante capo di Stato e che innova la logica panslavista in senso federale.
Quanto all’Ungheria, la questione è ben più complessa e giustifica fin dagli anni ’20 l’adesione alla Germania Nazista in virtù di una situazione di vittoria mutilata analoga al fenomeno del coevo Fascismo. Infatti, dopo una breve guerra civile connessa alla caduta dell’Impero Asburgico, il nuovo Governo del generale Horthy, firma a Versailles nel 1920, il trattato di pace del Trianon.
Qui, l’Ungheria perde buona parte del Regno a favore della Cecoslovacchia, della Jugoslavia e della Romania, circostanza che rende questo paese uno dei maggiori poli di rancore verso i Paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale, il maggiore alleato della Germania di Adolf Hitler, il nemico più duro della Russia Sovietica; e oggi il Paese dell’Unione Europea più scettico, per non dire il più tendente a rompere il processo unificativo. Certamente lo spirito panslavista della scuola di Masaryk, rivolto alla autodeterminazione dei popoli invocata da Woodrow Wilson – e fondativa del pensiero Mitteleuropeo del secondo dopoguerra – è negli anni ’20 e ’30 molto lontano.
E tale ulteriore effetto disgregativo oggi può spiegare la fuga verso la Nato di molti paesi dell’Est europeo che ripudiano e temono un effetto annessivo mai sopito dell’Orso Russo, anche nelle vesti comuniste del colosso sovietico dopo la Rivoluzione d’ottobre prima e dopo la caduta del Muro di Berlino poi. Del resto, lungo il Potere di Stalin – durato fino al 1953 – gli episodi aggressivi sui paesi confinanti avevano per presupposto l’esatto contrario della dottrina federalista leninista.
Dopo un periodo di incubazione interno (1929-1939) – con l’autocrazia Sovietica prima rivolta alla coltivazione razionale delle campagne, con la eliminazione fisica dei contadini agiati (Kulaki), nonché delle aziende agricole individuali sostituite con la forza da aziende collettive di Stato (Kolchoz), un processo di progressiva distruzione della base operativa della classe zarista – Stalin e Molotov – poi suo Ministro degli Esteri di ottima preparazione tecnica nell’affrontare le diffidenze della Germania Nazista di fronte allo speculare colosso sovietico – pongono in essere l’azione più pericolosa per le sorti della democrazia europea: il Patto Molotov – Ribbentrop, di spartizione della Polonia e del resto dell’area balcanica.
Trascritto in una serie di protocolli segreti. La prova più evidente del nuovo imperialismo tedesco e russo, la tomba reale del progetto utopico di Lenin e di Wilson, almeno fino all’invasione della Russia da parte di Hitler nel 1941, una feroce guerra patriottica contro la Germania sempre più pangermanista alla conquista dello spazio vitale slavo.
Altri due episodi confermano l’acquisizione del modello panslavista, in forma imperialista: il 7.10.1949, nella zona di occupazione sovietica è istituita la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), vale a dire la Germania Est e nel 1955 l’Unione Sovietica, l’Albania, la Bulgaria, l’Ungheria, la Germania Est, la Polonia, la Romania e la Cecoslovacchia firmano a Varsavia un trattato di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca, fino a garantire la loro sicurezza nell’interesse del mantenimento della pace in Europa, nonché la mutua difesa e l’intervento alleato diretto in caso di un attacco contro uno stato membro.
Sono gli anni più duri di guerra fredda con i Paesi occidentali, già coalizzati nel Patto Atlantico (NATO) del 1949 che ha lo scopo di istituire un’analoga alleanza militare di carattere antinazionalista e antisovietica. E’ il ventennio che riduce le guerre a ipotesi marginali – per es, la Corea e la crisi di Suez – con interventi degli USA e dell’URSS in via indiretta (1949-1969), senza contare i casi dell’Ungheria e della Cecoslovacchia come è noto. Benché sia un periodo in cui vengono perfezionate sia il modello industriale che quello di massimo Welfare State, tuttavia emergono le carenze del Regime monopartitico in URSS, di pianificazione centrale, di profonda militarizzazione della vita sociale.
Sono gli anni che confermano lo spirito imperialista sovietico direttamente derivato dal Regime Zarista e che trova fortissime critiche degli intellettuali dissidenti, primo fra tutti Aleksandr Solženicyn, con il suo Arcipelago Gulag (1918-1956), una cronaca avvincente quanto memorabile che negli anni ’70 aprirà un esiziale dibattito culturale che porterà nel 1989 ad uno sbocco positivo nella caduta del muro di Berlino e nel crollo dell’URSS.
I libri consigliati da Fatti per la Storia!
- Sulla interpretazione della Rivoluzione d’Ottobre, sia nelle scuole storiche liberali che in quelle marxiste, vd. SERGIO ROMANO, Il giorno in cui fallì la Rivoluzione, Milano, 1918, nonché VITTORIO STRADA, Storia del Marxismo, Torino, 1979. Sugli anni successivi alla morte di Stalin e agli anni della guerra fredda, cfr. FEDERICO ROMERO, Storia della guerra fredda, Milano, 2009.
- Sul pensiero internazionalista sovietico e sulla tragedia dei contadini nella Russia di Stalin, LYNNE VIOLA, Stalin e i ribelli contadini, Rubbettino,1999.
- Sull’apogeo dell’URSS e sulla sua successiva decadenza (1972-1980), vd ANDREA GRAZIOSI, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Il Mulino, Bologna, 2008.