CONTENUTO
Il termine Otium
Il termine otium nella Roma antica indica il tempo libero dalle occupazioni della vita politica e dagli affari pubblici (cioè da quelli che vengono definiti i negotia), tempo che può esser riservato a diverse attività come le cure dedicate alla casa o al podere, la meditazione e gli studi (l’attività letteraria, otium litterarum); insomma un periodo di quiete e di riposo, di diversa durata e assai gradito a chi lo pratica e che, solitamente, interrompe le abituali fatiche di ogni giorno.
E’ tuttavia anche un vocabolo che nasconde delle insidie, in quanto non proprio chiarissimo etologicamente, per il fatto che racchiude un ampio ventaglio di attività ed interessi nonché aspetti molteplici a seconda dei diversi individui[1]. Ad esempio in un’epistola del II secolo lo scrittore e magistrato Plinio il Giovane confessa ad un amico di “praticare in parte gli studia e in parte la poltroneria, ambedue frutto di otium”[2].
La pratica dell’Otium nell’antica Roma
Quasi tutte le personalità più importanti di Roma, in primis imperatori e aristocratici, possiedono almeno una villa lussuosa sul litorale campano che rappresenta la località turistica per eccellenza, quella più frequentata: alberi e piante, sontuosi colonnati ed affreschi, fiori colorati, arricchiscono terme, ville e giardini, questi ultimi diventano sinonimo di agiatezza e prosperità, luogo ideale per praticare con beatitudine la nobile arte dell’otium. Le funzioni dei giardini sono molteplici: rappresentano un posto dove passeggiare, chiacchierare o discutere con amici e parenti, mangiare e bere, gustarsi il meglio della vita attraverso momenti di benessere e pace interiore, contemplare beatamente gli affreschi sotto i porticati.
La Villa dei Papiri, ribattezzata anche con il nome di Villa dei Pisoni, rappresenta un esempio eccellente di questa tendenza: costruito a strapiombo sul mare, l’edificio è stato sepolto durante l’eruzione del vulcano Vesuvio nel 79 per poi essere riportato alla luce grazie agli scavi archeologici. La villa viene così chiamata poiché al suo interno conserva un’enorme biblioteca, con oltre milleottocento papiri, che affaccia sul giardino contornato da un portico con sessantaquattro colonne e al centro un’ampia piscina; possiamo a buon ragione ritenere che in questo luogo i proprietari abbiano in passato dedicato molto del loro tempo alla lettura che rappresenta l’aspetto più intellettuale e riflessivo dell’otium.
Secondo il pensiero di un uomo dalla morale intransigente quale Catone il vecchio (234-149 a.C.), al quale viene tra le varie cose attribuito il detto che ha riscosso parecchia fortuna “l’ozio è il padre dei vizi”, l’otium, che non deve essere confuso con la “inertia” (ovvero l’assenza di ogni ars) e neanche con la “desidia” (cioè il fatto di “stare sempre seduti”) è la più autentica manifestazione delle antiche virtù romane, l’operosità in primo luogo, incarnate dal “mos maiorum”. Catone, infatti, che addirittura propone di lastricare il foro con pietre molto appuntite per non far sostare i passanti romani a chiacchierare pigramente, come fanno oltremisura gli oziosi greci, è convinto che “dagli uomini grandi ci si aspetta che sia grande non solo il loro modo di esercitare negotia, ma anche quello di comportarsi negli otia”[3].
L’austero Catone, dunque, riconosce il fatto che si possa essere importanti all’interno della società romana non solo nell’azione pubblica ma anche praticando l’otium. Una riflessione questa accolta in parte anche dall’avvocato e politico Marco Tullio Cicerone che nei suoi scritti tende a confrontare spesso il suo otium con quello di altri illustri personaggi quali ad esempio Publio Cornelio Scipione l’Africano (236-183 a.C.) e il suo contemporaneo Cassio Longino. Infatti, mentre quest’ultimo impiega il suo tempo libero soprattutto leggendo orazioni, c’è qualcuno altro sicuramente più illustre che, come afferma orgogliosamente Cicerone, impegna il suo otium a scrivere tali orazioni: “tu dici che, quando sei otiosus, leggi delle orazioni: allora sappi che io, quando sono in otium, le orazioni le scrivo”[4].
Nel tormentato periodo della guerra civile tra Cesare e Pompeo alcuni importanti letterati come Cicerone, Tito Lucrezio Caro (94-50 a.C.) e Gaio Valerio Catullo (84-54 a.C.) esprimono attraverso le loro opere la disillusione dei loro progetti politici, mentre altri come Catullo (84-54 a.C.) e Lucrezio (94-55 a.C.) contribuiscono a creare la nuova figura dell’intellettuale che si allontana dall’impegno politico e si isola dedicandosi quasi interamente alla letteratura. Catullo trova conforto nella poesia amorosa, Lucrezio, invece, decide di isolarsi nell’individualismo epicureo e di dedicarsi alla ricerca della verità facendo ricorso nelle sue opere ad un linguaggio poetico solenne ed antico.
L’Otium per Cicerone e Sallustio
Cicerone[5], il quale considera l’otium come una caratteristica dell’uomo libero che ne può fare strumento sia di impegno civile che politico, nell’opera filosofica “De officiis” scritta nel 44 dopo l’assassinio di Caio Giulio Cesare, riconosce che il suo ozio non è paragonabile a quello di Scipione l’Africano poiché, a causa della situazione politica, è costretto a restare nelle sue proprietà fuori Roma.
Dunque mentre l’Africano, per trovare ristoro dagli spossanti impegni pubblici, di tanto in tanto cerca rifugio nella solitudine, “l’otium di Cicerone deriva dalla penuria di negotium, per colpa della disgregazione dell’autorità del Senato e del sovvertimento della Res Pubblica; prima abituato a vivere in mezzo allo sguardo dei propri concittadini, ora è spesso solo; eppure, secondo l’insegnamento dei filosofi, anche egli cerca di rendere proficuo l’otium, senza illanguidire in quella condizione”[6].
Anche Sallustio (86-35 a.C.), come Cicerone, dimostra di avere un approccio essenzialmente funzionale verso l’otium:
«Ma io nel principio, da adolescente, così come la gran parte, fui trascinato dalla passione per lo Stato, e allora ebbi molte delusioni. Infatti al posto del rispetto, del disinteresse e del merito, vigevano la sfrontatezza, l’avidità e la corruzione. Allora, quando il mio animo trovò sollievo dopo sventure e pericoli, e decisi che il resto della vita l’avrei trascorso lontano dalla politica, non fu mia intenzione di lasciar consumare il tempo nella pigrizia e nella inoperosità, ma neppure trascorrere il resto della vita intento alla coltivazione dei campi, alla caccia, o a lavori umili; ma, ritornato alla primitiva occupazione, ossia lo studio, dal quale la nefasta ambizione politica mi aveva allontanato, decisi di scrivere i fatti storici di Roma»[7].
L’illustre avvocato della Roma repubblicana ritorna spesso con i suoi scritti e con i suoi discorsi pubblici sul tema della pratica dell’otium, suggerendo a quegli uomini virtuosi e nobili d’animo, desiderosi di rendere grande Roma, di tentare di armonizzare le attività della sfera pubblica con quelle della sfera privata; per esempio nel 55 a.C., durante i giochi per l’inaugurazione del teatro dedicato a Pompeo Magno, Cicerone invia una lettera ad un amico, missiva nella quale approva la sua scelta di restarsene a riposo nella villa confortevole fuori città, “immerso in un otium fruttuoso” impiegando le giornate in piacevoli letture in “un cubiculum con vista sul golfo campano e trascorrere il resto della giornata in divertimenti (delectatio)”[8].
I luoghi dell’Otium: Horti e Ville
Ma quali sono i luoghi privilegiati e preferiti per praticare la nobile arte dell’ozio? Senza alcun dubbio gli Horti e le Ville che garantiscono un distacco mentale e fisico dagli affanni della vita quotidiana. A partire dal II secolo a.C., nella fascia periurbana della capitale dell’impero, si sviluppa gradualmente una cerchia di giardini protetti da muri di cinta che includono al loro interno dimore, edifici termali, portici, padiglioni, viali da passeggio, templi.
In questo contesto sono diversi gli horti frequentati dai benestanti, le fonti ne contano circa una settantina: celebri quelli situati sul colle del Quirinale appartenuti a Cornelio Scipione Emiliano, così come quelli sull’Esquilino e i Lamiani di proprietà del consigliere di Ottaviano Augusto Cilnio Mecenate e di un amico di Tiberio, in Campo Marzio sono situati invece gli horti appartenuti prima a Pompeo e dopo a Marco Antonio.
Molti di questi Horti a partire dal I secolo d.C. confluiscono, con la scomparsa dei loro legittimi proprietari, nel demanio imperiale, scarsi sono al contrario i casi di horti imperiali riacquistati da privati. A differenza degli horti le ville, invece, consentono ai cittadini comportamenti più disinvolti rispetto agli spazi privati situati nell’Urbe. Solitamente si distinguono per questo periodo due tipi di strutture, la villa rustica e la villa di otium: le due locuzioni “rimandano rispettivamente ad un impianto con una sviluppata parte produttiva e a una sontuosa dimora extra-urbana con un più ampio settore residenziale”[9].
Le ville di otium sorgono principalmente, oltre che in Campania, anche in alcune zone del Lazio e nell’Etruria meridionale, nel periodo in cui l’aristocrazia romana comincia ad emulare lo stile di vita e i modelli architettonici dei greci. Tali dimore hanno spesso anche finalità produttive, in esse i proprietari oltre all’agricoltura praticano altre attività come la floricoltura, l’itticoltura, l’allevamento di uccelli e di animali da cortile.
Ben presto la costruzione di ville e domus private si trasforma in una vera e propria competizione tra le personalità più in vista, della Repubblica prima e del Principato poi, confronto nel quale si deve fare sfoggio della propria opulenza, senza ritegno alcuno; a tal proposito con disappunto Catone l’Uticense si sfoga in Senato, durante un dibattito relativo alle pene da applicare contro i complici del sovversivo Lucio Sergio Catilina (108-62 a.C.), constatando amaramente che ormai i senatori provano maggiore interesse per “domus e villae, insieme a statue e quadri”[10], rispetto al bene comune della res pubblica.
L’ozio per Seneca
Ad occuparsi in maniera approfondita dell’ozio è anche il filosofo Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65), principalmente nei due dialoghi De Brevitate vitae (La brevità della vita) e De otio (La vita contemplativa). Seneca con la sua riflessione armonizza e fonde la concezione stoica dell’otium con quella epicurea; in quest’ottica l’ozio deve essere inteso come lo spazio che l’uomo saggio deve ritagliarsi per ricercare la verità e per migliorarsi, così facendo egli apparirà una persona migliore anche agli occhi degli altri, rendendosi utile alla collettività sia politicamente che socialmente: “Quando lo stato è corrotto oltre ogni rimedio, se è nelle mani dei malvagi, il saggio si risparmierà sforzi inutili e non si sacrificherà nella previsione di non conseguire alcun risultato”[11].
Negli ultimi anni della sua vita Seneca si convince della necessità che l’otium filosofico vada scelto sin da ragazzi, poiché è l’unico modo per ritagliarsi del tempo fondamentale per realizzare il proprio bene sviluppando, allo stesso modo, la propria umanità. Per tale motivo “il raggiungimento della virtus da parte dell’individuo può richiedere la sua astensione completa dalla vita attiva (l’otium illibatum) e la sua dedizione esclusiva alle bonae artes, ma non equivale ad un vantaggio zero per la sua comunità”[12].
Proprio il saggio, infatti, è l’unico che può aiutare concretamente e realmente i propri concittadini e per definire l’azione benefica dell’uomo saggio Seneca utilizza anche vocaboli ripresi dal lessico della medicina: “il saggio prodest, fa bene come un farmaco curativo; con la sua mancanza nocet, ovvero fa male all’organismo della collettività”[13]. Con il diffondersi successivamente del cristianesimo la considerazione dell’ozio subisce un’importante svalutazione tanto che nella teologia morale tale pratica inizia ad essere considerata nociva poiché con essa l’individuo tende a trascurare quelli che sono i propri doveri quotidiani.
NOTE:
[1] Diversi aggettivi, sia positivi che negativi, vengono associati all’otium, di seguito alcuni esempi: triste, occupatum, iners, ignobile, ignavum, dulce, honestum, moderatum, pingue, tranquillum, bonum, malum, desidiosum.
[2] Massimiliano Papini, Il riposo dell’imperatore. L’otium da Augusto alla tarda antichità, Editori Laterza, Bari, p. 4.
[3] Cicerone, Pro Plancio, 27, 66.
[4] Maurizio Bettini, Le virtù dell’ozio romano, La Repubblica, 31 marzo 2012.
[5] In un discorso del 54 Cicerone, che spesso era solito compiacersi del fatto di non essere mai eccessivamente otiosus, pronuncia una massima presente nell’opera Origines di Catone il Censore: “Gli uomini illustri e grandi devono rendere conto dell’otium non meno del negotium”.
[6] Massimiliano Papini, Il riposo dell’imperatore. L’otium da Augusto alla tarda antichità, Editori Laterza, Bari, p. 5.
[7] Sallustio, De coniuratione Catilinae, 3, 3-5; 4, 1-4.
[8] M. Papini, Ibidem, p. 8.
[9] Ibidem, p.12.
[10] Ibidem, p.18.
[11] L.A.Seneca, De Otio, a cura di I. Dionigi, Brescia, Paideia, 1983, p. 143.
[12] Maurizio Bettini a cura di, Limina. Letteratura e antropologia di Roma antica. L’età imperiale e la tarda antichità, La Nuova Italia, 2009, p.61.
[13] Ibidem, p. 62.
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- Massimiliano Papini, Il riposo dell’imperatore. L’otium da Augusto alla tarda antichità, Editori Laterza, Bari, 2023.